giovedì 23 aprile 2020

Matrix e Convid19 a confronto








Alcuni anni fa, durante uno degli ultimi cine-forum a sfondo psicanalitico che dirigevo, proposi per l’ennesima volta il film del 1999 diretto dai fratelli Wachowski: Matrix il quale, oltre a ricevere numerosissimi premi, registrò uno dei più forti impatti culturali di tutti i tempi… un film che, presentatosi sotto le mentite spoglie della fantascienza, mi dava il permesso di entrare in molti dei miei temi di discussione preferiti da sempre. Mi stimolava il fatto che, volendo, avrei sempre potuto trovare nuovi spunti per affrontare temi fino ad allora non del tutto approfonditi.
Così fu quell’ultima volta. Come sempre, all’inizio, cercai di chiarire i significati che si celavano dietro i nomi dei protagonisti e dei luoghi in cui si svolgeva l’azione (Neo, Trinity, Bianconiglio, Morpheus, il Nabucodonosor, l’Agente Smith, la città di Zion) e quali “forze” dell’animo umano avremmo visto in gioco nella trama del film. Ma accortomi che la maggior parte dei convenuti, quella sera, erano spettatori di vecchia data, amici che già avevano partecipato almeno ad un altro incontro sullo stesso film, decisi che una volta tanto avremmo fatto diversamente. Perciò dissi loro che, ad un certo punto, avrei interrotto il film per dedicarci e approfondire il tema che quell’ultima sequenza proponeva.
Feci dunque partire il film e mi fermai subito dopo la scena in cui Chyper tradisce Morpheus e lo consegna agli Agenti in cambio di un ritorno permanente in Matrix. Il dialogo tra lui e l’agente Smith, durante la cena in un lussuoso ristorante virtuale, suona pressappoco così:
- La realtà, agente?... Ma che cos’è la realtà?... Vede, io so benissimo che lo squisito sapore di questo boccone di lombata arrosto si traduce in una manciata di bit, così come lo è il sapore e l’odore di questo meraviglioso vino d’annata, o il piacere che potrebbe procurarmi quella bellissima donna seduta al tavolo di fronte a noi. Ma, vede agente, queste sono esattamente le sensazioni che i miei organi proveranno, queste sono le realtà che io sperimenterò… per cui, sì! Agente, rimettetemi pure nel computer e in cambio di questa mia delazione vorrei che mi concedeste di essere ricco, celebre, ammirato e desiderato dalla più belle donne del programma.
Spensi il proiettore, accesi la luce e chiesi al mio piccolo pubblico: “Allora, che cosa ne pensate? Alla fin fine, anche se con la coscienza addormentata per sempre all’interno di una macchina, se le sensazioni che potremmo provare sono di immenso piacere… perché non prediligere una realtà virtuale a quella così detta vera? Cosa mai distingue la realtà che viviamo tutti i giorni, e che molti oramai affermano essere relativa, da una realtà virtuale creata da una macchina a cui potremmo essere attaccati? Calatevi fino in fondo in una plausibile possibilità di questo tipo, immaginatevi che sia possibile realizzarla (ed è vero che tecnologicamente ci siamo vicinissimi) e siate spregiudicati… tutto sommato, perché no? E se è no… perché no?
Era chiarissimo a tutti che li stavo provocando. Che li costringevo ad immaginarsi connessi ad un mega-computer capace di soddisfare sensorialmente tutti i loro più profondi desideri e a chiedersi per quale reale motivo avrebbe avuto un senso rifiutare una tale possibilità.
Il silenzio si protrasse per diversi minuti, e solo con estrema difficoltà la discussione imboccò la direzione che io mi aspettavo prendesse: quello della realtà della realtà. Un tema arduo, difficilissimo da sviluppare in maniera corretta e rigorosa e che, se lo si vuole affrontare con assoluta onestà e lucidità di pensiero conduce al testo “Filosofia della libertà” di Rudolf Steiner o a quelli, altrettanto rigorosi di Massimo Scaligero.
Molti dei miei ascoltatori non avevano alcuna preparazione in filosofia o in meccanica quantistica, perciò non sapevano nulla del dogma kantiano che impedisce da secoli, a chiunque, di professare una qualunque certezza sulla realtà-in-sé (o cosa-in-sé) oggetto dei nostri studi, né tantomeno sulla relatività del mondo fenomenico.
Fu una fortuna, perché senza l’ingombro della dialettica intellettuale, cerebrale e astratta propria delle persone più colte, alla fine arrivammo molto vicini ad una presa di coscienza dell’irrinunciabile valore della realtà oggettiva del mondo e del suo significato ai fini del raggiungimento o meno della libertà dell’uomo.

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Sono passati molti anni da allora, e ci troviamo oggi di fronte ad un evento epocale che sta distruggendo non tanto o non solo il mondo nel quale fino ad ora avevamo vissuto ma, soprattutto, la coscienza dell’uomo moderno contemporaneo. Un virus… un essere al confine tra la vita e la non-vita, così piccolo da essere invisibile anche per la maggior parte dei microscopi, strumentalizzato senza alcun pudore da lobbies politiche ed economiche… un virus sta aggredendo la nostra coscienza portandola a sbilanciarsi a favore di una realtà virtuale cui affidare il significato della propria vita.
Sono bastati due mesi di segregazione agli arresti domiciliari e un bombardamento mediatico senza precedenti di TV e giornali allineati al Pensiero Unico per istupidire la coscienza collettiva di un’intera nazione e generare consensi verso la missione salvifica della nuova tecnologia.
Sempre più spesso, in questi giorni, mi sono sentito dire che: una App che ci indica chi fosse contagiato?… Be', in fondo… essere schedati e tracciati per avere un feed-back continuativo sul proprio stato di salute… e, in più, potersi difendere da chi fosse aggredito dal male e volesse celarlo… perché no? E poi, in fondo: “Non ho nulla da nascondere io”.  E il lavoro da casa, perché no? Niente più automobile, spese per la benzina, parcheggi… niente più autobus, metropolitane, corse affannate sotto la pioggia o sotto il sole. Dai… mica male, no? Fare la spesa online e vedersi i prodotti alimentari consegnati a domicilio, ma anche libri, vestiti, liquidi svapo, elettrodomestici, gli ultimi accessori Hi-Tech… bello nevvero? E anche la palestra, sostituita da pedane e cyclette che, con grandi schermi ci proiettano in ambienti naturali che non avremmo mai potuto davvero visitare… e, magari, insieme a persone che vivono in altre lontane città del mondo. E poi coche privati, che insegnano solo a noi… Insomma, perché no? E la scuola per i nostri figli… via Zoom o Skype, con gli insegnati che controllano la situazione da remoto… tutto sommato… staremmo tutti insieme a casa, e l’istruzione sarebbe pur sempre la stessa. E su piattaforme virtuali potremmo addirittura incontrarci, approfondire la nostra conoscenza e, pian pianino, scoprire quanto piacere potremmo darci anche così, eccitandoci reciprocamente e osando virtuosismi erotici che in realtà mai avremmo osato. Davvero… perché no?
Tutte queste possibilità non sono il futuro. Sono il presente che attende solo di essere accettato.
Quelli che ragionano, che pensano davvero e che vedono i pericoli insiti in questa catastrofe coscienziale sono pochi. Sono pochissimi, se paragonati a coloro che un passo dopo l’altro si stanno lasciando attrarre dal miraggio di un collegamento continuo con il proprio computer e, attraverso quello, con la ben più Oscura Intelligenza Artificiale animata dal Signore di Questo Mondo.
Nessuno, o almeno pochissimi, si rendono conto del disastro irreversibile che stiamo tacitamente giustificando. Il valore oggettivo della Realtà, la realtà della realtà, la verità spirituale oggettiva di questa dimensione terrena nella quale stiamo vivendo la nostra vita di uomini è quasi del tutto sconosciuta alla maggior parte delle persone. Il significato della vita è minacciato, e molti sarebbero pronti a giurare ubbidienza al Grande Inquisitore di turno pur di avere garanzia e sicurezza per le loro piccole non-vite.
I primi, non risibili effetti, sono sotto gli occhi di tutti.
Nel mio piccolissimo, già registro bambini con il panico di uscire dalla protezione della casa e poter incontrare altre persone infette, poliziotti cattivi o, addirittura il Mostro in prima persona (il “Birus” come balbetta il figlio cinquenne di una mia cara amica). E che dire della graduale perdita dell’impulso all’incontro-confronto con gli altri bambini, della loro naturale socialità e della primigenia fiducia nel mondo? In soli due mesi abbiamo creato Imprinting che intaccheranno l’essere profondo delle future generazioni e non vorrei essere nei panni dei miei futuri colleghi quando, tra venti o trent’anni, si troveranno a dover risalire all’origine di chissà quali disturbi della personalità dei loro pazienti. Se saranno terapeuti anziani, forse il ricordo dell’abominio che oggi, tutti noi, attraverso una sorta di complicità tacita, stiamo imponendo alle nuove generazioni, potrà orientare la loro ricerca. Ma la vedo dura… e, se le cose dovessero proseguire in questa direzione, sarò felice del fatto che non vivrò così a lungo da vederne i tragici effetti.

Nel film (il primo Matrix, finito e compiuto in sé stesso, perché gli altri due sequel sono solo una “marchetta” ai botteghini), Neo sconfiggerà Matrix, grazie all’assoluta fede di Trinity nell’amore che alberga nel suo cuore. Un amore così puro e assoluto che riuscirà a sconfiggere la morte e a far crollare il piano diabolico in cui il mondo era irretito.
Ci sveglieremo anche noi da questo incubo collettivo? O lo faremo solo quando sarà troppo tardi? La partita, per ora, è ancora aperta…

Ah, dimenticavo… quella sera, alle mie provocatorie domande, solo due persone si avvicinarono intuitivamente a cogliere perché, qual ora ne avessimo la possibilità, sarebbe terribile scegliere la “realtà virtuale” e a immaginare per quali occulti e sani motivi bisognerebbe rifiutarla.
Erano due donne. Non credo sia stato un caso.


domenica 5 aprile 2020

Il Complottista










C’era una volta, molti e molti anni or sono, un “Linguaggio umano” pressoché parlato e compreso dalla maggior parte degli uomini. Le Parole di cui era composto – lo si sapeva bene – avevano un’origine sacra: provenivano dal Verbo, o Azione Primordiale, vera e propria Forza Attiva creatrice di mondi che, attraverso il Suono, aveva originato prima le forme, dalle forme gli enti (o le cose) e, riecheggiando poi attraverso la laringe degli esseri umani, si era fatta linguaggio.
Un codice, quello verbale, che attraverso le parole di cui era composto in quei lontani tempi, evocava la Verità. Un idioma al quale bastava abbandonarsi con fiducia per ritrovare, almeno in parte, il senso del proprio esistere nell’esilio terreno. Le parole erano magiche!

Nella clessidra cosmica del Tempo, però, la sabbia disperdeva inesorabile i suoi granelli e ad ogni rotazione di 180° si estingueva un’era e una nuova ne iniziava, ma sempre più dimentica delle proprie origini divine. Così, piano pianino, il linguaggio umano degenerò perdendo l’originale corrispondenza tra il suono e il suo significato.
Esseri Oscuri, che da tempo immemore anelavano a impossessarsi del creato, giudicarono opportuno approfittarne: si fecero pressanti sull’anima degli uomini e, fingendo di esaltarne l’acume cerebrale, restaurarono l’antica Babilonia. Bastò Loro manomettere lo “specchio riflettente” dell’uomo e le parole persero definitivamente la corrispondenza con i suoni dai quali erano state originate, i suoni persero la forma che apparteneva loro fin dagli albori del tempo e, con la forma, si disperse il significato a cui prima rimandavano. Gli Esseri Oscuri esultarono: nessun uomo più comprendeva l’altro… il sospetto e il dubbio erano la regola e nella dissoluzione di ogni concetto o principio di riferimento gli umani persero di vista quel traguardo di fraternità, amicizia, complicità e coesione che erano stati sfidati a raggiungere. La vita sociale degenerò.

Questo lo sfondo della storia che stiamo per raccontare.
Soltanto pochi decenni fa la parola: Paranoia faceva parte della nosografia psichiatrica e con essa si intendeva una psicosi caratterizzata da un delirio cronico, basato su un sistema di convinzioni, principalmente a carattere persecutorio, non corrispondenti alla realtà. Questo sistema di convinzioni si manifestava sovente nel contesto di capacità cognitive altrimenti integre. La paranoia non era quindi un disturbo di ansia, bensì appunto una psicosi. Si trattava in sostanza di disturbi del pensiero (giudizio distorto, sbagliato) di cui il paziente non era in grado di prendere coscienza. Alcuni studiosi ritenevano, perciò, forse non a torto, che in questi soggetti avvenisse una destrutturazione della “coerenza” implicita e necessaria nei sillogismi che sono alla base del ragionamento comune (la deduzione aristotelica). Così che, tanto per fare un esempio classico, mentre nella persona di sano intendimento il sillogismo si sviluppa nel seguente modo:

“Socrate è un uomo
Tutti gli uomini sono mortali
Socrate è mortale”

Nel paranoico lo stesso sillogismo avrebbe potuto facilmente distorcersi in

“Socrate è un uomo
Tutti gli uomini sono mortali
Tutti gli uomini sono Socrate”

Come si può osservare, la perdita della “coerenza” tra premessa maggiore affermativa o negativa, e premessa minore (o secondaria), distorcerebbe la conclusione necessaria che da quella coerenza dovrebbe derivare.
E adesso aggiungiamo al disturbo cognitivo così caratterizzato del paranoico:
1) una delirante convinzione di essere perseguitato che, quasi sempre, rappresenta una sorta di degenerazione patologica di tratti caratteriali come pregiudizio, diffidenza e insicurezza (perdita del controllo) di oscura derivazione (forse reattiva, forse endogena)
2) una totale mancanza di modestia (forse compensatoria)
3) una inattaccabile rigidità dei meccanismi di difesa (negazione e proiezione) con i quali il paranoico sempre difende il proprio io… 
Come risulterà evidente a chiunque, il risultato di questa diabolica combinazione sarà che tutti quegli eventi che da una persona normale potrebbero essere considerati fortuiti o casuali per un paranoico saranno quasi sempre intenzionali e criminali.
Prendiamo adesso in considerazione un'altra caratteristica della Paranoia, forse la più importante ai fini del racconto che stiamo narrando: l’estrema difficoltà, anche in sede psichiatrica, di distinguere con chiarezza la soglia dove una legittima paura, un lecito sospetto o un accettabile dubbio di una persona, sconfini di fatto nel delirio. Così, ad esempio, dove si situa il confine tra un reale e scorretto pregiudizio di un insegnante nei confronti di un allievo e la convinzione delirante di quello stesso allievo che l’insegnante lo abbia preso di mira? Ma saliamo di livello: qual è il confine che giustificherebbe la paura o il sospetto di un Presidente o di un Capo di Stato di poter essere allontanato dalla scena politica se non addirittura di essere eliminato, da una condizione, invece, patologica di delirio di persecuzione che sembra far parte, oggi, della struttura caratteriale di molti politici moderni? Come già detto, è davvero difficilissimo distinguere tra delirio e legittimi sospetti, anche e soprattutto perché la moderna realtà nella quale tutti viviamo è estremamente complessa e presenta una quantità tale di sfaccettature (chiare ma anche oscure) che pochissimi osservatori potrebbero presumere a pieno diritto di saperne abbracciare la totalità. E questo è valido anche per gli psichiatri i quali, pur senza rendersene conto, potrebbero aver aderito ad una visione del mondo collettiva sì, ma anche ridotta e, su quella base, condannare alla follia spiriti insigni dallo sguardo spregiudicato.
Attenzione, però. Con le righe di cui sopra non si vuol negare la necessità e la possibilità di riuscire a intravedere la soglia di demarcazione tra delirio e legittimi sospetti… si voleva solo sottolineare l’estrema delicatezza della differenziazione e la necessità, in colui che fosse chiamato a ratificarla, di apertura interiore, elasticità, spregiudicatezza e tanta tanta esperienza.

Oggi, però, tutte queste raccomandazioni risultano superflue. Il termine Paranoia, infatti, è entrato nel gergo comune, ha perso tutte le sue sfumature nosografiche e con la complicità dei giovani che sono sempre alla ricerca di elementi che distinguano la loro generazione da quelle precedenti, in pratica viene affibbiato a destra o a manca: basta soltanto che il pensiero di qualcuno si discosti o metta in dubbio la realtà condivisa dai più… e il giudizio è pronunciato. La coscienza collettiva non tollera divagazioni, dubbi, perplessità o sospetti. Figuriamoci critiche, denunce o scomode accuse.

E adesso facciamo ancora un passo e affrontiamo il termine: Complottista. 
Cominciamo andando ad aprire una vecchia e affidabile enciclopedia di fine anni ’80… e scopriamo che con il termine “complotto” si indicava: “Congiura, intrigo, macchinazione ai danni delle autorità costituite o di privati” e che “complottisti” o “congiurati”: “sono coloro che organizzano un complotto ai danni di… ecc..”
Così le vecchie enciclopedie. Ma da qualche decina di anni, sempre a causa del disfacimento del senso e del valore del linguaggio, si fa strada una nuova definizione e come “complottista” finisce per essere qualificato non più chi trama una congiura, bensì colui che tende a interpretare ogni evento come complotto pur non possedendo alcun fondamento, essendo questo atteggiamento più che altro la risultante di una fissazione o mania.
Questo è quello che si trova oggi su qualunque enciclopedia digitale (compresa la Treccani).
È importante notare qui il salto logico: il complottista non è soltanto un individuo che vede complotti ovunque, ma è “fissato” su questa idea, il complotto è diventato per lui una magnifica ossessione, quasi una “mania”. Nel senso comune, dunque, il complottista ha finito per essere visto come “malato”, un individuo psicologicamente fragile se non addirittura un folle.
Il “complottista patologico” è ben descritto nel film di Richard Donner “Ipotesi di Complotto”, dove il protagonista interpretato da Mel Gibson è così ossessionato da queste teorie da accettarle tutte come attendibili e cercare cervellotici collegamenti per arrivare a descrivere un unico grande complotto mondiale. Salvo poi essere rapito dalla CIA che già in precedenza lo aveva sequestrato per effettuare su di lui alcuni esperimenti… segreti, si intende.
A questo punto il lettore più attento avrà notato una sorta di sovrapposizione: in maniera sottile è come se il concetto di “Paranoico” fosse diventato intercambiabile con il concetto di “Complottista” e in tale gratuita distorsione è passato nel linguaggio comune. Ma dato il fatto che non siamo più nell’ambito di un pensare accorto e misurato, all’interno del quale – come ho scritto più sopra - dovrebbe sempre essere considerata l’estrema difficoltà di individuare la soglia dove un dubbio potrebbe avere una sua legittima ragione di esistere, il linguaggio comune usa ed abusa tale termine come fosse un’accusa infamatoria. Essere complottisti, oggi, significa essere ingenui, sciocchi o nevrotici fissati, in cerca di una qualsiasi originalità.
La psichiatria moderna da una mano alla confusione creatasi e così, con una presa di posizione che lascio giudicare ad altri se stupida, o arrogante, o ingenua, o in malafede, due psichiatri britannici, Daniel Freeman dell’università di Oxford e Richard Bentall dell’università di Liverpool, pubblicano uno studio intitolato “The concomitants of conspiracy concerns” nel quale sembrano voler fare “di tutta un’erba un fascio” e i cui risultati, riportati da un articolo divulgativo sul Guardian possono essere così riassunti:
“… i complottisti sono prevalentemente maschi single provenienti da bassi livelli socio-economici; tendono a soffrire, molto più della popolazione generale, di disturbi d’ansia e di deficit dell’attenzione, di fare abuso di alcol e di droghe. Tutte situazioni che spesso contribuiscono a una bassa autostima”.
Dell’assoluta necessità, oggi più che mai, di complessi distinguo, di cautela, di spregiudicatezza e apertura mentale, neanche a parlarne.
A meno che non si vogliano interpretare le parole dei due professoroni inglesi nel senso che chi non è maschio single, non soffre d’ansia e deficit dell’attenzione, non fa abuso di alcol e di droghe e può contare su un discreto livello di autentica autostima, allora può stare tranquillo: le sue affermazioni, anche se discoste da pensiero comune, non saranno mai tacciate di complottismo.
Insomma… con la destrutturazione e l’evanescenza del linguaggio, la confusione regna sovrana.
D’altronde, si sa… l’uomo della strada non è portato a sospendere il giudizio (la così detta epochè dei greci) né a pensare che le cose possono essere in un modo, ma anche in un altro. Piuttosto, nella popolazione nascono due posizioni estreme e contrapposte, apparentemente inconciliabili:
1) Il complottista, nelle cui fila militano sia individui più o meno disturbati ma, oggi in sovrannumero, soprattutto intellettuali, giornalisti free lands, premi Nobel, affermati ricercatori scientifici, professionisti più che accreditati in medicina, biologia,fisica, ingegneria e artisti di varia fama. È ovvio che tutti questi ultimi di nevrotico non hanno proprio nulla… ma la loro esclusione dal consesso scientifico e pubblico è dovuta solo ed esclusivamente al fatto di camminare nel dubbio e di avanzare critiche al Pensiero Unico.
2)Il giustificazionista che, per quieto vivere, accetta la visione della realtà proposta dalla politica e dai media, respingendo per dogma di fede ogni possibile alternativa. Per i giustificazionisti è intollerabile il dubbio, l’incertezza, o anche solo il sospetto che organi del Potere Economico o Politico possano usare il popolo per interessi personali e/o scopi necrofili. Nessuno di loro è disposto ad accettare il fatto che il concetto di complotto oggi potrebbe essere ribaltato, e che la macchinazione potrebbe non essere più volta a rovesciare il Potere, ma potrebbe essere stata orchestrata dal Potere stesso ai danni della gente comune.

Resta un ultimo paradosso da evidenziare: sempre escludendo gli individui fortemente disturbati nelle fila dei moderni complottisti (perché è ovvio che ce ne siano) quello che si può osservare che sono proprio loro, i complottisti, le persone più tolleranti, più pazienti e comprensive nei confronti dei loro avversari. Perché in fondo sanno che ciò che anima i loro nemici è la paura, la povertà dei loro mezzi di conoscenza, nonché il desiderio di sicurezza e di tranquillità, per realizzare i quali sono disposti a pagare qualunque prezzo. Anche la perdita della propria libertà.
Purtroppo, sono invece questi ultimi, i più intolleranti, i più rigidi, i più inferociti, perché non potendo tollerare alcuna minaccia al proprio fantasioso mondo di giustizia e bontà (sono i succubi del “Mulino Bianco”), sono sempre pronti ad umiliare, ingiuriare se non addirittura denunciare o aggredire chiunque voglia ridimensionarlo ai loro occhi.

Non credo esistano vie semplici per dirimere questa grande frattura prodottasi nel tessuto sociale. Ma una soluzione ci sarebbe: coltivare una nuova coscienza fondata su un pensare non più ancorato al sistema neuro-sensoriale. È quello che la scienza dello spirito ha indicato come Pensiero Vivente, l’unica attività interiore dell’uomo in grado di esaminare il “dato” in quanto semplice “dato” che necessita della contemplazione pensante dell’uomo per manifestare la complessità a cui rimanda.
Perché il “dato è dato al pensiero”, ci raccomandò di ricordare sempre Massimo Scaligero, ma solo un pensare in grado di risalire alla propria fonte di vita può sperare di coglierne la Verità in tutta la sua portata. 

sabato 28 marzo 2020







Con queste parole non ho alcuna intenzione di mancare di rispetto al Mantra dal quale le ho riprese, ma ho voluto solo sottolineare che molto probabilmente, come umanità, ci troviamo davanti a una svolta molto significativa. Più significativa di tante altre che, comunque, in un modo o nell’altro, abbiamo già attraversato. Stiamo vivendo in un momento storico le cui determinanti sono molto complesse e suppongo che occorreranno molti sforzi e molto tempo per riuscire ad osservarle tutte. Perciò questo articoletto vuole offrire soltanto degli spunti che, magari tra i tanti altri, ci porteranno un giorno a comprendere di che cosa siamo testimoni.

Ho esercitato come psicoterapeuta per quarantacinque anni e credo perciò di poter affermare, in piena coscienza, che mai avevo avuto modo di osservare un panorama anche soltanto lontanamente simile a quello che in questi giorni sto osservando.
Mi riferisco, è ovvio, alla pandemia che da mesi sta imperversando ma che sto provando ad osservare da un punto di osservazione tutt’altro che ordinario.
Cercherò di spiegarmi meglio.
Il virus che sta dilagando in Italia e nel resto del mondo, a prescindere dal fatto che esso sia il risultato di una mutazione naturale o di una manipolazione genetica, è una ben precisa realtà… e i suoi effetti per la vita e la salute corporea di tutti noi sono (statisticamente parlando) più o meno gravi. Ho scritto “più o meno” perché i dati che ci vengono forniti non sono attendibili, ed è possibile che il numero dei decessi sia almeno in parte sovrapponibile a quello dichiarato negli altri anni. Ciò nonostante sembra innegabile la sua velocità di propagazione (anche se a prescindere dalle cause che la determinano: 5G? Polveri sottili?) e, soprattutto, la sua aggressività (ma sempre a prescindere da cause non ancora chiare: gravi stati di panico che annichiliscono il sistema immunitario? Vaccinazioni pregresse? Predisposizione per età o altre malattie?).
Certo, invece, è lo stato di emergenza e la non possibilità del Sistema Sanitario Nazionale di fargli fronte, a causa degli sconsiderati tagli economici subiti in quest’ultimo decennio che hanno messo in ginocchio una delle tante eccellenze italiane.
Insomma: ci troviamo in questa situazione che, occasionando una restrizione pressoché totale delle libertà individuali, ci costringe a rimanere reclusi nelle nostre case.
Ma non è di questo che intendo scrivere perché, come avrebbero detto gli scrittori o i giornalisti di una volta: già copiosi fiumi di inchiostro sono stati spesi per raccontare tutto e il contrario di tutto ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Oggi spendiamo bit… ma in fondo è la stessa cosa.
Quello che invece mi sembra interessante è provare a descrivere quello che sta avvenendo nelle anime delle persone ma, ancora una volta, a prescindere dalle dotte dissertazioni già pubblicate sulle dinamiche della paura e dell’ansia, su quelle del bisogno di molti di riuscire a trovare un “Capro Espiatorio” su quale scaricare la propria rabbia inespressa o su quelle, invece, di ubbidienza cieca promessa a una “Qualche Autorità” forte, pur di allontanare da sé qualsiasi pericolo. Anche su tutto ciò mi sembra che sia stato scritto abbastanza.
No! Piuttosto, il panorama che mi sembra di scorgere e di cui vorrei raccontare è rappresentato dal fatto che “l’evento Coronavirus” sembra essere riuscito a slatentizzare un immenso materiale psichico che, prima di questa terribile avventura, giaceva seminascosto sotto il tappeto della sala di rappresentanza dell’anima di tutti noi. In un modo o nell’altro, il rimosso è uscito allo scoperto e si sta affacciando dai balconi. Ma non per cantare “Fratelli d’Italia”, bensì per costringere tutti noi a fissare lo sguardo sul “buco nero” più o meno piccolo che tutti ci portiamo nell’anima.
Vorrei cominciare, pertanto, con un ossimoro non verbale, ma immaginifico: per quanto paradossale possa sembrare, molti di coloro che erano già da tempo in terapia stanno rispondendo meglio alla pandemia che non la maggior parte delle persone così dette “sane”. Certo non tutti. E di certo, per sostenere questo assunto, mi occorrerebbe poter fare una statistica comparativa più ampia di quella che sono in grado di fare. Per cui bisognerà che il lettore si accontenti di una mia valutazione intuitiva, anche se pur sempre basata – come avrebbe voluto Goethe - sul dato dell’osservazione.
D’altra parte, è pur vero che questo elemento paradossale era già stato osservato da molti dei miei colleghi psicoterapeuti in tempi non sospetti, se uno di loro, particolarmente creativo, mesi addietro aveva addirittura fatto girare su FB questa deliziosa storiella:

“Tutti i giorni mi capita di incontrare persone terribili!
Per fortuna poi arrivo a studio
e incontro i miei pazienti.”

Non conosco il collega che l’ha inventata ma, di sicuro, ha ben interpretato una nostra opinione comune. Perché quello che noi riconosciamo a tutti i nostri pazienti, anche a quelli che non riusciranno ad usufruire al meglio dell’avventura psicoterapica, è di aver avuto avuto il coraggio, l’enorme coraggio di mettersi in discussione e di provare a guardare il Drago negli occhi.
Credo perciò che l’apparente paradosso di cui sto parlando sia determinato da questo semplicissimo dato di fatto: le persone in terapia sono già in guerra con i propri fantasmi! Hanno sollevato il tappeto, si sono armati di ramazza e stanno provando a fare pulizia. Alcuni ce la faranno. Altri, forse, non otterranno il risultato voluto… ma ci hanno provato, o ci stanno ancora provando e, questo, è ciò che davvero conta. Per quanto affranti o spaventati dai propri “parassiti animici” hanno trovato il coraggio di guardarli negli occhi. Sono tra le persone più coraggiose che si possa immaginare, perché avere coraggio non significa affatto non avere paura, bensì combattere la propria paura afferrando con l’Io una Volontà di profondità che non si lascia intimidire dall’apparente sproporzione di forza. I “parassiti animici” sono davvero molto possenti, perché in realtà succhiano la loro forza dall’energia vitale dell’anima a cui si sono attaccati. E, bisogna pur ammetterlo, il pensiero cerebrale, astratto e dialettico che di solito gli si oppone non è in grado di fronteggiarli. Occorrerebbe un altro “pensare”… Tuttavia la “comunione di terapeuta e paziente” a volte scompagina le forze in gioco, e il miracolo si realizza.
Ma anche a prescindere da questo, io credo che sia questo il motivo per cui “l’evento Condivirus”, con il suo improprio carico di morte, di paura, di isolamento, d’inimmaginabili conseguenze sul piano economico e politico, non abbia colto molti pazienti psicoterapici impreparati: loro erano già in guerra con sé stessi e, chi più chi meno, avevano già smesso di raccontarsi menzogne.
E così, nel mio piccolo, registro che alcuni pazienti, affetti da una serie di squilibri psichici che si scaricavano sul corpo, creando sintomi invalidanti e persistenti, costretti a fermarsi… stanno meglio! I dolori sono scomparsi o, come minimo, sono attenuati. Una sorta di calma piatta ha preso il sopravvento e ha tranquillizzato la mente e il corpo. Le ristrettezze imposte hanno realizzato ciò che il pensiero ordinario era incapace di realizzare.
E ancora, paradosso tra i paradossi, vengo a conoscenza che addirittura alcuni ipocondriaci si sono placati… come se, di fronte al pericolo reale, i timori assurdi e privi di contenuto si fossero volatizzati. Perché adesso il nemico è lì, pur nella sua invisibilità, perciò bisogna rimboccarsi le maniche e combattere sul serio.
Registro di persone che hanno trovato il tempo di guardare più intensamente e profondamente in sé stesse e, di fronte ad una emergenza la cui violenza non è comparabile alle fisime sciocche ed inutili che prima le occupavano, assaporano un maggior equilibrio. Intravedono una luce là dove prima c’era solo il buio.
Registro persone che, con timidezza, si riaccostano al mondo dello spirito. Non tanto alla religione, quanto piuttosto a intuizioni velate sulla natura spirituale ultima del mondo, sul significato sacro della vita e sul mistero del proprio destino.
Registro una rinnovata voglia di comprendere meglio sé stessi e le persone che ci circondano, il desiderio di conoscere la verità e di smettere di credere alle favole che i Padroni del Mondo si sforzano di promulgare.
Certo… registro pure cedimenti, regressioni apparentemente ingiustificate, recrudescenze dell’ansia e dell’angoscia, stati di agitazione. Ma sono fenomeni che ben si inseriscono in uno squilibrio già riconosciuto, in un malessere che non può sorprendere e in una difficoltà del vivere con la quale, da tempo, si stavano facendo i conti.

Tutt’altra cosa per chi, nell’epoca dell’anima cosciente, non ha mai seriamente pensato di mettersi in discussione. Qui, “l’evento Condivirus” sta facendo stragi. Perché la sua invisibilità (propria dei fantasmi), la sua potenziale violenza, l’isolamento assoluto a cui costringe, almeno per il momento, le fosche previsioni che lascia intravedere sul futuro di tutta l’umanità, hanno colto molte persone impreparate. O meglio, le ha colte mentre erano in piena funzione i consueti meccanismi di difesa che tutti noi terapeuti ben conosciamo – rimozione, repressione, negazione, sublimazione e altri ancora – e li ha scompaginati. I giochi sono saltati, i nodi sono venuti al pettine, le menzogne si sono dissolte come neve al sole e hanno lasciato molte persone nude, vulnerabili e spaventate non solo di fronte al virus in quanto tale, bensì di fronte a tutti i fantasmi che il virus ha slatentizzato.
È in questo quadro, ad esempio, che va interpretata la paura della morte che imperversa oggi tra molte persone: non ci hanno mai davvero pensato (se non in maniera astratta e vacua). La medicina aveva promesso loro cure immaginifiche, i modelli ostentati dalla TV e dalle riviste patinate sono quelle di giovani, sani, belli e vincenti, la guerra non esiste se non quella sporca in paesi più o meno sconosciuti e la miseria non li ha mai riguardati poi troppo da vicino. E invece, adesso, all’improvviso, il sipario si è sollevato e la morte, il male, il pericolo, la guerra, sono tutti lì e li guardano con un sorriso beffardo dipinto sul loro volto di pietra.
“Non era vero niente… la vita non è una piacevole passeggiata come molti ci avevano fatto credere e, forse, nasconde un segreto che non conosciamo. Ma dov’è? Chi lo conosce? Come raccapezzarsi di fronte all’orrore?”
E penso altresì al problema della solitudine. Quella vera, reale e tangibile, che però fino a pochi mesi fa era stata occultata tra lavoro, relazioni occasionali, amici, sport e interessi di vario genere. La osservo e la confronto a quella “negata”, quella di chi pur stando “insieme” è più solo che mai. Come hanno decretato tanti studi di esimi colleghi, è la solitudine peggiore, quella che di più fa soffrire. E quante coppie, quanti nuclei familiari si trovavano in questa situazione? Quanti, aiutati sempre dal lavoro, da amanti occasionali, dagli amici o dallo sport by-passavano allegramente la loro più autentica solitudine interiore? Arriva il Condivirus, obbliga alla segregazione, e l’equilibrio salta, la vita dell’anima va in pezzi perché i dissidi, l’ostilità negata, l’indifferenza e il disamore non sono più occultabili.
E ancora: penso allo sguardo di molti che, inevitabilmente, corre verso il futuro. Cosa ci riserva? Che cosa accadrà? I più ingenui e i più ostinati continuano a sperare che magari tutto tornerà come prima… e hanno paura di confrontarsi con il fatto che, molto probabilmente, nulla più invece sarà come prima. Il mondo sta compiendo un giro di boa, e a prescindere dal fatto che non è ancora possibile intuire la direzione che prenderà, di sicuro nulla sarà mai più come prima. Quando usciremo dal bunker e ci guarderemo negli occhi vedremo qualcosa che non avevamo mai prima osservato: una Realtà Altra, un mondo sconosciuto, un uomo del tutto diverso… forse peggiore, ma forse migliore.
Per ora non è dato saperlo, ma questa consapevolezza inconscia circola nell’animo di tutte le persone, e molti non sono preparati ad affrontarla. Avvertono inquietudine, angoscia, disperazione… e l’attribuiscono al Coronavirus. Ma non è lui il vero problema. Lui ha semplicemente sollevato il tappeto e portato il problema alla luce del sole.

E così eccoci qua, tutti con l’anima allo scoperto. Cosa ce ne faremo?
Difficile dirlo.
Ci sono tutti i presupposti per una discesa verso il sub-umano… così come ci sono tutti i presupposti perché la componente migliore di noi trovi il coraggio di affermarsi. E non importa quale potrà essere lo scenario che i Padroni del Mondo si sforzeranno di imporci: è nelle trincee, nelle prigioni, nei lager, negli ospedali, che l’umanità ha sempre dato il meglio di sé. E la ragione è ovvia: chi ritrova sé stesso sperimenta con il cuore che la nostra natura più autentica e profonda di esseri umani “non è di questo mondo”.
Noi apparteniamo al cielo!

giovedì 19 marzo 2020



Io e la Morte, oggi…


Anche a voler cercare con cura le parole con le quali esprimere il mio pensiero, devo ammettere di percepire una sorta di profondo timore. Ma non tanto per la situazione di pericolo infettivo che tutti stiamo vivendo, bensì per la perdita della più elementare calma o tranquillità interiore con cui esaminare i fatti (o meglio i “Dati”) che si sovrappongono e che, a voler essere corretti, meriterebbero una più attenta riflessione. Quella tranquillità imparziale che ci permetterebbe davvero di dialogare, e non di scagliarci l’uno contro l’altro, ognuno a difesa della propria piccola verità assoluta, quella calma interiore – dicevo - non c’è, non esiste nell’animo della maggior parte delle persone. Al suo posto c’è una aggressività rabbiosa le cui radici affondano in dinamiche fin troppo evidenti per chi sappia contemplare la complessa realtà della vita dell’anima umana.
Perché nonostante nessuno voglia negare l’incombere di una patologia da infezione che sembra interessare la maggior parte dei paesi compresi in una determinata fascia climatica del nostro pianeta, ci sarebbe però da valutare con molta, anzi moltissima, attenzione se i dati che costantemente vengono forniti siano tutti corretti, oppure manipolati, sovrapposti, amplificati se non addirittura distorti.
Siamo di fronte alla più grande pandemia della storia moderna o al più grande inganno che mai mente umana (o diabolica?) potesse partorire?
Questo articoletto non vuole entrare nel merito della questione, perché chi scrive sa bene che anche soltanto aver accennato a questo plausibile sospetto sarà motivo di ire funeste, da una parte o dall’altra. Come più volte ebbe a ricordare Rudolf Steiner, l’uomo moderno sembra incapace di convivere con “le domande”…  se una perplessità o un dubbio gli si manifestano, egli subito esige una risposta. Non importa se essa poi si dimostrerà infondata, l’importante è averla ora! Adesso! Subito! E guai a chi osasse metterla in discussione.
Perciò lascio volentieri la questione alla libera iniziativa di ognuno. Su Internet, o sui giornali, sulla TV o altrove è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
Che ognuno si faccia l’idea che crede.

Ma anche per quello che potrebbe riguardare le cause ultime di questo stato delle cose lascio ad altri la parola, preferendo, semmai, allinearmi con i pensieri espressi dal giornalista e mio buon amico Piero Cammerinesi nel suo più recente articolo su questo stesso tema e di cui allego il link: https://liberopensare.com/io-e-il-coronavirus/?fbclid=IwAR105mVcHDX_i-CFf4nNIBDrkRsSwGJRm9bbd1QY_Fl0dQlfn0ENyReXRXE
Nell’articolo, mi si voglia perdonare l’estrema sintesi, il giornalista riconduce la presupposta pandemia che tutti stiamo subendo a una significativa perdita di autentici valori spirituali, abdicati a favore di una visione materialistica dell’universo e della vita di tutti noi uomini. L’analisi condotta nell’articolo mi sembra esaustiva e mi soddisfa.
Ma allora cos’altro ho da aggiungere? Questo: io sono convinto, e oramai da molto tempo, che la situazione descritta nell’articolo sia stata originata, ma nello stesso tempo continui ad alimentare come in un furioso e infernale feed-back, dalla smisurata, profondissima, cieca e stolta paura della morte che alberga nell’anima della maggior parte delle persone di questa sciagurata civiltà moderna occidentale. Una civiltà che, chiudendo gli occhi su quanto di terribile avveniva in altre realtà limitrofe (basterebbe pensare al Medio Oriente e a tutti i suoi orrori) ha pasciuto sé stessa nell’illusione di aver scongiurato ogni guerra, ogni malattia, ogni dolore e di aver diritto, perciò, a godere pienamente della vita senza doversi mai chiedere quale fosse il senso ultimo della propria avventura su questo piccolo mondo.
Ribadisco che queste mie parole sono antiche, e non scaturite da una qualsivoglia reazione al pericolo che ora tutti stiamo correndo. La mia ricerca interiore, infatti, è iniziata quando avevo solo quindici anni, propiziata da un drammatico evento luttuoso. Poi, però, ho continuato ad incontrare “nostra sorella morte corporale”… e sempre da molto vicino: a trentatré anni in montagna e a quarantanove in volo. E infine, per ultimo, soltanto pochi anni fa, quando ne avevo sessantotto, in motorino, a Roma, fermo ad un semaforo rosso. Mi arrogo perciò il diritto di affermare che conosco l’argomento di cui sto parlando e il titolo che ho voluto dargli non è solo un omaggio all’articolo di Cammerinesi. Era il lontano 2000 quando pubblicai il mio primo libro che, sotto un titolo magari fuorviante (Attività estreme e stati alterati di coscienza) affrontava lo stesso argomento: l’ingiustificata e generalizzante paura della morte presente nell’anima dell’uomo contemporaneo. Una paura inconscia, ma sconfinata, dalla quale gli deriva una quasi assoluta incapacità di valutare e giustificare qualunque azione altrui che sembri (e sottolineo “sembri”) sfidare tale innominabile tabù.
La verità, come ho continuato a ripetere e a scrivere in altri libri e in numerosi articoli (l’ultimo è stato nell’agosto del 2018, e questo è il link: https://medium.com/psicanalisi-antroposofica/ri-pensare-la-morte-2f93ee0399a1 ), la verità – dicevo – è che tutti noi abbiamo rimosso la morte attraverso inconsapevoli processi psichici di relativizzazione e banalizzazione. Per questo molti hanno sempre ritenuta erronea la mia analisi e affermato di essere invece ben consapevoli della morte come limite estremo della vita.
Ma il fatto è che tali affermazioni sono astratte, dialettiche, discorsive… possono servire a far credere a noi stessi, e al pubblico che ci ascolta, di essere ben consapevoli del nostro tragico destino di creature mortali, ma non sono pensieri davvero accolti nella profondità del nostro essere. Vagano nella nostra mente, appaiono e scompaiono come gusci vuoti, parole senza spessore, pur permettendo di fingerci compenetrati dal senso del tragico. Ma non sono pensieri pensati, non sono scesi nel nostro cuore, non hanno compenetrato nervi, muscoli e sangue di tutto il nostro essere e per questo motivo, per questo unico ed essenziale motivo, ci lasciano del tutto impotenti e terrorizzati quando la Pallida Signora ci si presenta davanti.
Quando davvero la Morte ci sfiora, o sfiora i nostri cari, o persone che noi ben conosciamo, allora perdiamo il nostro occidentale aplomb e saremmo pronti a tutto pur di allontanare da noi la terribile minaccia.
Non possediamo l’esperienza dei nostri avi, che hanno convissuto con carestie inenarrabili, conflitti religiosi, guerre sanguinose, eccidi ignominiosi, pestilenze incontenibili o sconvolgimenti tellurici di immani proporzioni. Abbiamo dimenticato le esperienze tragiche dalle quali proveniamo. Noi di fronte a Lei impallidiamo, le membra iniziano a tremare e le viscere ci si contraggono nel tentativo disperato di contenere un’angoscia oscura e minacciosa di fronte alla quale non abbiamo alcun rimedio. Ci sentiamo inermi, perché non abbiamo Principi Viventi che ci ispirano, non abbiamo conoscenze solide che ci sostengano sospesi sull’abisso, non abbiamo più neanche una vera fede (le chiese oggi sono deserte). Con tutta la nostra intelligenza, regrediamo alla condizione di bambini spauriti e ci aspettiamo che uno Stato Forte ci prenda per mano e ci rassicuri… in cambio di ubbidienza cieca e rinuncia a qualsiasi velleità o pensiero individuale.

Quanto vado scrivendo, spero mi si voglia credere, ha poco a che fare con la situazione di emergenza che tutti stiamo vivendo né, tantomeno, è un invito all’anarchia o alla mancanza di solidarietà con tutte le altre persone che ci circondano. Sono pensieri che coltivo da decenni, che si trovano sparsi in tutti i miei libri e che sono nati dalla constatazione di quanto poco tutti noi siamo davvero preparati a guardare la morte negli occhi e a considerarla davvero, e fino in fondo, un aspetto inscindibile della vita. Eppure, ne sono convinto tanto quanto coloro che lo hanno affermato prima di me: “Chi non sa morire, non sa neanche vivere!”
E la nostra civiltà imbellettata non sa vivere! Si aggrappa all’apparenza di vita che vive senza chiedersi nulla del suo significato più profondo con ciò producendo, senza rendersene davvero conto, due ovvie reattività: o stili di vita distaccati, indifferenti, smodati se non addirittura offensivi nello spregio del suo sacro valore. Oppure, al contrario, stili pusillanimi, trattenuti, vigliacchi, sempre pronti a difendere con le unghie e con i denti quel poco di vita di cui si accontentano, non osando neanche immaginare di poterla mettere in pericolo. 
Di fatto, la nostra società – pur essendo estremamente violenta e pericolosa – ci ha addestrati a credere di poter allontanare da noi il pericolo, qualunque pericolo, e di poter sempre avere qualcuno a disposizione a cui delegare la nostra sicurezza. Ne deriva che se siamo accorti, bravi e oculati, in linea di massima possiamo vivere tranquilli e sicuri. Sappiamo che c’è sempre qualcuno che pensa a noi (la Sanità Pubblica, la Polizia, la Protezione Civile, l’Assicurazione, lo Stato) e se poi, nonostante tutto, le cose dovessero andare proprio male, allora si cercherà un responsabile da crocifiggere o, molto meglio, qualcuno da cui farsi rimborsare.
Di fatto in questi ultimi decenni la vita media degli uomini si è decisamente allungata; la medicina ha realizzato miracoli e ulteriori ne promette, noncurante delle aberrazioni e degli stravolgimenti cui necessariamente sta andando incontro; le assicurazioni e i sistemi di previdenza si sforzano di garantirci il futuro e preservarci dall’incertezza; le agenzie turistiche offrono viaggi sicuri e avventure senza rischi (sic!); la comunicazione di massa ci propina, enfatizzandoli, modelli umani sempre più sani, belli, ricchi, vincenti, spensierati e, soprattutto, eterni. Di conseguenza sempre più uomini vivono inseguendo il proprio benessere personale come se la morte fosse un evento che non li riguardasse affatto, con il risultato inevitabile di non comprendere più il valore delle cose che li circondano, il significato delle proprie esperienze e, in definitiva, della loro stessa vita. Nessuno sembra davvero felice, ma nessuno sembra disposto a fare il più piccolo sforzo per cambiare questo stato di cose. La paura è troppo forte e non ci sono valori né insegnamenti che permettano di contenerla. Forse senza neanche accorgersene i più si sono rifugiati nell’anestesia, anche se, negata la morte, la vita resterà per loro un mistero incomprensibile.
La verità è che la morte vive con noi: nasce nel momento in cui noi nasciamo e solo se integrata nella nostra quotidianità, anziché assumere l’aspetto dell’orrore, potrebbe svelare quello della saggia consigliera. La verità è che solo accettandola come nostra inseparabile compagna di viaggio sapremmo affrontare la vita con il giusto atteggiamento e il misurato coraggio.

E la realtà che tutti noi stiamo vivendo in questo storico momento esigerebbe un tale coraggio! Perché come scrissero uomini ben più saggi di me: “Se non si ha un Principio per il quale morire, allora non si ha alcun motivo per il quale vivere”.

domenica 15 marzo 2020

Presentazione del mio nuovo libro






  
Prefazione anno 2020



Sarebbe mai possibile riassumere e sintetizzare in poche centinaia di pagine i testi di Rudolf Steiner: “Le opere scientifiche di Goethe”, “Saggi filosofici” e “Filosofia della libertà”, nonché quelli di Massimo Scaligero: “La logica contro l’uomo”, “Il trattato del pensiero vivente” e “Il pensiero come antimateria” ?
La risposta a questa domanda è un categorico no! Un no assoluto, perché tutti quei testi sono stati scritti seguendo una concatenazione logica rigorosa ed essenziale di pensieri molto più simile allo sviluppo di una equazione matematica che non a uno svolgimento filosofico. Così rigorosa ed essenziale da risultare risibile il fatto di riportarne alcune parti sottraendole al contesto generale in cui sono state inserite o, addirittura, alterandone l’ordine di successione. In più, tutti quei testi sono così esaustivi in sé stessi da far risultare ridicolo e dilettantesco qualunque tentativo di accorpamento sintetico.

E tuttavia…
Era il 1978 quando io, giovane terapeuta junghiano formatomi in uno dei pochi istituti privati operanti all’epoca, operativo già da sette anni ma timoroso che l’annunciato nuovo Albo degli Psicologi e degli Psicoterapeuti potesse non riconoscere retroattivamente l’operato di quanti si erano formati negli anni precedenti alla sua entrata in funzione, sentii il bisogno di assicurarmi la legalità del mio operare iscrivendomi alla Facoltà di Psicologia che, proprio in quegli anni, aveva aperto la sua sede anche a Roma.
Verso la fine del 1982 ero perciò in procinto di portare a termine la mia seconda laurea ma, non essendo uno studentello alle sue prime prove con la vita, dopo essermi assicurata come relatrice una professoressa che mi sembrava essere la più intelligente di tutta la facoltà, come tesi finale le sottoposi un titolo dall’apparenza innocuo, ma che sottendeva una critica spietata al dogmatico sistema scientifico di cui la Psicologia si stava facendo vassalla (il termine più congruo sarebbe stato: sgualdrina).
Inconsapevole di quello che avrebbe dovuto valutare, la mia relatrice firmò il titolo da me proposto: “La realtà della realtà tra percezione e concetto”.
Ottenuta la sua firma, sparii per nove mesi, alla fine dei quali le consegnai i due terzi della mia tesi che conteneva quella sintesi delle opere principali di Steiner e di Scaligero cui sopra ho accennato.
Senza ora rinnegare quanto detto nelle prime righe, mi posso però concedere di affermare che era un lavoro ben fatto: mi era costato uno sforzo di concentrazione che si era protratto per mesi e mesi, regalandomi alcuni dei momenti più sublimi di tutta la mia vita. C’erano stati giorni nei quali avevo percepito il mio pensare volare alto, sopra le nuvole dei pensieri quotidiani e, come un’aquila reale, intuire l’ebrezza di una libertà incommensurabile.
Uno dei primi mesi del 1983 consegnai la copia della mia tesi che, se anche aveva gli ultimi tre capitoli ancora da scrivere, poteva essere già considerata un lavoro completo.
Alla mia relatrice prese un colpo… o almeno così immagino, perché dopo una settimana mi riconsegnò il dattiloscritto dove sulla pagina di copertina aveva scritto:
Egregio dottor Priorini, il suo lavoro sembra più una tesi di Filosofia che di Psicologia e non credo che sarebbe corretto da parte mia convalidarla per la prossima sezione di Laurea.
Con ciò la mia stimabile collega, perché in un certo qual senso eravamo colleghi, mostrava come la sua innegabile intelligenza mancasse di quella più accreditata conoscenza mitteleuropea e onestà intellettuale che le facesse ricordare come la Psicologia fosse derivata dalla filosofia e che di una psicologia che ignorasse i propri presupposti filosofici non si sarebbe neanche dovuto parlare.
Oltre a ciò, tanto per non rinnegare il becero servilismo con cui la Facoltà di Psicologia si offriva al dogmatismo materialistico ovunque imperante, in tutto il mio testo (che, senza falsa e inutile modestia, bisognava ammettere fosse almeno formalmente impeccabile) le uniche sottolineature rosse erano riportate sotto i termini quali: “facoltà animiche” o anche solo “dell’anima” insieme a un punto interrogativo rosso e la dicitura: “Che vuol dire?”
Questo a Psicologia!
Nei primi mesi del 1983.
Io e la Prof. battibeccammo un poco, poi – devo ammetterlo - non sentendomi così agile e spregiudicato da ribattere punto per punto le sue dogmatiche argomentazioni (in fondo avevo solo trent’anni e lei era una Baronessa nel pieno dei suoi poteri) me ne andai irritato e ritirai la mia tesi. La settimana successiva ne chiesi un’altra alla cattedra di Psicologia Dinamica, allora presieduta da Aldo Carotenuto, e in soli tre mesi mi laureai presentando una tesi sull’Archetipo del Padre in Psicologia del profondo.
“La realtà della realtà”, battuta a macchina su una Olivetti 32 portatile, fu da me riposta in un cassetto e lì rimase fino a un paio di anni or sono.
Fu nel corso del 2018, parlando con un mio anziano paziente il quale, a suo tempo, era stato curatore di stampa di diverse testate giornalistiche, che mi venne da chiedergli se sarebbe stato di in grado di trasformare i fogli ingialliti della mia vecchia tesi in un più moderno file digitale sul quale poter intervenire o, addirittura… fantasticare di completare.
Mi rispose che la cosa era fattibile e così, per un equo compenso, in un paio di mesi mi consegnò la mia vecchia tesi in un Word di facile accesso. Compiaciuto la rilessi… per la prima volta dopo trenta cinque anni che l’avevo scritta… e, diamine… dovetti convenire che era un buon lavoro. Sempre senza togliere nulla alle affermazioni fatte nelle prime righe di questa prefazione, dovevo ammettere che avevo fatto il possibile per radunare i passaggi più importanti dei testi di Steiner e Scaligero in modo che potessero allettare altri ricercatori e sollecitarli verso più ampi orizzonti della conoscenza umana.
Dopo quella lettura, da qualche parte, nella mia anima, risorse il desiderio di portare a compimento quel lavoro. Tanti anni prima quel giovanile compendio mi aveva regalato momenti di vera e propria estasi e il tema, quello della fondatezza del pensiero in sé stesso, era sempre stato e ancora rimaneva l’argomento verso il quale provavo il più entusiastico interesse. Se non avessi paura di essere mal interpretato, oserei dire che quello era l’argomento che più profondamente amavo di tutta la scienza dello spirito.
E tuttavia… dove trovare il tempo in una dimensione della quotidianità così diversa da quella dei miei trent’anni? E poi, quali erano gli argomenti specifici con i quali, all’epoca, avrei voluto portare a compimento i capitoli finali della mia vecchia tesi? Me la sentivo davvero di imbarcarmi in una simile impresa?
In realtà feci passare quasi un anno, baloccandomi tra: “Ora mi ci metto” e un “Ma che vado a pensare, lasciamo perdere”.
Sapevo benissimo che il mio sforzo non sarebbe stato destinato a nessuna pubblicazione, né, peraltro, ci tenevo più di tanto. Ma il fascino irresistibile era rappresentato dal fatto di tornare a mettermi alla prova, dopo così tanti anni; di verificare fino a che punto quei pensieri fossero maturati in me; e, infine, di testimoniare la mia fedeltà allo spirito (Michael) che di quei pensieri è il Paladino.
Non ultimo, poi, sentivo risuonare nel mio animo le stesse identiche parole del paratesto che il mio terapeuta di un tempo, anch’egli antroposofo, aveva usato per il suo personale commentario a “Filosofia della libertà”:
Amor, che nella mente mi ragiona
Sì, l’amore sospingeva anche me… e così mi rimboccai le maniche e detti inizio alla fine della mia opera.
Ma quanta fatica… non avevo immaginato quanto fosse difficile a settant’anni suonati, ancora dedito al lavoro di terapia, piacevolmente impegnato in una relazione d’amore con la compagna di questi ultimi vent’anni, distratto da mille altri interessi (alcuni, ahimè, anche superflui), trovare la concentrazione necessaria per portare a termine un lavoro iniziato nell’esuberanza giovanile dei trent’anni.
E poi… quante maggiori informazioni e quant’altri riferimenti scientifici avevo accumulato in tutti quegli anni? In realtà, avrei potuto ricominciare tutto da capo e avallare il mio dire con ben più corposi riferimenti. Decisi, però, di non farlo e di lasciare le prime 150 pagine così come le avevo scritte, senza cambiarne nemmeno una virgola.
Mi fu tuttavia impossibile rintracciare e mantenermi fedele a quello stile essenziale, asciutto e rigoroso che ero riuscito a esprimere in quegli anni. Non ero più il ragazzino di una volta, troppe esperienze e troppe conoscenze si erano accumulate, cambiando me e lo stile letterario con il quale da troppo tempo, oramai, mi esprimevo.
Tuttavia, ci provai… e se il lettore-amico che un giorno leggerà queste pagine troverà, nonostante i miei sforzi, che il salto sia comunque eccessivo… non me ne voglia. Sappia che davvero mi sono sforzato e, dove ho mancato, lo addebiti piuttosto alla immaturità del mio pensare di fronte al compito che ha osato immaginare.


INDICE

Prefazione                                                               pag.7
INTRODUZIONE                                                             pag.13
I. L’ERRORE GNOSEOLOGICO E LE SUE RIPERCUSSIONI NELLA RICERCA SCIENTIFICA.
1.1. L’impostazione gnoseologica di Kant                         pag.39
1.2. Le conseguenze dell’errore                                          pag.46
1.3. Contraddizioni insuperabili                                          pag.54
II. UNA CORRETTA IMPOSTAZIONE GNOSEOLOGICA.
II.1. Il momento dell’esperienza                                         pag.63
II.2. Il pensare sconosciuto                                                 pag.76
II.3. Il pensare e la realtà                                                     pag.90
II.4. Percezione, Rappresentazione, Pensiero                     pag.108
III. LA REALTA’ DELLA REALTA’
III.1. Oggettività delle sensazioni                                       pag.119
III.2. Il mistero della materia                                               pag.135
III.3. Per una futura scienza del percepire                           pag.143
  
SECONDA PARTE


IV. VERSO UNA NUOVA SCIENZA                             pag. 153
V. LA CONOSCENZA DELL’ INORGANICO             pag.163                                  
VI. LA CONOSCENZA DELL’ ORGANICO                pag.179
VII. LA CONOSCENZA DELL’UOMO                         pag.193

CONCLUSIONI                                                                pag. 207