venerdì 1 ottobre 2010

Rubrica di storie cliniche


I segreti della bellezza


Ero un giovane terapeuta con 7 o 8 anni di attività alle spalle. Avevo ancora moltissimo da imparare. La psicologia del profondo catalizzava tutti i miei entusiasmi. Studiavo ancora con fervore e seguivo tutti i seminari che mi sembravano interessanti, ma ciò che davvero mi arricchiva e mi plasmava erano le storie che ogni giorno mi occorreva di ascoltare.
Quando aprii la porta alla nuova paziente che solo due giorni prima mi aveva chiamato al telefono rimasi folgorato: Maria Rossi era una giovane donna di 29 anni di una bellezza inusitata. Come se non bastasse era il mese di maggio. Uno di quei mesi nei quali a Roma si poteva già morire dal caldo… e Maria indossava perciò uno straccetto corto e leggero che esaltava le forme del suo corpo lasciando generosamente scoperte le gambe. Sembrava una modella appena uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda.
Mentre si accomodava ricordo di aver pensato:
- Dio mio, quant’è bella! Cosa mai potrà volere da me?
Provate perciò ad immaginare il mio stupore quando Maria esordì dicendo:
- Sono disperata, dottore. Mi sento una sbandata… non ho alcuna stima o fiducia in me stessa. Non so cosa voglio. E poi non mi piaccio… non piaccio a nessuno. Nessuno mi trova interessante. Stavo anche pensando alla chirurgia estetica. Forse… se avessi il naso più piccolo… o il seno più abbondante… i capelli neri… o se fossi più alta.
Me lo diceva così. Con semplicità ma anche con disperazione, mentre mi guardava con quei suoi occhi azzurri che le lacrime rendevano scintillanti come preziose acquemarine. L’ovale perfetto del viso, il naso piccolino, le labbra piene e carnose, i capelli castano-chiari che le scendevano a onde sulle spalle. E un corpo da urlo…
Non so come feci a rimanere impassibile e, anziché contraddirla (sarebbe stato un errore madornale da parte di un terapeuta), avallare la sua angoscia proponendole però, nel contempo, di raccontarmi la propria storia. La quale, bisogna riconoscerlo, in fondo era da manuale psicologico. Figlia unica di una donna totalmente succube del proprio marito, Maria era cresciuta in un ambiente povero di affettività e di attenzioni. La madre costantemente impegnata a soddisfare  le capricciose aspettative del marito, ovviamente senza mai potervi riuscire. Il padre per lo più assente o distratto. E, comunque, con una manifesta predilezione per tutte le altre donne del mondo, che non mancava mai di elogiare ed apprezzare enfaticamente anche di fronte alla figlia.
I tradimenti – ricordava Maria – erano all’ordine del giorno. E, di conseguenza, i pianti disperati della madre. E i litigi, le parole pesanti, le urla. Sovente anche schiaffi ed insulti. Poi le fughe più o meno durature del padre e, in concomitanza di quelle, gli stati depressivi della madre.
Maria era cresciuta così, senza alcuna considerazione da parte del mondo degli adulti significativi intorno a lei e, volendo usare una delle più belle metafore eziopatologiche coniata dal nostro psichiatra Luigi Cancrini, gli “specchi” nei quali Maria, da bambina, aveva cercato di mettere a fuoco la propria immagine erano risultati sporchi, opachi, privi di luce. Inadeguati a farle prendere coscienza di sé. Come conseguenza di ciò la bambina si era ripiegata su se stessa, schiacciata da una umiliazione profonda che né la scuola prima, né il mondo del lavoro dopo, erano riusciti a scalzare. Nel momento in cui la conobbi, Maria, dopo aver interrotto anzitempo gli studi universitari, lavorava come magazziniera in un supermercato e le sue massime prospettive erano quelle di poter divenire un giorno cassiera in quella stessa struttura commerciale.
Come ho accennato all’inizio, il caso di Maria potrebbe essere considerato banale ed esemplare nello stesso tempo: da una parte per l’apparente, schiacciante obbligatorietà delle dinamiche psichiche di base; dall’altro per la loro stessa relatività che – nel caso specifico – neanche una risorsa così evidente (la bellezza di Maria) era riuscita a debellare.
Proverò a spiegarmi meglio. Ogni volta che ascolto una storia, cerco di difendermi in tutti i modi dalla tentazione di cadere in una concezione deterministica (o causale) del destino umano. Questo perché solo una psicologia di basso profilo può illudersi che, date certe condizioni, inevitabilmente si manifesteranno specifici risultati. In realtà le cose non sono mai così semplici: solo nel mondo dell’inorganico applicando una determinata forza ad un oggetto, quello si sposterà con una velocità e in una direzione prevedibili e misurabili. Nel regno del vivente, al contrario, e soprattutto nel mondo umano, a dispetto di tutti i tentativi di riduttivismo psicologico, i risultati non sono mai scontati né tanto meno prevedibili. Una madre ansiosa e possessiva – tanto per fare un esempio - può condizionare la vita di un figlio e renderlo passivo e dipendente. Così come, per reazione, lo stesso figlio potrebbe risultare spericolato e ribelle. E tra questi due estremi si potrebbero avere tutte le gradazioni possibili immaginabili. Questo perché, a differenza del mondo inorganico, in quello umano entrano in gioco una tale quantità di variabili indipendenti (caratteri fisici e psicologici ereditari, talenti, facoltà, occasioni, fortuna e sfortuna) che in pratica, date certe condizioni, è comunque sempre impossibile prevedere cosa da queste si determinerà. Perciò, quando da un punto di vista psicologico viene ricostruita una anamnesi e vengono rintracciati i motivi che in un uomo o una donna hanno prodotto certi risultati, ci si dovrebbe sempre ricordare che in questo modo è stato descritto il “come” i sintomi si sono sviluppati e non il loro “perché”. Vengono descritte le relazioni che, in quello specifico caso, hanno giocato a favore di uno sviluppo negativo, non già le “leggi” inderogabili che hanno governato quello stesso destino.
Non a caso, nel mio lavoro, ho sempre incontrato tante persone che in condizioni tremende di vita, tutto sommato, se la sono cavata abbastanza bene, quante ne ho incontrate che, invece, hanno ceduto del tutto, sviluppando sintomi aberranti. Così come ho incontrato persone che da frustrazioni minime e offese risibili, hanno sviluppato invece sintomi devastanti.
Per questo il caso di Maria era stupefacente: da una parte erano evidenti gli eventi e le circostanze che avevano danneggiato il suo sviluppo psicologico ed umiliato la sua immagine di giovane donna. Dall’altro, era altrettanto evidente come neanche un dono così prezioso come la bellezza fosse riuscito a risarcire Maria delle attenzioni e dell’amore mancati. Quella giovane, splendida donna se ne andava in giro per il mondo circonfusa da un alone di melanconia e di tristezza così cupo, spesso e denso da tenere chiunque a debita distanza.
Di fatto Maria, anche da adulta, non aveva avuto grandi storie di amore… pochissimi ragazzi avevano mostrato un autentico interesse per lei (al di là di scontati capricci sessuali) e, in quegli ultimi anni, si trascinava all’interno di una squallida storia triangolare con un uomo sposato che se la portava a letto quattro o cinque volte al mese senza prometterle più di tanto.
Ascoltarla, in quelle prime ore del nostro rapporto terapeutico, fu per me sconvolgente: toccavo con mano e osservavo con gli occhi come nessun potenziale, nessuna ricchezza, se non sostenuta dall’interno, avesse il potere di rendere felice e soddisfatto l’essere umano. So bene che questa è una verità scomoda: così come la maggior parte delle persone è convinta che le basterebbe avere a disposizione una grossa somma di denaro per essere davvero appagata, allo stesso modo la maggior parte delle donne potrebbe essere tentata di credere che le basterebbe avere anche soltanto la metà della bellezza di Maria per sentirsi soddisfatta. Senza comprendere che in mancanza di una sana centralità dell’Io, né la bellezza per le donne, né la ricchezza per tutti gli altri, potrebbero mai essere garanzie di pienezza e felicità.
In quegli stessi mesi veniva da me, in terapia, un’altra giovane donna, coetanea di Maria. Una donna verso la quale madre natura non era stata troppo generosa ma, anzi… decisamente avara. Bene! Quella donna era la simpatia in persona: intelligente, colta, brillante, estroversa, traboccante di gioia e di vita. Contrariamente a qualunque facile aspettativa dipendente dal proprio aspetto fisico, in pratica, con gli uomini, “non sapeva a chi dare i resti”. Se era venuta da me, era appunto per comprendere meglio i propri sentimenti e, stanca di cumulare sempre nuove esperienze e liberi incontri, avere la certezza di scegliere con autenticità tra quanti le dichiaravano il proprio incondizionato amore. Perché, contrariamente a ciò che accadeva a Maria, nessuno si accontentava di avere con lei rapporti sporadici e in molti avrebbero voluto sposarla.
Fu necessario un lunghissimo rapporto terapeutico per rinforzare, almeno in parte, l’Io  profondo di Maria. Un rapporto nel quale il sostegno affettivo nel transfert giocò un ruolo determinante. Da parte mia ebbi l’occasione di fare un’esperienza che mi cambiò radicalmente: da allora, infatti, non mi sognai neanche più di dubitare del fatto che nulla, assolutamente nulla, né denaro, né potere, né salute, né bellezza, potrà mai sostituire la centralità dell’Io o, se vogliamo usare un altro termine, l’autentica coscienza di sé. Questa componente fondamentale dello spirito dell’uomo in massima parte dipende dai “modelli” che, nascendo e poi sviluppando, egli ha potuto avere sotto gli occhi. Secondo, da una sana educazione affettiva, capace di “rispecchiarlo” nei suoi valori spirituali assoluti e non dipendenti da “beni” aleatori. Terzo, infine, da impulsi di centroversione innati (E. Neumann) che sfruttando doti, capacità, talenti e inclinazioni naturali sono in grado, a volte, di sopperire alle carenze educazionali di cui sopra.
Rimane comunque il fatto che, senza un solida immagine del proprio valore esistenziale, nessun uomo e nessuna donna può vivere soddisfacentemente. Semmai può sopravvivere, quali che siano i surrogati ai quali tenterà di ancorare la propria individualità.


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