venerdì 8 febbraio 2013

CHI SONO








Dott. Piero Priorini, psicanalista junghiano e sessuologo
Con studio a Roma, a Bracciano e a Trevignano Romano.
Iscritto all’Albo degli Psicoterapeuti del Lazio al N° 655


Il dott. Piero Priorini è nato a Roma il 03. 05. 1949. Si è laureato in giurisprudenza nel 1974 e in psicologia nel 1983 presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Nel 1970 inizia un training di psicologia del profondo presso l’Istituto junghiano G.A.P.A. (Gruppo Autonomo Psicologia Analitica), divenendone socio ordinario nel 1980. Dal 1976 lavora come psicanalista junghiano libero professionista. Nel corso degli anni ha frequentato corsi di formazione in Sessuologia, Bioenergetica, Psicologia Transazionale e Ipnosi.

Una vita ricca di esperienze culturali (conferenze sulla psicanalisi tenute in varie città italiane, rassegne cinematografiche ad indirizzo psicanalitico, corsi presso l’università e in scuole di formazione privata), esperienze artistiche (giovane batterista in una rock-band, corsi di Teatro, di Danza, di Fotografia e Multivisioni), esperienze sportive (sci estremo, alpinismo, parapendio, arti marziali) e di viaggi in 4x4 (Estremo e Medio Oriente, Africa, Stati Uniti e America Latina), gli hanno permesso di scrivere e pubblicare cinque libri: tre saggi psicanalitici e due taccuini di viaggio e di antropologia.

Visita il sito ufficiale del Dott. Piero Priorini:
www.piero.priorini.it

Tel 328 0572102

giovedì 7 febbraio 2013

Antropologia



La Bellezza della Donna


Del legame occulto, più che “simbolico”, tra il Principio Femminile, le donne e la bellezza, ho già scritto più volte in articoli, saggi e brevi racconti. Sarebbe sciocco da parte mia ripetermi, perciò, presumendo che chi mi conosce abbia letto almeno qualcuno dei miei precedenti lavori (consultare ad esempio: http://www.pieropriorini.it/index_file/ladonnasalverailmondo.html) partirò dall’assunto che, di tale legame, si conoscano le radici. Tuttavia, per correttezza verso nuovi e occasionali lettori, mi si conceda di ricapitolare in sintesi tali presupposti.
Punto di partenza delle mie ricerche è sempre stata la Realtà Archetipica e l’osservazione degli elementi e delle qualità che la caratterizzano nel suo dispiegarsi nel mondo fenomenico. E questo perché, in sintonia con la psicologia del profondo di C. G. Jung e il convincimento di molti suoi esegeti, sono convinto che siano questi elementi e queste qualità ad imprimersi nella realtà quotidiana e, almeno in parte, a condizionarla. Non viceversa! In altre parole, ciò significa che il Principio Femminile e il Principio Maschile, con le loro specifiche qualità, oltre a condizionare molti dei processi del mondo fenomenico, soprattutto presiedono all’essere fisico e psichico delle donne e degli uomini i quali poi, a seconda di numerose variabili tra loro indipendenti (facoltà e attitudini innate, educazione, condizionamenti ambientali, ecc…), possono respingere oppure accogliere tali qualità. E possono farlo in maniera più o meno parziale o assoluta.
Sottolineando, ancora una volta, che le sintesi riassuntive non sono mai in grado di restituire un immagine esaustiva dei fenomeni che, appunto, vogliono solo riassumere, sarà tuttavia opportuno qui ricordare che se l’asse portante dell’identità del Maschile può essere considerata La Forza e i suoi derivati (coraggio, determinazione, aggressività, attività, ecc…), e che tutti si riassumono nel Fallo Eretto, centro gravitazionale del Femminile può essere invece considerata La Bellezza e i suoi specifici derivati (recettività, affettività, duttilità, creatività, vitalità, ecc…), che tutti si riassumono nelle Rotondità Corporee della donna.
Sono questi elementi archetipici che, in quanto universali e perenni, si dispiegano nel destino di tutti gli uomini e di tutte le donne, e ciò a prescindere – come ho già tentato di spiegare - dall’accoglimento o dal rifiuto, totale o parziale, che ogni individuo può liberamente esercitare nei loro confronti. A prescindere dalle forme contingenti che essi di volta in volta assumeranno nel tempo e nello spazio. E, infine, a prescindere dalle innumerevoli variazioni culturali e cultuali. Perciò, l’influenza del Principio Archetipico, Maschile o Femminile, può essere percepita tra gli Inuit che hanno trascinato la loro esistenza tra i ghiacci perenni, così come tra gli Himba che hanno invece popolato la costa nord della Namibia; si è fatta sentire negli usi e nei costumi degli antichi romani, così come in quelli della più rigida cultura anglosassone, ha condizionato le usanze della secolare cultura cinese così come quelli della più moderna popolazione newyorkese. Le donne sempre sensibili alla propria estetica; gli uomini sempre impegnati a dimostrare il proprio vigore.
Dato tutto ciò per provato, cos’altro aggiungere? Quale bisogno di ricamare su dati di realtà che a tutti dovrebbero apparire incontrovertibili? Nessuno! Se non forse quello di voler sottolineare l’incredibile fedeltà della donna moderna al proprio mandato archetipico.
Mi spiegherò meglio. La visione della portata e dello spessore del fenomeno che sto per descrivere si è accesa all’improvviso in me, che da anni tratto queste tematiche, soltanto poche settimane or sono, durante un ultimo viaggio in India. Da giorni mi compiacevo di osservare i magnifici colori dei Sari indossati dalle donne indiane quando, come se fossi stato colpito da un lampo, mi resi conto del fatto che, forse, più del novantacinque per cento delle donne che osservavo vestivano con i costumi tradizionali, mentre si e no il dieci per cento della popolazione maschile faceva altrettanto. Così, al fianco di donne giovani o vecchie, povere o ricche, disimpegnate oppure intente nei più duri e umili lavori, tutte però in sari e veli, in un tripudio di accesissimi colori, al loro fianco, dicevo, c’erano uomini grigi, vestiti all’occidentale, con jeans, scarpe da ginnastica Nike o Reebok, magliette di calcio con i numeri di Totti, Ronaldo o di Lionel Messi, maglioni dai colori scuri, smorti e tristi, oppure con giacche a vento nere e informi.









Perché?
Mentre me lo chiedevo, mi resi conto però che la stessa cosa avevo sempre osservato ovunque nel mondo: in Medio Oriente, in Africa, in America Latina… Forse non con la stessa schiacciante proporzione percentuale ma, comunque, pur sempre esorbitante. Le donne bellissime nei loro abiti o vesti tradizionali, con le acconciature, i trucchi e i gioielli che le avevano celebrate nel corso della storia. Gli uomini inguardabili, dentro abiti che non gli appartenevano, brutti anche nei rari casi in cui si trattava di vestiti di prestigio. Smunti. Tristi. Inadeguati.
Ancora una volta… Perché?
Come era possibile che nessuno avesse mai rilevato l’assurdità del fenomeno? O, almeno, la sua dissonanza percettiva?
Non feci in tempo a stupirmi della mia osservazione che già mi stavo rispondendo: è probabile che il fenomeno che stavo contemplando non fosse altro che la riprova di quella differenza sostanziale tra il Principio Femminile e quello Maschile di cui sempre mi sono interessato al livello professionale. È innegabile, infatti, che anche gli uomini moderni sono fedeli alle Qualità Archetipiche proprie del Maschile. Anzi, le stanno acuendo ed esasperando: gonfiando i muscoli in palestra, imponendo alle donne il proprio egocentrismo o devastando il mondo con guerre assurde il cui unico scopo è il raggiungimento del Potere e della Ricchezza. Che, a loro volta, sono un modo come un altro per dimostrare a tutti quanto grosso e duro sia il loro fallo.
La donna, dunque, vestendo così come si veste, sorridente, sempre carica di bambini, un po’ dovunque nel mondo, non fa che raccontare la sua fedeltà a se stessa: testimone della Bellezza, dispensatrice di Vita, messaggera di Pace, interprete della Gioia e della Speranza. Innovativa, scaltra, sempre attenta, competente, sagace e smaliziata… nonostante tutte le difficoltà che un Maschile, non troppo degno di essere alla sua altezza, scarica da tempo sulle sue spalle.


Perciò la carrellata di fotografie che seguono, scattate da mia moglie, vogliono essere un omaggio a tutte le donne che, in un momento così drammatico come quello che il mondo intero sta attraversando, con questa tacita fedeltà a se stesse, offrono un esempio vivente delle poche alternative possibili che abbiamo per ritrovare il senso e il significato del nostro esistere in questo mondo.








































































































Articoli di psicoanalisi


Quale Terapeuta?
"Cento anni di psicanalisi - è intitolato uno dei libri di J. Hilmann - e il mondo va sempre peggio." Certamente… quella di Hilmann è una provocazione bella e buona. Ma qualcosa di vero la contiene. Soprattutto se ammettiamo il fatto che al di là dei limiti ordinari della psicoterapia - comuni a qualunque forma di medicina o pratica terapeutica - e di quelli poi invalicabili del destino ultimo di ogni essere umano, un numero incredibilmente alto di psicoterapeuti sono purtroppo inadeguati. Non tanto per mancanza di formazione, preparazione culturale, serietà o buona volontà, quanto piuttosto per basilare mancanza di attitudine (e mi verrebbe voglia di aggiungere: terapeutica e morale). Che fare allora? Buttare tutto nella spazzatura, o imparare a navigare nel periglioso mare scegliendo magari il capitano giusto (o comunque quello meno sbagliato) a cui affidare il compito di condurre la navicella della nostra psiche fuori dal gorgo nel quale si trova a rigirare su se stessa? Convivere con il proprio disagio, o sciogliere i nodi che uniscono impropriamente la teoria clinica alla pratica, e ri-appropiarsi del diritto di scegliere il proprio terapeuta?
Il fatto è che la psicoterapia (in tutte le sue variegate forme) può essere considerata uno dei fenomeni più contraddittori e paradossali che l'umanità abbia prodotto nel corso dell'ultimo secolo del trascorso millennio, e che appunto, in quanto paradossale, non è stato ancora compreso nella sua più profonda natura. Soprattutto dal pensiero ingenuo "dell'uomo della strada" il quale, altrettanto paradossalmente, è proprio colui che di questo strumento dovrebbe servirsi per arrivare a conoscere meglio se stesso..
Proviamo allora ad osservarla meglio e a trovare un senso tra queste sue mille contraddizioni.
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Quando vide la luce, sul finire dell'ottocento e i primi del novecento, ad opera del genio indiscusso del maestro viennese, la psicanalisi rappresentò la risposta più coerente ed adeguata ai bisogni dell'anima malata dell'uomo moderno occidentale. Come è ovvio fu figlia della sua epoca ma, crescendo, era inevitabile che continuasse a fare i conti con la storia; ed è lungo questo percorso che ha più volte rischiato - e ancora continua a farlo - di perdere contatto con le proprie radici.
Difatti, contravvenendo alle indicazioni del suo stesso ideatore (che intuitivamente aveva auspicato la futura emancipazione della sua creatura dalla matrice medica) la maggior parte dei suoi successori operò in senso contrario e - vittime inconsapevoli di un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti della scienze esatte - diedero vita ad un processo (non ancora terminato) di sistemazione e inquadramento rigoroso della teoria originale. Lo scopo - più o meno confessato - era quello di ottenere il pieno riconoscimento del loro stesso operare e l'iscrizione della psicanalisi appunto nell'albo delle scienze.
Ma - haimé - la psicanalisi non è una scienza. Non ne possiede i requisiti, e quando qualche ricercatore preparato ha voluto sottoporla alle prove del caso in pratica l'ha fatta a pezzi, scoprendo che è autoassertiva e dogmatica, né più nemmeno come tutte quelle sette pseudo-religiose, esoteriche e/o comunque salvifiche di cui è pieno il nostro variopinto mondo. Ovviamente una differenza c'è, e sostanziale. Perché la psicoterapia in una alta percentuale statistica dei casi funziona… funziona davvero; ma al di là della fondatezza delle teorie della personalità (che sono quello che sono), dell'esattezza rigorosa dei protocolli nosografici, dell'accurato studio e della continua verifica dei principi psicodinamici, se la psicoterapia funziona ciò è dovuto alle capacità e alle motivazioni profonde di ogni singolo operatore.
Tant'è vero che ci sono state occasioni (e purtroppo ancora ce ne sono e forse sempre ce ne saranno) in cui singoli terapeuti - usando sostanzialmente lo stesso materiale clinico di riferimento e il gergo più o meno esoterico, ma corretto, di tutti gli altri - hanno finito per creare piccoli o grandi gruppi di discepoli e adepti fanatici a cui nessuno riuscirà mai a dimostrare la condizione di plagio psicologico nella quale si sono venuti a trovare.
Ma attenzione: a ben vedere, la responsabilità di questo stato di cose non dipende della rigorosità scientifica o meno della teoria di riferimento del terapeuta, né tantomeno dal titolo accademico di quest'ultimo, perché tutte le teorie psicologiche (nessuna esclusa) sono auto-referenti, non falsificabili (vedi Popper) e auto-dimostrative, mentre nessuna laurea ha mai potuto, né mai potrà, garantire la sanità mentale, l'attitudine terapeutica e la solidità morale di un terapeuta.
Di fatto non c'è teoria che non presumi una vera e propria capacità intuitiva (e oserei aggiungere "visionaria") da parte dell'operatore, e che, appunto in quanto capacità intuitiva, non può essere certamente insegnata. E' pur vero che i più grandi didatti si sono sempre raccomandati di considerare la terapia più un'arte che una scienza, e come tale di insegnarla, ma è poi anche vero che queste loro raccomandazioni non hanno trovato un grande riscontro nelle scuole di formazione. All'arte si guarda con sospetto negli ambienti scientifici, e non si è disposti ad ammettere che essa possa essere una forma ben più evoluta di "conoscenza del reale"; troppo inafferrabili i suoi presupposti, assolutamente non condivisibile come esperienza e senz'altro non riproducibile. E poi come gestirla nell'ambito delle scuole di formazione? E soprattutto (problema vecchio come il mondo) senza un parametro di riferimento oggettivo, chi potrebbe mai garantire dei garanti? Non dimentichiamoci che fu proprio in nome di una maggiore rigorosità scientifica e, soprattutto, di una maggiore garanzia dei così detti "utenti" (termine orribile) che negli anni novanta vennero chiuse le scuole psicanalitiche private e la formazione terapeutica monopolizza dall'università. Con il risultato che - se prima chiunque poteva spacciarsi psicoterapeuta - oggi occorrono invece 24 esami alla facoltà di Psicologia e lo sborso di svariati milioni alle scuole che gestiscono ufficialmente la formazione per raggiungere lo stesso traguardo. Resta da chiedersi se l'utente fosse più protetto quando vagava nella giungla della psicanalisi selvaggia ed era perciò legittimamente sospettoso, o lo sia invece ora che, giustamente, fa affidamento sulla garanzia di un albo.
Come se questo potesse effettivamente garantire alcunché.
Ma c'è di più: se è fondamentale che ogni terapeuta possegga una buona conoscenza della materia medica, e che tale conoscenza sappia poi arricchire e movimentare grazie ad una innata attitudine artistica, non meno importante dovrebbe essere poi la sua levatura spirituale (o morale, che è la stessa cosa); non tanto come aderenza fideistica a questa o a quella confessione, bensì come apertura incondizionata ai più profondi bisogni dell'essere umano, che di spiritualità sono intrisi.
In altre parole ciò vuol dire che l'individualità del terapeuta è il vaso alchemico in cui le conoscenze intellettuali apprese, le capacità creative innate e gli slanci morali conquistati si incontrano, e le sue esperienze di vita rappresentano il fuoco al cui calore tutto questo materiale continua ad amalgamarsi.
Come dire, insomma, che non esiste nessuna psicanalisi o psicoterapia in quanto tale, bensì piuttosto singoli terapeuti. La terapia è un Incontro - intellettuale, emozionale e spirituale - tra due esseri umani e ciò che ne può scaturire, come in tutti gli incontri, è unico e irripetibile.
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Ma se è vero che il "terapeuta è la terapia", come rintracciare quello giusto?
Ogni tanto arriva nel mio studio qualche paziente che mi racconta di sue precedenti esperienze psicanalitiche: è stato mesi (a volte anni) seduto di fronte ad un terapeuta che sentiva emotivamente distaccato, oppure sdraiato su un lettino dietro il quale un altro terapeuta non pronunciava mai una parola, oppure ancora in relazione con qualcuno che non usava il suo stesso codice verbale ed esperenziale… e sempre mi sento confessare che ha pensato: "Deve essere colpa mia, forse è una resistenza che dovrei superare…"
Quando mi accade cerco di spiegare alla persona che ho davanti che la psicoterapia è sostanzialmente un Incontro, una esperienza emozionale tra due persone, e che non ha senso abdicare il proprio giudizio a favore di dogmi teoretici e luoghi comuni. E' senz'altro vero: il lavoro analitico prevede il difficoltoso superamento di molte resistenze inconsce, ma non tutte le resistenze sono "resistenze" e occorre intuito da parte di entrambi per riconoscere le une dalle altre. L'aderenza incondizionata alla tecnica o alla teoria di turno è pericolosa. Perché sono le teorie che dovrebbero sforzarsi di aderire alla realtà dell'uomo, non l'uomo alle teorie, per quanto corrette quest'ultime possano apparirgli. Nessun terapeuta - spiego ancora - solo in virtù dei suoi attestati, dovrebbe essere considerato appunto un buon terapeuta o, comunque, il terapeuta adatto per chiunque; e dopo anni e anni di lavoro e di esperienze raccolte sul campo mi spingo certe volte a dire che non conta neppure il suo orientamento teorico (freudiano, junghiano,  bioenergetico, cognitivista, relazionale, ipnotista o quant'altro…), bensì solo ed esclusivamente quello che è come persona.
Ma come scoprirlo?
A chi me lo chiede in genere rispondo: "Soprattutto con la pancia…. Lasciate parlare il vostro istinto, dategli credito, e otto volte su dieci quello vi darà la risposta giusta."
Ma se la persona davanti a me non si fidasse del proprio istinto, e fosse perciò indeciso, gli suggerirei allora di contattare quanti più terapeuti possibili, rivolgere loro una sola innocente domanda: "Dottore, lei crede nella psicanalisi?" e scartare immancabilmente tutti coloro che rispondono: "Si!"
Perché la Certezza uccide e solo il Dubbio lascia spazio alle speranze.


Articoli di psicoanalisi


L’uomo è un essere invisibile




Garantisco il lettore che questo non è un articolo di fantascienza né tantomeno di New Age, bensì un articolo di psicologia del profondo il cui autore non è affetto da psicosi delirante, è sobrio e vanta una formazione scientifica di tutto rispetto. Solo che, per quanto pazzesca, assurda o azzardata quest’affermazione possa sembrare, la verità è che tutti noi, uomini e donne che abitiamo questo pianeta, essenzialmente siamo gli uni invisibili agli altri. Questa però non è una metafora, un’allegoria o un’immagine retorica, bensì un fatto. Un dato incontestabile, anche se pochissimo evidente – bisogna ammetterlo – della natura ultima delle realtà.
Ma procediamo con ordine, e verifichiamo l’attendibilità di questa mia affermazione.
Potrei cominciare rimandando il lettore interessato agli ultimissimi paradigmi della ricerca scientifica i quali - in contraddizione con quelli propri dell’oramai superata scienza newtoniana – riconsiderano il ruolo dell’osservatore in relazione alla natura dell’oggetto osservato. In altre parole ciò significa, contrariamente a quanto supposto dalla vecchia scienza, che nessun ricercatore (osservatore) può presumere di prendere le distanze dall’oggetto osservato e, da una tale asettica posizione, studiarlo come ente fatto e finito, incondizionato e  non condizionabile dall’intervento che su di lui egli stesso compie. Al contrario, oggi sappiamo che l’osservazione condiziona l’ente osservato, lo modifica nella sua natura più profonda, a testimonianza del fatto che un “quid” più o meno invisibile collega tutti al Tutto e, dunque, ognuno ad ogni cosa. Solo che questo “quid” non è più, oggi, un fluido magico e misterioso, come quello supposto verso la fine dell’800, né tantomeno un etere invisibile e incommensurabile. Al contrario sembrerebbe rimandare ad un legame di natura subatomica – lo stesso che è responsabile del cambiamento istantaneo del senso di rotazione dello splin di due neutrini gemelli ancorché distanti miliardi di km nello spazio siderale – e che rimanda alle forze presenti nell’Ordine Implicato (supposto da David Bohm) o al Vuoto Quantomeccanico di Massimo Corbucci.
Spero di non aver di nuovo spaventato il mio lettore. Non c’è alcun bisogno di conoscere le attuali diatribe che dividono i fisici della meccanica quantistica per comprendere il mio assunto iniziale. Se ne ho riportato alcuni spunti era solo per introdurre l’idea che la realtà del mondo, quella realtà così solida, concreta e incontestabile che si dispiega sotto i nostri sensi, in verità non è affatto così solida, così concreta e così incontestabile come ci fa tanto comodo credere, bensì molto più evanescente e, in ultima analisi, occulta. Nessuno di noi percepisce la Realtà nella sua totalità! Ma ognuno di noi percepisce piuttosto quella porzione (piccolissima) di realtà che siamo stati educati – ma anche condizionati – a percepire.
Giunto a questo punto, prima di proseguire, potrei suggerire un facile esperimento: prendete tre, quattro, venti o cento persone specializzate in un qualche settore. Che so? Un botanico, un etologo, un pittore, un alpinista, un architetto e via discorrendo. E portateli ora, tutti insieme, in un grosso parco naturale. Fateglielo girare in lungo e in largo e a proprio piacimento. E alla fine provate a fare un’indagine profonda e scrupolosa di ciò che hanno visto: sicuramente risulterà che il botanico ha visto piantine di notevole interesse, l’etologo avrà individuato chissà quante colonie di animaletti, il pittore sarà rimasto colpito da cromatismi insospettati, l’alpinista avrà individuato appigli e appoggi su alcuni alberi che si prestavano per essere scalati e l’architetto avrà individuato la pianta organica del parco. Ma il bello è che nessuno avrà visto nulla, ma proprio nulla, di ciò che ogni altro ha invece percepito e gustato in ogni minimo particolare.
Sapete cosa significa tutto questo? Che ognuno di noi percepisce quel tanto di realtà che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’educazione, la cultura alla quale apparteniamo, le esperienze che abbiamo fatto e gli strumenti interiori che abbiamo a disposizione. E infine ciò significa che la realtà a cui tutti facciamo riferimento quando parliamo, quando ci muoviamo nel mondo, quando interagiamo con gli altri, in verità è una Convenzione! Tutti noi viviamo immersi in una Realtà Convenzionata, che siamo abituati a credere uguale per tutti ma che, al contrario, è profondamente diversa e Altra per ognuno di noi.
Fino a pochi decenni fa il fenomeno non appariva che in situazioni eccezionali, non tanto perché erano ancora da scoprire le leggi della nuova fisica, o le dinamiche psicologiche del linguaggio, della percezione sensoria o dell’esperienza emotiva. Piuttosto sono portato a credere che quanto meno l’essere umano era differenziato, quanto meno il suo Io era individuato, tanto più coesa appariva la convenzione di realtà della quale tutti partecipavano. Tra le popolazioni primitive, ad esempio, la cui vita interiore ed esteriore era scandita da rituali e tabù inderogabili, c’era poco spazio per la manifestazione dell’individualità specifica ed autonoma, e la sovrapposizione delle singole realtà fino a costituire quella realtà convenzionale che tutti poi avrebbero data per scontata, era perciò facile e immediata. Bene o male tutti partecipavano della medesima realtà.
Ma se ora partiamo da quelle primordiali aggregazioni umane e risaliamo la storia, su su attraverso le famiglie, i clan, le tribù, gli stati, le nazioni e l’attuale cosmopolitismo, ci accorgeremmo che all’ampliarsi del riferimento sociale fa tuttavia riscontro l’emanciparsi della individualità egoica dalla collettività nella quale un tempo era contenuta. Oggi, almeno in occidente, c’è la massima espressione della singolarità della struttura interiore di ogni individuo la quale, in massima parte, si scosta per tutta una serie di cause e di concause dalla condivisione della realtà. E questo nonostante l’appartenenza ad un medesimo territorio, la comune educazione - laica o religiosa - la cultura di fondo e l’incalzare della comunicazione di massa. La quantità di segnali, stimoli e impressioni che agiscono su tutti noi sono talmente tanti e diversificati che nessuno è in grado di appropriarsene e di elaborarli nella loro totalità Si potrebbe perciò anche dire che ognuno accoglie ciò che può, oppure ciò verso cui si sente attratto. Ognuno accoglie una parte infinitesimale dei dati a disposizione e, su tali dati, edifica poi la propria realtà. Una realtà che gli sembrerà concreta ed oggettiva, certa e unica, ma che non coinciderà più se non marginalmente con quella del proprio congiunto, o con quella del proprio vicino, o con quella di tutti gli altri. Ciò nonostante continuiamo a credere in una Realtà Comune senza accorgerci della sua convenzionalità.
Questo inganno che tutti subiamo, questa sorta di incantamento che ci illude di vivere nello stesso universo dove tutti vivono e assoggettati alle stesse leggi naturali, è perciò dovuto al solo fatto che la realtà che ognuno di noi si crea è si fondata su dati inoppugnabili, solo che essi sono parziali. Sono dati minimi di una Trasmissione Dati ben più vasta, ricca e generosa ma che la nostra coscienza non è in grado di contemplare nella sua interezza.
E così conviviamo, a stretto contatto di gomito: il prete che ha dedicato tutta la propria vita alla ricerca di Dio, convinto di salvare l’anima dei propri fedeli; l’amministratore delegato della grande multinazionale che riduce alla fame migliaia di lavoratori, convinto di rispettare il mandato dei propri azionisti; il grande chirurgo che vive ogni giorno immerso nel sangue e negli organi asportati, convinto di essere l’unico e il solo a salvare la vita ai propri simili (perché l’unica vita è quella organica); il giocatore di pallone che incanta una nazione con “l’intelligenza dei propri piedi” convinto di essere chissà quale grande uomo; l’avvocato che vede motivi di contenzioso ovunque; lo sportivo che vive solo per i propri record; il criminale che pensa esclusivamente a quali colpi mettere a segno; il play boy inveterato convinto che le donne siano tutte grandi puttane; l’astrologo che vede ovunque gli influssi delle stelle; la mamma che vive solo per i propri figli… E gli “strizzacervelli” (per fortuna non tutti) che a forza di contemplare le dinamiche più oscure dei loro pazienti sono convinti di vedere l’Invisibile!
Spero che si comprenda che sto semplificando: nessuno si limita nel modo che ho descritto e tutti, chi più chi meno, spaziano in altri ambiti. Ma per quanto vasti questi possano essere sono pur sempre una povera cosa di fronte alla vastità della realtà ultima dell’esperienza che condividiamo.
Perciò provvediamo… continuando a credere in una realtà comune. In una convenzione di realtà.
In questa convenzione rientrano le idee sulla nostra stessa natura. Chi potrebbe negare la nostra completa visibilità? Eccoci tutti qua: una testa, due braccia, un torace, due gambe… capelli, occhi, bocca. I caratteri sessuali maschili o femminili… alti o bassi, magri o grassi, giovani o vecchi, bianchi, neri, gialli o rossi... Eccoci qui, ben esposti alla vista.
Sono sicuro che quanti si sentono fini psicologi a questo punto avranno mangiato la foglia:
- Non basta – avranno pensato sorridendo – c’è di più…
E come dargli torto? Certo che c’è di più.
Come si chiama questa persona? Quanti anni ha? Che istruzione ha ricevuto? Quali talenti ha ricevuto dalla vita? Quali sono state le sue esperienze più importanti? Che lavoro fa? E’ gay o eterosessuale? Quale partito vota? E’ atea o credente? Vive da sola o in compagnia? Quali sono i suoi hobby? Quali i suoi progetti futuri?
Prendiamo tutte queste informazioni, sovrapponiamole a ciò che i nostri sensi percepiscono e… insomma, potremmo dire di avere una più che discreta “vista” di insieme della persona che abbiamo di fronte. Possiamo sentirci soddisfatti.
Peccato che le cose non stiano affatto così e che, ancora una volta, la realtà convenzionale offuschi non solo il nostro sguardo, bensì anche la nostra coscienza. Siamo tutti convinti, infatti, che l’essenza dell’essere umano che ci sta di fronte sia rinchiusa nel tempo e nello spazio, che l’Io dell’ uomo finisca dove finisce la sua epidermide e che, tutt’al più, nella massa cerebrale racchiusa nel suo cranio si occultino i suoi ricordi, le sue capacità, i suoi talenti, le sue mancanze, i suoi progetti, le sue fantasie, le sue speranze. Siamo convinti che l’uomo o la donna che ci stanno di fronte si esauriscano nella loro corporeità e nei tratti psicologici che ostentano.
Ma – lo ripeto – non è così. C’è un territorio più profondo, c’è una zona più ampia, vagamente assimilabile all’inconscio della psicanalisi, dove continuano ad esistere tutte le esperienze che hanno fatto parte della vita di ogni persona. Solo che questo territorio dell’anima non è “contenuto” nelle cellule nervose, né tanto meno nel flusso molecolare delle sinapsi. Piuttosto rinvia a quella dimensione extra-spaziale ed extra-temporale a cui sopra ho accennato e nella quale è radicato l’apparire del mondo. Rimanda a quella dimensione invisibile dalla quale trae alimento e sostanza quella visibile.

Trenta raggi convergono nel mozzo
Ma è il vuoto del mozzo l’essenziale della ruota.
                             (Dal Tao Te Ching di Lao Tzé)

Ma il fatto che una dimensione sia invisibile non vuol dire che non esista. Vuol solo dire che non è rilevabile dalla nostra percezione sensoria che è tarata sulla spazialità. Ciò nonostante l’invisibile ha una sua “consistenza”, una sua “dimensione” o, se vogliamo, un suo “spessore”. Solo che, appunto, non si vede. C’è, ma non appare.
Se fossimo in grado di percepirlo, allora, guardando un uomo o una donna, vedremmo un “campo di forze” immenso che – per così dire – alla sommità va condensandosi fino a costituire, proprio all’apice, una piccolissima “perla”, ben solida e compatta. Quella piccolissima perla è la nostra testa, gli elementi semi-condensati appena sotto la testa rappresentano il nostro corpo fisico, mentre tutta la restante, immensa parte di forze plastico-dinamiche è la nostra completa individualità.
Sembra fantascienza, vero? Ma non lo è. Questa è la Realtà della realtà.
Facciamo qualche esempio:
Anni fa si presentò al mio studio un uomo di una certa età. Dopo essersi assicurato del vincolo del segreto professionale, si presentò: era uno degli avvocati più famosi d’Italia. Era stato rappresentante legale di non so più quali grandi industrie italiane a partecipazione statale, era stato molto vicino ad alcuni degli uomini politici ai vertici del potere e, potremmo dire, le sue idee avevano svolto un ruolo importante nell’andamento politico del nostro paese per almeno alcuni decenni. Ebbene, quest’uomo rispettato, invidiato e temuto, mi confidò alla fine il suo segreto. Egli era ben consapevole di non valere assolutamente nulla, di essere un incapace… di essere un inetto, incompetente, inadeguato, maldestro pasticcione e di vivere nell’assoluto terrore di essere scoperto. - Prima o poi – mi confidò quest’uomo con il panico negli occhi - tutti coloro che mi hanno dato fiducia capiranno chi sono, scopriranno chi sono io veramente, e mi cacceranno con infamia!
Non credo che ci sia bisogno di molte parole da parte mia per confermarvi come il suo terrore fosse del tutto infondato. Ve li immaginate i nostri più grandi imprenditori e i nostri più importanti uomini politici – che non esiterei a definire veri e propri “Squali” economici – presi per i fondelli da un millantatore? Per decenni?
Ci sarebbe da ridere a crepapelle. E invece quest’uomo, affetto da una sindrome di abbandono che lo aveva convinto – fin da quando era piccolino - di essere “sbagliato”, cattivo, sciocco e, dunque, indegno di autentica considerazione, quest’uomo che si era laureato con i massimi voti in giurisprudenza (convinto di aver sempre avuto “molto culo”), che si era specializzato alla Bocconi di Milano (secondo lui era stato solo fortunato) e che aveva fatto guadagnare alle industrie di cui si era occupato decine di miliardi (senza merito alcuno, sosteneva), quest’uomo elegante, colto e raffinato era vissuto per sessant’anni nel terrore.
E adesso fate uno sforzo e provate a visualizzare il suo inferno personale: un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, per mesi e per anni, per decenni… Sempre con il fiato trattenuto, spesso con le pulsazioni cardiache alterate, bagnato di sudore freddo, invaso e tormentato da fantasie: “Adesso mi scopriranno, adesso se ne accorgeranno… mi cacceranno via e sarò additato al pubblico lubrico… che vergogna, Dio mio, che vergogna!”.  Era conosciuto come persona brillante e affascinante… in realtà spesso pagava belle donne che si prestavano ad accompagnarlo nelle occasioni mondane, perché la sua vita affettiva ed erotica era stata condizionata dalle stesse dinamiche, dalle stesse paure, dagli stessi fantasmi. Era sempre stato davvero terrorizzato e, all’epoca in cui l’incontrai, era così stanco di questo tormento interiore e della messa in scena che – almeno secondo lui - aveva recitato per tutta la vita che stava seriamente pensando al suicidio.
E adesso chiedetevi: ciò che si vede all’esterno quanta parte di quest’uomo rappresenta?
Poco o nulla. Sulla superficie dell’Oceano-Realtà galleggia la parte emergente di un iceberg. Per quanto gigantesca essa possa essere, è pur sempre povera cosa rispetto a quella parte di sé che la completa ma che giace, invisibile, sotto la superficie dell’Acqua.
Una donna, non più giovanissima, ma che doveva essere stata molto bella, si presenta un giorno al mio studio. E’ una professoressa universitaria, è singol, e vive perciò da sola in compagnia di una gatta oramai molto vecchia. Da bambina aveva molto amato la madre e guardato invece con sospetto un padre spesso assente e troppo scopertamente interessato all’universo femminile. La paziente mi racconta che un giorno, quando lei aveva 8 anni, tutta la famiglia fu coinvolta in un terribile incidente stradale che causò la morte della madre. La piccola rimase perciò con il padre il quale, inconsapevole che nell’immaginario della figlia egli era colpevole della morte della madre (perché al momento dell’incidente era lui che guidava l’auto), pensò bene di buttare benzina sul fuoco, facendole incontrare, negli anni, una dopo l’altra, tutte le giovani donne con cui lui si accompagnava. Donne “oggetto”, che il padre usava e gettava come se niente fosse. La bambina crebbe con un odio feroce nei confronti degli uomini… crebbe, sviluppò… divenne una bellissima ragazza e pensò bene di vendicarsi rendendo agli uomini “pan per focaccia”. In breve tempo divenne una “mangiatrice di uomini”. Uomini che anche lei “usava” cinicamente e “buttava” subito dopo averli fatti innamorare. Tuttavia, quando aveva 35 anni, incontrò un uomo, sposato, molto simile al proprio padre. Un uomo che da bambino era stato testimone delle numerose relazioni amorose intrattenute dalla madre di nascosto dal padre.  Tra la mia paziente e quest’uomo fu subito “cortocircuito”… ne nacque una relazione turbolenta in cui nessuno dei due contendenti era disposto a deporre le armi. Quando erano insieme lui (rievocando la madre) la trattava come una prostituta, una donnaccia poco di buono da usare per il proprio piacere. Con ciò vendicandosi della madre e, indirettamente, di tutte le donne! La mia paziente subiva, come affascinata (dal ricordo del padre), arrivava ad un estremo di umiliazione e poi fuggiva, allontanandosi da lui. Dopo poco però lui tornava a cercarla, promettendole di cambiare, di separarsi dalla moglie e di imparare ad amarla. Lei credeva alle sue parole (bisognosa di conquistare l’immaginario maschile-paterno inconquistabile) e il gioco ricominciava… perché dopo pochissimo lui riprendeva a trattarla come una puttana. Un gioco sempre uguale, sempre lo stesso… ognuno di loro due attratto e convinto a livello inconscio di riuscire prima o poi a risolvere, nella relazione con l’altro, il nodo nevrotico vissuto nel passato: lui perduto nel proprio amore-odio per la madre, lei smarrita nel proprio odio-amore per il padre. Un gioco micidiale, perverso, allucinante, senza scampo… che era durato 15 anni e che ancora era in piedi quando la donna entrò nel mio studio. Quando mi lasciò, due anni dopo, avendo conquistato solo una parziale autonomia da lui, mi disse:
- Se soltanto una volta lui mi dicesse: “Ti amo” potrei finalmente lasciarlo e rifarmi una vita.
Non riusciva a credere che quelle parole, quell’uomo, non le avrebbe mai potute pronunciare perché troppo fiero e vendicativo nei confronti della madre che lo aveva sempre tradito.
Vi invito ancora una volta a immaginare la vita interiore di queste due persone: un’intera vita attraversata da speranze, desideri, collere furibonde, odi profondissimi, bisogni, slanci d’amore, decisioni irrevocabili, promesse mai mantenute, bugie, menzogne, sogni infranti, progetti annullati e poi ogni volta ricostruiti, incontri d’amore, sfide sessuali, attacchi improvvisi indirizzati a fare male, ad uccidere l’avversario che poi, però, si cercherà di resuscitare. Un inferno! Un inferno che durava 15 anni… ma i cui prodromi erano già iniziati 20 anni prima quando sia lui che lei si erano persi, urlando, nei giardini della propria infanzia.
Chi vorrà sostenere che nell’integerrima professoressa o nel medico affermato che tutti i giorni si sono aggirati per le strade della nostra città, e che hanno incontrato amici, colleghi, studenti, pazienti, sconosciuti di passaggio, magari salutando e sorridendo, chi vorrà sostenere che in queste due persone siano stati riconoscibili e dunque visibili le loro più complete ed ultime realtà? Chi ha mai contemplato il loro Io più profondo? Chi li ha davvero visti?
Un ultimo esempio, di sfuggita: penso al prestigioso professore di università, sposato e con due figli, che mi confessò la sua insuperabile attrazione per il masochismo. La sua mente, per altro assai brillante, era quasi continuamente occupata da fantasie erotiche in cui “Padrone Severe”, vestite di cuoio e lattice, armate di manette e frustini, lo costringevano alle più umilianti torture portandolo solo infine ad un orgasmo liberatorio. Anche qui: incontri segreti, menzogne, sperpero di denaro, promesse di cambiamento fatte a se stesso, desideri morbosi, fantasie estreme, vergogna… molta vergogna. Sempre. E poi ancora rassegnazione, pensieri suicidi, voglia di riscatto, masturbazioni segrete, incontri umilianti, ricatti a volte… e ancora vergogna…
Cosa si vede di quest’uomo? Poco o nulla. Il suo Io è invisibile agli occhi del mondo. Ciò che si vede è poca cosa, una quisquilia, schiuma di mare sulla superficie dell’Oceano Profondo.

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È ovvio… si potrebbe ora obbiettare che la mia sia sempre stata una posizione particolare. Che lo studio di uno “strizzacervelli” non sia un laboratorio giusto per simili esperimenti.
Lo credevo anch’io, fino a pochi anni fa. Credevo fosse la “Patologia” ad essere invisibile.
Poi, pian piano, man mano che raccoglievo confidenze e testimonianze occasionali da uomini e donne straordinari che mi capitava di incontrare fuori dal mio stretto ambito lavorativo, mi sono accorto di quanti aspetti della vita interiore delle persone rimanessero sempre e comunque celati alla vista degli altri. Negli anni sono stato onorato, infatti, dalla fiducia di persone che mi hanno fatto partecipe di rivelazioni segrete e informazioni riservate sulla loro vita privata. Vite straordinarie, lo ripeto, nelle quali rilucevano generosità inimmaginabili, abnegazione e senso della responsabilità, sacrifici, scelte eroiche e coraggiose, progetti arditi, gesta spericolate e temerarie.
E allora ho capito. Con l’esperienza e la “vecchiaia” ho capito.
Siamo tutti esseri invisibili. Chi più chi meno. Abbiamo tutti le nostre vicissitudini occulte e siamo tutti attraversati da paure, speranze, bisogni, rimpianti, odi segreti, amori non confessati, fantasie perverse, ferite vergognose, rinunce coraggiose, sacrifici eroici, altruismi inimmaginabili. Tutti ci osservano, ma nessuno “ci vede” per quello che siamo. Noi stessi, tuttavia, vediamo solo una parte piccolissima e superficiale della realtà degli altri, perché quella che veramente conta è nascosta. Non appare, se non per brevi lampi di intuizione immaginativa. Ad esempio quando “amiamo” - come scoprì Oscar Wilde nei suoi ultimi giorni di vita passati in carcere per il reato di omosessualità – perché allora, e solo allora, cogliamo con la forza dell’immaginazione l’essere profondo e ideale dell’altro. Lo cogliamo in una sorta di Immagine Ideale che non è però, si badi bene, una costruzione arbitraria della fantasia, bensì un’autentica percezione visionaria dell’essere dell’altro colto nella sua completezza e nella sua verità.
Solo l’immaginazione d’amore può arrivare a tanto e svelare l’occulto.
Ma essa – da sempre - appartiene agli eletti!
Ai “Poveri di Spirito”.
Qualche volta, ma non sempre, e non per sempre, agli amanti…

mercoledì 6 febbraio 2013

Articoli di psicoanalisi


Come salvarsi la vita... psichica
Sembra incredibile: nell’epoca della più veloce, ampia ed esaustiva informazione possibile, messa a disposizione di chiunque desiderasse averla, sono invece pochissime le persone che potrebbero affermare di conoscere la differenza che intercorre tra gli ambiti operativi della psichiatria, della psicologia, della psicanalisi o della psicoterapia. Pochissimi conoscono le profonde differenze che intercorrono tra molti di questi “strumenti” terapeutici… strumenti che solo l’etimologia della prima componente del nome - Psyké - rende similari. Eppure, se non proprio di tutti gli uomini o di tutte le donne moderne, questo dovrebbe pur essere un interesse specifico se non altro di quanti intendessero usufruire di un “trattamento” psicologico. 
Un attento esame della realtà ci dice, tuttavia, che le cose non stanno affatto così, e che molte persone, pur nella massima buona fede, spesso si affidano ciecamente a terapeuti di cui non conoscono né la formazione né, soprattutto, i presupposti conoscitivi della loro formazione.
Dovrebbero?
Credo di si! L’epoca della fiducia nel “ruolo” è tramontata da un bel pezzo, e così come essere madri o padri naturali non garantisce della capacità di svolgere adeguatamente i propri compiti, così come essere insegnati o professori di ruolo non certifica della capacità di educare dei giovani, così come l’appartenenza stessa ad un genere, maschile o femminile, non rivela un gran che della capacità di essere Uomini o Donne, così, tanto più, essere psicologi o psicoterapeuti - oggi più che mai – non racconta nulla dell’equilibrio psichico raggiunto, dei presupposti conoscitivi appresi nel corso della propria formazione o della “padronanza dell’arte” necessaria per strappare i propri simili dalle difficoltà nelle quali essi versano.
Di qui l’idea di questo piccolissimo breviario che possa servire come “guida di viaggio” agli intrepidi argonauti che vogliano ancora credere e sperare di poter conquistare il “Vello d’oro” (termine arcaico con cui veniva indicata la Realizzazione Interiore e la Salute dell’Anima).
La neurologia è quella branca della medicina che studia le patologie inerenti il SNC/Sistema Nervoso Centrale (cervello, cervelletto, tronco encefalico e midollo spinale); il Sistema Periferico Somatico (radici e gangli spinali, plessi e tronchi nervosi) ed il SNA/Sistema Nervoso Periferico Autonomo (gangli simpatici e parasimpatici, plessi extraviscerali ed intraviscerali). Fino agli anni settanta in Italia la trattazione delle malattie del Sistema Nervoso includeva in un unico "corpus" sia le patologie della mente che le patologie "organiche", per cui la disciplina allora professata era definita "neuropsichiatria". Anche grazie alla riforma ispirata da Franco Basaglia, i due ambiti vennero articolati, scientificamente, clinicamente e didatticamente, in neurologia e psichiatria. Il vero e proprio ambito della neurologia sarebbe perciò rappresentato dalle patologie organiche del sistema nervoso centrale e periferico, come ad esempio il morbo di Parkinson, la sclerosi a placche, la cefalea, il coma o la SLA.
La psichiatria è la branca specialistica della medicina che si occupa della prevenzione, della cura e della riabilitazione dei Disturbi Mentali di origine Organica , dal punto di vista teorico e pratico. Essa è definibile come una "disciplina di sintesi" poiché il mantenimento e il perseguimento della salute mentale, che è lo scopo fondamentale della psichiatria, viene ottenuto prendendo in considerazione diversi ambiti: medico-farmacologici, psicologici, sociologici, politici, giuridici. La psichiatria è una pratica medica focalizzata prevalentemente sull'uso dei farmaci ma con l'utilizzo accessorio di metodologie altrimenti tipiche della psicologia, che invece è la disciplina che studia il comportamento degli individui e i loro processi mentali. La psichiatria si distingue inoltre dalla psicologia anche per il diverso corso di studi. E, infatti, volendo essere rigorosi, uno psichiatra che volesse usare le tecniche psicanalitiche, dovrebbe prima superare uno specifico training analitico, e non “improvvisare” come invece, purtroppo, spesso accade nel nostro bel paese. Come che sia, il campo di specifica competenza della psichiatria dovrebbe rimanere circoscritto alle Psicosi (schizofrenie, depressioni endogene, distimie monopolari e bipolari, disturbi borderline), alle sindromi dissociative e derealizzanti, ai disturbi della personalità (depersonalizzazione, personalità multiple, psicopatie ecc…) e ai disturbi da stress post-traumatico.
La psicologia è la scienza che studia il comportamento degli individui e i loro processi mentali. Tale studio riguarda in maniera solo approssimativa le dinamiche interne dell'individuo (che sono invece di spettanza della psicanalisi), e in maniera approfondita i rapporti che intercorrono tra l’individuo e l'ambiente, il comportamento umano e i processi mentali che intercorrono tra gli stimoli sensoriali e le relative risposte (percezione, rappresentazione, motivazione, ecc….) Attualmente la psicologia è una disciplina composita, i cui metodi di ricerca vanno da quelli strettamente sperimentali (di laboratorio o sul campo) a quelli più etnograficamente orientati (ad esempio: alcuni approcci della psicologia culturale); da una dimensione strettamente individuale (ad esempio: studi di psicofisica, psicoterapia individuale, etc.), a metodi con una maggiore attenzione all'aspetto sociale e di gruppo (ad esempio: lo studio delle dinamiche psicologiche nelle organizzazioni, la psicologia del lavoro che impiega i cosiddetti "gruppi focali", etc.). Queste diversità di approcci ha prodotto un'articolazione di sottodiscipline psicologiche, con differenti matrici epistemologico - culturali di riferimento.
La psicoanalisi (da psiche, anima, più comunemente "mente", e -analisi: analisi della mente) è la teoria dell'inconscio su cui si fondano una prassi e una disciplina psicoterapeutiche, e che ha preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud. Innanzitutto essa è una teoria dell'inconscio. Nell'indagine dell'attività mentale umana essa si rivolge soprattutto a quei fenomeni psichici che risiedono al di fuori della coscienza. Viene perciò implementato il concetto di inconscio, introdotto nella riflessione teoretica già da Cartesio, Locke e Leibniz, e che Freud rielaborò da un punto di vista descrittivo e topico sulla base delle sue esperienze con Jean-Martin Charcot. Si basa sullo studio dei meccanismi inconsci di difesa, sulle dinamiche evolutive della psiche e sull’interazione delle istanze che concorrono alla creazione dell’equilibrio della personalità. In secondo luogo la psicoanalisi è una prassi terapeutica. Avrebbero perciò il diritto di appellarsi “psicanalitici” solo ed esclusivamente quei trattamenti fondati sulle dinamiche inconsce e sull’analisi del Transfert come ad esempio è per la Psicanalisi classica di Freud, la Psicologia del Profondo di Jung, la Bioenergetica di Reich o quella di Lowen, la Logoterapia di Frankl e tante altre ancora. L’ambito di competenza specifico dovrebbe essere quello riguardante alcuni disturbi sessuali (disfunzione erettile, eiaculazione precoce, anorgasmia, perversioni, esibizionismo, voyerismo), nevrosi ansiose (attacchi di panico, disturbi fobici, disturbi ossessivo-compulsivi, ipocondria, depressioni reattive), disturbi alimentari (anoressia, bulimia), dipendenze (affettive, da sostanze, dal gioco, dai nuovi mezzi tecnologici), immaturità e fragilità psicologica.
La psicoterapia è molto più recente e, spesso, di origini trans-oceaniche (Stati Uniti d’America). Si occupa della cura di disturbi psicopatologici di diversa gravità che vanno dal modesto disadattamento all'alienazione profonda e possono manifestarsi in sintomi nevrotici tali da nuocere al benessere di una persona fino ad ostacolarne lo sviluppo causando fattiva disabilità; a tal fine si avvale di tecniche applicative della psicologia dalle quali prende specificazione: psicoterapia cognitivo-comportamentale, psicoterapia della gelstat, psicoterapia transazionale, psicoterapia strategica breve,  ecc. Volendo essere rigorosi, tutte queste tecniche affrontano in maniera diretta il sintomo senza chiedersi quale sia il senso o il significato dello stesso e, in fondo, senza saperlo fare. In Italia, con l’istituzione dell’Albo degli Psicoterapeuti, la psicanalisi è stata fatta rientrare un po’ forzatamente nelle psicoterapie con il termine di psicoterapia psicanalitica. Professionalmente, sempre in Italia, la psicoterapia è una specializzazione sanitaria riservata a Medici e Psicologi iscritti ai rispettivi Ordini professionali e si consegue mediante un percorso formativo presso scuole di specializzazione universitarie ovvero in scuole di specializzazione private. Etimologicamente la parola psicoterapia - "cura dell'anima" - riconduce alle terapie della psiche realizzate con strumenti psicologici quali la parola, l'ascolto, il pensiero, la relazione, nella finalità del cambiamento consapevole dei processi psicologici dai quali dipende il malessere o lo stile di vita inadeguato e connotati spesso da sintomi come ansia, depressione, fobie, etc. 
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Sperando con tutto il cuore di essere stato fin qui sintetico e, soprattutto, comprensibile, mi permetterò ora di complicare ulteriormente le cose riportando non solo le differenze di fondo che separano le terapie psicanalitiche da tutte le altre, bensì anche quelle più significative che separano una prassi psicanalitica dall’altra.
Tanto per cominciare credo che sia fondamentale sapere che mentre le terapie psicanalitiche partono dal presupposto che il disturbo – quale che esso sia – affonda le sue origini nello sviluppo evolutivo della nostra psiche, e che perciò abbia un senso e un significato che bisogna comprendere se si vuole davvero liberarsene, non è necessariamente così per la maggior parte delle psicoterapie che si sforzano invece di affrontare il sintomo prescindendo dalle sue origini e, dunque, necessariamente, da qualunque suo possibile significato.
Non è questo il luogo per alimentare sterili polemiche, ma è fondamentale sapere che mentre nessun psicanalista “aggredirebbe” un sintomo (per quanto doloroso) finché continua ad esercitare la sua funzione all’interno dell’equilibrio psichico del paziente, non è così per la psicoterapia che tenta di liberare il paziente dal sintomo partendo dal presupposto che esso sia un “accidente” più o meno occasionale intervenuto a disturbare la vita psichica di quest’ultimo. Per dovere di correttezza bisogna ammettere che “guarigioni” di questa natura di fatto avvengono (con un risparmio più che considerevole di tempo e denaro sul percorso psicanalitico)… resta solo da vedere – e lo resterà sempre – se il risultato ottenuto sia, in effetti, il migliore possibile per la vita (organica, psichica e morale) delle persone così curate. Ma su questo ognuno è libero di pensarla come meglio crede.
Entriamo ora nel vivo delle psicoterapie psicanalitiche e proviamo ad immaginare che, lungi dall’esaurirsi nel maggiore o minore risvolto dato alla sessualità o alla volontà di potenza, oppure ancora nella diversissima impostazione del setting terapeutico, le varie scuole di psicanalisi si distinguono soprattutto per i polari ed opposti presupposti antropologici da cui prendono l’avvio. Cosa che, se avete capito bene a cosa alludo, non si può certo considerare marginale.
Così – tanto per fare alcuni esempi – se per la Psicanalisi Classica (S.Freud) l’uomo è un animale evoluto che ha trovato conveniente sacrificare la propria istintualità (gratificante ma pericolosa) alla organizzazione sociale (poco gratificante ma molto più sicura), per la Logoterapia (V.Frankl) o la Psicosintesi (R.Assagioli) invece, l’uomo è una creatura spirituale che attraverso le vicissitudini della vita cerca di ricongiungersi al proprio Creatore. Tra queste due estreme ed opposte visioni se ne trovano ovviamente molte intermedie, come la Psicologia del Profondo (C.G.Jung) che vede nell’uomo un essere misterioso nella cui anima è depositata la possibilità di decifrare il segreto della propria esistenza, o la stessa Bioenergetica (A.Lowen) che vede trasparire nella funzionalità corporea una dimensione spirituale rispetto alla cui natura, tuttavia, non prende alcuna  posizione.
Potrei continuare - spero sia ovvio - ma preferisco fermarmi qui, sperando che questi pochi, estremi esempi siano sufficienti a far comprendere quanto possano essere essenziali i presupposi filosofici o, se preferiamo, la visione del mondo, da cui ogni terapeuta prende l’avvio per aiutare i propri pazienti. A prescindere dai risultati ottenuti essa risulterà determinante… Sempre! Anche nel deprecabile caso in cui un terapeuta si considerasse emancipato da qualunque presupposto filosofico, perché ciò vorrebbe solo dire che in lui tali presupposti esistono comunque ma sono inconsci. E anche se oggi è l’epoca della inconsapevolezza diffusa, non augurerei a nessuno di confrontarsi con un terapeuta che ignori i presupposti conoscitivi da cui muove il proprio pensiero.
Per completare il quadro si tenga in considerazione un’ultima cosa: oggi gli psicoterapeuti più onesti e spregiudicati sono concordi nel ritenere che l’elemento decisivo ai fini di una cura sia la Qualità della relazione terapeuta-paziente. In altre parole ciò sembrerebbe sconfessare tutto ciò che fin qui mi sono sforzato di illustrare, rimandando la “guarigione” non tanto alla teoria di riferimento o alla tecnica usata dal terapeuta, quanto piuttosto alla “bontà” dell’Incontro tra persona e persona.
In effetti, è così (o, almeno, questo è anche il mio convincimento). Ciò tuttavia non toglie valore alle specificazioni sopra riportate, bensì le rinforza, mostrando come, in realtà, la terapia psichica possa funzionare solo nei limiti in cui si trovino a coincidere le scelte di vita profonde (teoriche e pratiche) sia degli uni che degli altri. In altre parole ciò significa che ognuno “incontra” l’Altro che è davvero predisposto ad “incontrare”, pena la squalifica del proprio operato.
Terminerei perciò questo breviario con un esplicito invito: qualora dovesse servire, scegliete con cura il terapeuta nella cui anima riversare le difficoltà irrisolte. Sceglietelo con avvedutezza e, qualora dovessero mancare elementi evidenti su cui basarsi, fate parlare il vostro istinto: vi dirà se restare o invece fuggire a gambe levate.