giovedì 22 ottobre 2015

Al cuore dell'imperialismo americano

Ieri sera sono voluto andare al cinema per vedere “The Martian”, tradotto in Italiano con “Sopravvissuto”. Sapevo bene che mi sarei ritrovato a vedere un mediocre prodotto da intrattenimento. Insomma: una di quelle piacevoli “americanate” che a Hollywood riescono così bene e che, quando sei stanco o comunque non ti va di spremerti le meningi, ti regalano un paio d’ore di relax.  Lo ripeto: a occhio e croce potevo ben immaginare la qualità del prodotto, ma ci sono andato lo stesso: Matt Damon, come attore, mi è sempre piaciuto molto; l’avventura fantascientifica su Marte avrebbe potuto essere interessante; sapevo, inoltre, che il film era stato girato in buona parte a Wadi Rum, il deserto rosso nel quale avevo trascorso alcuni giorni stupendi durante il mio viaggio in Siria e Giordania, nel lontano 2007… e mi faceva piacere ritrovare quegli orizzonti.
Insomma… ero ben disposto, ma il film mi ha deluso lo stesso. Soprattutto, però, mi ha annoiato (tempi lunghi e lenti delle riprese, atteggiamento serafico del protagonista in una situazione panica) e così, poco stimolato da quello che vedevo, mi sono messo a pensare.
Era proprio quello che non volevo, ma non ho potuto fare altrimenti.
Perché, per la miliardesima volta, mi sono trovato di fronte al solito messaggio che sempre traspare nelle opere cinematografiche statunitensi, quando il protagonista rimane isolato in un qualche territorio selvaggio o, meglio ancora, dietro le linee nemiche. Perché è allora che tutti gli altri protagonisti del racconto, se non addirittura tutto il popolo americano, viene afferrato e determinato da una sola idea: “È uno di noi… non possiamo abbandonarlo… andiamo a prenderlo!” Questo, ovviamente, perché il disperso è un americano. È uno di loro… e l’America non è una madre da abbandonare i propri figli.
Ora, non voglio neanche lontanamente entrare nel merito di quante volte il governo degli Stati Uniti d’America abbia offerto prove evidenti d’ipocrisia a riguardo (si pensi al Vietnam, tanto per dirne una). Quest’argomento non m’interessa. Piuttosto sono interessato a penetrare nel cuore della comunicazione emotiva che, più o meno di proposito, viene ogni volta riproposta.
Di fatto, il messaggio subliminale che passa in molti documentari, commedie e, soprattutto, film d’azione americani è sempre lo stesso: martellante, ossessivo, esaltato… una sorta di coinvolgente: “Uno per tutti, tutti per uno”. Un messaggio neanche troppo criptico ma, soprattutto, intenso, viscerale, entusiastico, eroico, spesso sublime. E non importa, poi, se il proibitivo sistema della loro sanità nazionale lasci morire con indifferenza qualunque cittadino non abbia soldi a sufficienza per pagarsi un medico né tantomeno un ricovero ospedaliero. Non importa se il neo-capitalismo finanziario cannibalico, che è l’anima nera del “sogno americano”, è legittimato a gettare sul lastrico centinaia di lavoratori dipendenti per favorire una “fusione” societaria utile solo agli azionisti. Non importa il contrasto, ancora feroce, tra le diverse etnie che formano il substrato di quell’immenso paese. Non importa l’efferata criminalità che esplode improvvisa in tutti gli States. Nulla importa della vita vera. Il retorico messaggio: “È uno di noi… andiamo a salvarlo, costi quel che costi…” passa per il cuore e raggiunge le budella di tutti i cittadini americani.
Ma non solo le loro. Mentirei se non ammettessi il fascino che quello stesso messaggio ha sempre esercitato su di me. Come negare il valore immenso rappresentato dall’idea, o meglio dal sentimento, di appartenenza fraterna, di intima e solidale comunione con tutti gli altri, di amicizia a prescindere, di aiuto e solidarietà? Sarà forse per il contrasto rappresentato dalla cultura dell’Italia, il paese nel quale vivo, e che è fondata sulla totale mancanza del più elementare senso civico, sull’individualismo più gretto e sull’ostilità più feroce riservata a chiunque esprima un parere diverso dal proprio. Sarà forse per il clima d’insicurezza e apprensione creatosi in questi ultimi vent’anni di oscena politica, di mancanza di lavoro, di abusi mafiosi, d’immigrazioni clandestine, di terrorismi vari… Sarà per il fallimento evidente del grande sogno di una Europa Unita… non so, sarà per questi e tanti altri motivi… Ma ho sempre avvertito il fascino del commovente messaggio ripetuto come una ossessione compulsiva dall’industria cinematografica hollywoodiana. Anche perché in America ci sono stato, almeno tre volte, e ho dovuto riconoscere che quel messaggio è stato davvero ben interiorizzato dal popolo americano. Nonostante tutte le sue evidenti contraddizioni è presente e vivo nello sguardo orgoglioso delle persone comuni, nell’aria che ovunque si respira e nello sventolio festoso di milioni di bandierine a stelle e a strisce che adornano quasi ogni negozio, ogni casa, ogni balcone, ogni giardino.
“Io amo il mio paese” è la frase più scontata e retorica che si possa immaginare ma che, negli States, vive sovrana nell’anima e nel cuore di tutti i cittadini, compresi quelli da poco acquisiti.
Se anche fosse stata abilmente confezionata dalla vergognosa élite che governa politicamente e finanziariamente il paese, bisognerebbe ammettere che ha funzionato perfettamente. E che al di là del fatto di assicurare a tale élite un materiale umano pronto a gettarsi in qualsiasi inferno, perché convinto di immolarsi per il bene del proprio paese, resta però che il profondo sentimento di appartenenza alimenta e guida gli intenti di ogni singolo individuo.
Perciò… lo ammetto: ho invidiato spesso tale spirito di solidarietà, pur senza che questo desiderio di emulazione m’impedisse di riconoscervi il volto del nostro Nemico Comune.
Perché cosa diavolo mai significa, oggi, alle soglie del nuovo millennio, distinguersi come americano? Così come italiano, o europeo, o arabo o cinese? Come diavolo si fa a dare valore, dignità e significato al fatto puramente occasionale e fortuito di essere nati in un territorio anziché in un altro? Quale sortilegio è stato lanciato, e da chi, affinché anche le persone più colte e istruite siano divenute del tutto incapaci di vedere oltre la punta del loro naso?
Perché dovrebbe essere evidente a tutti che il corollario del messaggio americano: “È uno di noi… salviamolo e riportiamolo a casa” è che quel povero soldato scomparso o avventuriero disperso è meritevole di qualunque sforzo e sacrificio per il solo fatto di essere un cittadino degli Stati Uniti… mentre tutti gli altri, ovviamente, no. Gli altri sono persone qualsiasi di altre qualsiasi nazioni, alle quali non viene riconosciuta alcuna dignità o valore. O, almeno, nessun valore paragonabile a quello che avrebbero invece i cittadini degli Stati Uniti d’America. Tutti gli altri sono semplici, odiosi nemici che piuttosto andrebbero sterminati, anche solo perché probabilmente renderanno difficile il recupero del compagno perduto. Sono nemici a prescindere! Per il semplice fatto di non essere americani.
Eppure, dovrebbe essere evidente a tutti gli uomini di libero pensiero che, quando si combatte una guerra (militare ma anche scientifica o culturale), sia del tutto ovvio che ogni combattente si illuda di essere dalla parte della ragione, altrimenti lo scontro non ci sarebbe. Ma come la storia ha testimoniato più volte, non sempre la Verità o la Giustizia o la Libertà sono stati rappresentati dai vincitori. Anzi, più spesso è stato vero il contrario.
Come si fa a credere di essere nel giusto o nella verità solo perché si è nati americani? Come si fa a credere che la propria (discutibile) democrazia sia quella che vada imposta a tutto il resto delle nazioni? Come si fa a presumere che essendo i più ricchi del mondo, quelli in possesso della tecnologia scientifica più avanzata e dell’esercito più agguerrito e preparato che si possa immaginare, per antonomasia si rappresenti allora la migliore umanità possibile?
Piuttosto è vero il contrario, perché le persone più evolute dovrebbero essere quelle in grado di riconoscere il valore sacro rappresentato dalla Vita di ogni essere umano. Di qualunque nazionalità, di qualunque colore, di qualunque religione esso sia.
Perché il nazionalismo – scrisse una volta la nostra scrittrice Dacia Maraini – corre sul filo di rasoio del razzismo, e la sacrosanta difesa anche estrema delle leggi, della religione e della cultura che un popolo si è conquistato non ha nulla a che vedere con la soprafazione degli altri e con la condanna della loro identità umana.
Anche perché, lo ripeto, le migliaia di bambini che nascono ogni giorno non meriterebbero di essere considerati americani, o cinesi, o arabi, o australiani, o europei. Così come nel momento della nascita non dovrebbero essere considerati cristiani, o ebrei, o buddhisti, o islamici o animisti bensì, appunto, solo bambini. Bambini che acquisiranno un’identità culturale e religiosa secondo il condizionamento del paese nel quale sono nati e del percorso interiore che intraprenderanno da adulti.
La verità, difficile da riconoscere e scomoda da digerire, è che tutti, indistintamente tutti quei bambini “Sono uno di noi”. Come uomini, infatti, condividiamo lo stesso identico destino, tutti abitiamo questo stesso identico pianeta, che a tutti appartiene e a nessuno nello stesso tempo… e tutti nasciamo, cresciamo, amiamo, soffriamo e infine moriamo, portando nel mondo dello spirito il valore della vita che abbiamo vissuto.
Non credo che dall’altra parte Qualcuno ci chiederà il passaporto, o che vorrà sapere se siamo stati italiani, o messicani, o giapponesi, o africani. Al contrario, se è vero quello che hanno sempre insegnato i grandi saggi di ogni tempo e di ogni luogo, ci chiederanno soltanto: “Quanto avete amato?” E dalla risposta dipenderà il nostro futuro destino.

Perciò, quando mi commuovo sentendo gli attori americani recitare: “Io amo il mio paese!” oppure: “È uno di noi, non possiamo abbandonarlo, andiamo a prenderlo!” mi chiedo quanto mi commuoverei di più se tutti, ma proprio tutti potessimo un giorno dire: “Io amo la Terra, amo questo nostro bellissimo Pianeta!” e ancora: “Siamo tutti uomini, siamo tutti fratelli, anche se molto diversi gli uni dagli altri… diamoci una mano… salviamoci!

sabato 3 ottobre 2015

Ma di cosa stiamo parlando?





È accaduto piano, piano e, quasi, non ce ne siamo accorti. È stata come una marea montante ma graduale, un allagamento impercettibile eppure costante, continuo e inarrestabile. Era sotto gli occhi e le orecchie di tutti, ma quasi nessuno se n’é accorto; e quei pochi più sensibili che seppero registrarlo forse non lo credettero pericoloso più di tanto.
E così, adesso, ce ne stiamo tutti qui, impantanati in questa palude di chiacchiere assurde, inutili, condizionate e condizionanti, quasi mai veritiere, ma sempre aggressive, violente, livide di odio mal celato.
Faccio riferimento a quella pratica oramai quasi globale di parlare e sparlare di tutto, a proposito e a sproposito, ma sempre con una convinzione assoluta e inattaccabile che non si perita di dare il minimo ascolto ad alcuna voce discordante.
Sospetto che Internet e i vari social network ne siano stati i maggiori responsabili: in maniera graduale le persone scoprirono un giorno che potevano dire la loro, che disponevano dei mezzi per esprimere i propri giudizi e far valere le proprie opinioni. Molti iniziarono a farlo. Dapprima con cautela e circospezione… Il fenomeno debuttò in sordina, trattenuto all’inizio dal pudore e dalla vergogna. Dovrei dire: da un sano pudore e da una giustificata vergogna. Presto, però, uomini e donne trovarono il coraggio di superare questi orpelli della coscienza di altri tempi, e sospinti dall’arroganza, dalla presunzione, dal narcisismo e dalla vanagloria, senza più limiti e confini se non quelli dell’immagine grandiosa di sé, si sentirono legittimati a “dire la propria”. Be’, non proprio “a dirla”, quanto piuttosto a sbraitarla ai quattro venti, urlando forte per imporla agli altri e giustificandola coprendo di accuse e d’insulti chiunque osasse avversarla. Il fenomeno, lo ripeto, iniziò in sordina, piano piano… per poi è esplodere, superando ogni immaginabile previsione.
Allo stato attuale non è più questione di temi importanti o secondari, di episodi o eventi da cui dipendono chissà quali conseguenze. No! Quello che è interessante, fondamentale e significativo osservare è l’immediata stura di rigurgiti emotivi incontrollati e incontrollabili che, a ben vedere, non si capisce nemmeno che scopo possano avere. Se non quello dell’affermazione ingiustificata di se stessi. Vorrebbero sembrare pensieri… magari non eccessivamente complessi o ben strutturati… ma comunque pensieri. E invece sono solo stati emozionali, sensazioni di bassa lega se non, addirittura, istinti camuffati da pensiero.
Potrebbe anche darsi, come sostengono in molti, che buona parte di questa gazzarra sia stata orchestrata ad arte da chi trae grandi vantaggi dall’immensa confusione nella quale versa l’attuale comunicazione umana. Di sicuro buona parte della babele nella quale ci conduciamo non è altro che l’effetto di quell’orchestrazione se è vero, come è vero, che ci sono persone stipendiate per gettare false notizie in rete, per confutare quelle più veritiere e creare tendenze di pensiero del tutto discutibili. Resta però il fatto che la maggior parte delle persone vi ha aderito senza alcun minimo cenno di resistenza ma, anzi, convinta di appartenere a quella sofisticata elite dallo sguardo acuto e dal pensiero fine grazie ai quali poter sparare a zero su qualunque avversario.
La ragione o la causa del dissenso ha poca importanza. Tutto è motivo di accuse e discussioni infinite, condite con menzogne, insulti e improperi vari. Dalla celebrazione corretta o ingiusta di un qualche personaggio politico, sportivo o del mondo dello spettacolo, alla immigrazione che sta sommergendo l’Europa, dalle “guerre di pace” che sconvolgono l’Africa ai tatuaggi sull’inguine di Belen. Tutto fa brodo, non c’è notizia che non abbia il potere di sconvolgere qualcuno, di toccarlo nel sancta sanctorum delle sue rigide certezze e quindi amareggiarlo offenderlo e inorridirlo… oppure confermarlo ed esaltarlo… ma comunque facendogli sentire la necessità di testimoniare al mondo la propria verità distruggendo quella degli altri.
Alcuni esempi:

- Verso la primavera del 2015, almeno qui da noi in Italia, si accende prima e divampa poi una vera e propria guerra di principio sulla così detta “Teoria del Gender”, secondo la quale l’appartenenza al genere sessuale maschile o femminile sarebbe un evento culturale e non biologico. Esiste o non esiste una teoria del genere? Quali sarebbero le sue basi scientifiche? E se esiste, come andrebbe interpretata?
In verità convincimenti simili a quelli attribuiti alla teoria del gender erano presenti fin dalla seconda metà del ‘900 (penso al libro della Elena Gianini Belotti “Dalla parte delle bambine” uscito in Italia nel 1973) e che creò, anche allora, assensi e dissensi.
Io fui, e sono tuttora, uno dei convinti contestatori di quel libro.
Ma non è questo il punto. È che all’epoca i toni erano molto più pacati e, quasi sempre, si cercava il conforto nell’equanimità della ricerca scientifica e di un ragionamento pacato. Quello che oggi sgomenta (o almeno dovrebbe sgomentare) non è tanto l’asservimento di una teoria all’ideologia politica, ai grandi interessi finanziari o alla fede religiosa (questo, in verità, accadeva anche allora), quanto piuttosto la totale ignoranza e non conoscenza dei suoi complessi presupposti da parte di chi poi presume di difenderla o di oltraggiarla, la sua strumentalizzazione fraudolenta, la manipolazione o la distorsione dei dati, la loro de-contestualizzazione e, soprattutto l’intensità dell’odio che caratterizza la discussione. E che, bisogna ammettere, è tanto più violento e intransigente quanto più è espresso da persone che non hanno alcuna preparazione specifica ma che, con la loro partecipazione al dibattito (dibattito?) scaricano piuttosto condizionamenti e frustrazioni personali.

- Il dottor Angelo Consoli è il presidente del CETRI e ha dedicato tutta la propria vita alla ricerca delle energie sostenibili o rinnovabili. In occasione dello scandalo Volkswagen, scrive un articolo, per altro molto pacato, nel quale si prefigge di spostare l’attenzione del lettore dal fattaccio vero e proprio delle centraline truccate agli interessi delle lobbie del combustibile fossile. In questo contesto riporta la notizia dell’esistenza di case automobilistiche (GM, Honda e Toyota) che già dal 2004 avrebbero messo a punto modelli di auto ibride innovative, che sfruttando l’elettrolisi e l’energia elettrica potrebbero sostituire del tutto le auto con il motore a scoppio. Di ognuna di queste case automobilistiche il dot. Consoli riporta  link e  video dove potersi accertare della veridicità delle sue affermazioni. Le sue riflessioni sono interessanti… forse fin troppo ottimistiche e magari mancanti di comparazioni politiche e finanziarie, ma comunque hanno il carisma della professionalità.
Nonostante ciò, sotto la pagina Internet sulla quale è riportato il suo articolo, subito prendono la parola un paio di Quaquaraquà che, pur ammettendo la propria totale mancanza di cognizioni tecniche nel settore, con una faccia tosta che ha dell’incredibile lo tacciano di superficialità e ingenuità, di gratuita e sommersa ideologia anti-americana, e si sforzano di farlo passare per un sognatore ecologista poco aderente alla realtà. In poco tempo le voci a favore e contrarie si moltiplicano, degenerando in una rissa virtuale di insulti e improperi.

- Alice Sabatini viene eletta Miss Italia 2015. Alice è una ragazzina di diciotto anni che, come tutti i ragazzi a quell’età, non può, né dovrebbe esibire chissà quale profondità di pensiero. È una ragazza bella, spensierata, impegnata nello sport e nel godimento della vita. Che male c’è? Qualcuno, però, si ostina a voler pretendere da lei, oltre alla bellezza sfolgorante della gioventù, anche una qualche forma di saggezza. Perciò, alle solite, insulse domande dei giornalisti: “Quale tuo desiderio vorresti veder realizzato?” tutti si aspettano stereotipate risposte, tipo: “La fine di tutte le guerre e della fame nel mondo!”. Per poi, ovviamente, rilevarne con malcelata superiorità intellettuale la consueta stereotipia. Ma Alice risponde in maniera originale, anche se bambinesca: “Mi piacerebbe vivere nel 1942, all’epoca della seconda guerra mondiale. Tanto, come donna, la guerra non la farei.”
È ovvio che è una scemenzuola, una fantasia bizzarra che chissà in quali meandri psichici affonda le sue radici, ma la stampa, la TV e i network si scatenano montando una vicenda che, al massimo, avrebbe dovuto risolversi con un sorriso complice di circostanza. E, invece, giù cattiverie, prese in giro, sermoni dotti e moraleggianti.

- Massimo Mazzucco è uno dei tanti o pochi giornalisti (insieme a Michael Moore, Giulietto Chiesa, Simon Shack e altri ancora) che sospettano del fatto che l’attentato dell’undici settembre alle torri gemelle si sia realizzato come le fonti ufficiali vogliono fare credere. Mazzucco ha documentato le sue perplessità con un film di cinque ore, riportando le convinzioni di numerosi tecnici nel campo dell’ingegneria, della demolizione di edifici, di architetti, di fisici, di piloti di linea e quanti altri. Contro la teoria del complotto sostenuta da Mazzucco e dagli altri, si battono numerose altre personalità del mondo dell’informazione (giornalisti, scrittori, opinionisti), chiamate The Bunkers, attive ognuna nel proprio paese d’origine (come mai non mi meraviglio che in Italia, tra le loro file, ci siano Piero Angela e Umberto Eco?). Comunque, quello che davvero conta è che chiunque davvero volesse potrebbe tentare di farsi un’idea dei fatti o delle forze in gioco, chiunque potrebbe approfondire alcuni argomenti e cercare conferme o contraddizioni.
Ma la maggioranza delle persone comuni che, per chissà quale motivo, sentono il bisogno di prendere parte al decennale dibattito, quasi sempre partono da una ignoranza di fondo degli argomenti trattati e da inconsapevoli adesioni di parte che affondano le loro radici nella simpatia o nell’antipatia nei confronti della politica americana, nella convenienza personale, in motivi privati di amore o odio e così via. E come sempre, oramai, lo scontro usa l’ingiuria, l’offesa, la demolizione sistematica della credibilità professionale dell’altro.

- E poi ancora: “I cannabinoidi sconfiggono il cancro!” È quanto sostiene da anni la ricercatrice spagnola Christina Sanchez… e i suoi studi sono stati avallati dal dott. Vincenzo Di Marzo (direttore dell’Istituto di ricerca Biomolecolare del CNR), dal prof. Burkhard Hinz e altri numerosi studiosi di spicco. Per capire davvero come stanno le cose bisognerebbe fare una ricerca non da poco… troppo faticoso. Meglio schierarsi a prescindere della verità, basandosi sull’eco impressionistica (a favore o a sfavore) che il nome “Cannabis” evoca.
Vegani e Fruttiani - buon per loro - si stanno guadagnando un posto nel mercato alimentare. Gli onnivori se la ridono, adducendo considerazioni mediche di tutto rispetto e sano buon senso. Poi però eccedono non riuscendo a sostenere l’indifferenza ascetica degli altri nei confronti dell’attrazione, spesso irresistibile, che la buona tavola esercita su di loro. E montano la crociata del buon gusto contro la scipitezza dei loro nemici. Vegani e Fruttiani reagiscono e tentano addirittura di “dimostrare” la natura vegetariana dei grandi carnivori. Se non facesse ridere, tutta questa situazione dovrebbe far piangere.
Oriana Fallaci, dopo anni di silenzio, sconvolta dall’11 settembre, pubblica “La rabbia e l’orgoglio” in cui spara a zero sulla cultura islamica. Tiziano Terzani, un altro grandissimo giornalista italiano, le scrive una lettera aperta nella quale, con toni molto pacati, da grande estimatore della collega, le contesta alcune sue prese di posizione. La stessa cosa fa la scrittrice Dacia Maraini. Quanti profondi pensieri e motivi di riflessione in tutti loro. Quante verità ed errori in ognuno. E quanta fatica bisognerebbe fare per impossessarsi di un libero convincimento su un tema così ampio. Ma la campagna pubblica, come al solito, è fatta solo di invettive, insulti pesanti e menzogne la cui ragion d’essere è solo l’appartenenza aprioristica a uno schieramento o ad un altro.
La stessa campagna, in questi giorni, si è scatena sul sindaco di Roma Ignazio Marino. È un ingenuo, un inetto, un approfittatore o una vittima designata? Per capirlo davvero bisognerebbe essere addentro alle mille losche manovre di Mafia-Capitale. Bisognerebbe avere l’onestà di ammettere la propria ignoranza di fondo sui grandi giochi di potere e riconoscere di poter essere ingannati con estrema facilità. Chi è così onesto da farlo? Meglio schierarsi secondo i propri moti viscerali, alzare i pugni al cielo e gridare più forte degli altri.
Forza Roma!
Noooo… Forza Lazio!
Perché ormai siamo tutti alla stadio! In uno stadio virtuale, ma pur sempre uno stadio, dove si ama la propria squadra prima ancora di conoscerne e valutarne l’autentico valore. Dove le proprie frustrazioni vengono espresse e dissipate, scaricate sui gladiatori nell’arena del circo pubblico e così distratte dai Poteri Oscuri che, proprio grazie a questa babele così abilmente alimentata, continuano indisturbati nelle proprie iniquità.
È come se, oramai, si fosse del tutto persa o dimenticata quella profonda fiducia nel pensiero che da Socrate a Tommaso d’Aquino aveva sempre sostenuto le sfide dialettiche dell’uomo sulla ricerca della verità. Quella fiducia che portava gli sfidanti a considerare il peso e il valore della concatenazione di pensieri dell’avversario e a non emettere giudizi gratuiti sul tema da lui proposto solo sulla base della sua appartenenza a uno stato straniero, a una confessione religiosa o a un partito politico. Il nemico, poi, il vero nemico era la costruzione di pensiero dell’altro. Non l’altro, con la sua inevitabile, e perciò comprensibile, fallace umanità.

Adesso però, per non incorrere nello stesso errore che questo articolo vorrebbe denunciare, permettetemi di alzarmi in volo e guardare le cose dall’alto: forse tutta questa gazzarra si rivelerà fine a se stessa. Forse è solo l’inizio di quella degradazione finale verso la quale lo Spirito dei Nuovi Tempi vorrebbe condurci e verso la quale tutti noi ci stiamo precipitando gridando a squarciagola, con i pugni alzati e un sorriso beota dipinto sul volto.
Tuttavia c’è una speranza… è fioca fioca, come la luce emanata da uno striminzito fiammifero acceso al centro di una buia caverna. È appena un barlume… ma c’è.
La speranza è che questo impulso di autonomia, questo voler parlare per forza a proprio nome, usato e abusato finora in modalità così sguaiate, non sia che il primo vagito di quella ben più ampia facoltà di libero pensiero che, ci auguriamo, un giorno l’uomo potrebbe raggiungere. La speranza è che sempre più persone arrivino a provare disgusto per questa sarabanda di chiacchiere inutili e si rifiutino di ascoltarle e di generarle.
Basterebbe poco. Basterebbe che accettassero l’idea che non si nasce con la capacità di pensare acquisita una volta per tutte ma che, al contrario, tutti dobbiamo imparare a farlo, possibilmente prima di aprire bocca. Basterebbe riconoscere che il sano pensare è difficile e costa fatica, mentre rivestire di pensieri la propria animosità è molto, molto più semplice e gratificante. Peccato sia inutile.
Oltre a ciò, bisognerebbe trovare il coraggio di abbandonare qualunque partito preso, qualunque fideismo, per quanto nobile possa sembrare - materialismo, spiritualismo, comunismo, fascismo, cattolicesimo, buddhismo, islamismo o invece ateismo, pacifismo, razzismo, femminismo, maschilismo, perbenismo o nichilismo  - insomma,  basterebbe smettere di tifare per una squadra o per l’altra solo per partito preso e riconoscere che la verità è Un Essere in continuo movimento.

Già… La Verità è un Essere Vivente e, se Lo si vuole anche solo intravedere, bisogna che il nostro pensiero si muova alla sua stessa velocità, liberandosi da tutto ciò che vorrebbe invece imprigionarlo nei limiti di una qualsivoglia categoria.