venerdì 23 gennaio 2015

La Luce che venne dall'Oriente

Birmania



“Io che corro a perdifiato, con l’ansia che mi attanaglia il cuore, lo sguardo avido, proteso ad afferrare paesaggi umani o naturali ancora sconosciuti. Alle mie spalle il fronte della nube oscura avanza veloce e, presto, inevitabilmente, mi sorpasserà oscurando e uniformando tutto quello che ancora avrei potuto e voluto scoprire…”
Questo non è un sogno. Piuttosto è l’immagine simbolica della mia vita di viaggiatore alla ricerca di quel bene inestimabile e prezioso che è (anzi, che era) la Diversità: la diversità biologica e, soprattutto, quella culturale. La nube oscura che sta per raggiungermi rappresenta, invece, la modernità occidentale nei suoi aspetti più distorti, depravati e, per ciò stesso, invasivi. Ma come lessi nell’illuminato libro di un altro disperato viaggiatore, non c’è più un Altrove nel quale rifugiarsi. Il globalismo finanziario e mercantile ha vinto su tutti i fronti, almeno per ora, e presto della Diversità non resteranno che pallidi ricordi.
Godiamoci quel poco di luce che resta.

Yangoon è una capitale anonima: né bella né brutta, molto ampia ed estesa, buia di notte (per la mancanza di lampioni) e con un traffico automobilistico costantemente paralizzato e paralizzante. Se è vero che l’attuale governo aprirà le frontiere agli investitori stranieri, la città potrebbe essere destinata a modernizzarsi, come è accaduto  Bankog, Kuala Lampour, Seoul, e molte altre, perdendo così quasi tutto ciò che le caratterizzava.
Di prima mattina, dopo uno sguardo fugace alla Sule Paya, raggiungiamo a piedi la Botataung Paya. Dagli anni lontani in cui visitammo il Nepal, il Tibet, la Cambogia e la Tailandia, è la prima volta che rimettiamo i piedi in un tempio buddhista. La prima impressione è tiepida: l’architettura degli edifici che si bilancia a stento in un sincretismo tra quella indiana e quella cinese, gli specchi e gli specchietti decorativi, i colori brillanti degli intonaci, l’abbondanza della tinta oro, le statue colorate di grifoni dorati, serpenti, draghi, orchi, orchesse e esseri elementari (qui conosciuti come Nat), le decine e decine di piccoli Zedi (stupa) raccolte intorno ad un gigantesco pinnacolo centrale, è inevitabile che appaiano kitch ai nostri occhi europei. Tuttavia le centinaia di statue del Buddha, di tutte le misure e di tutti i materiali emanano un loro indiscutibile fascino. Magnifici, nella Botataung Paya, il corridoio d’oro zecchino finemente intarsiato e una gigantesca statua in bronzo del Buddha benedicente.

Ci colpisce poi l’intensità della devozione dei fedeli che ovunque si inginocchiano, pregano e versano acqua consacrata sulle effigi del Buddha predisposte a questo specifico rito.
La seconda visita della mattina è dedicata al padiglione di un’altra pagoda, la Chaukhtatgy Paya, sotto il cui tetto giace un’enorme statua del Buddha sdraiato.
Siamo fortunati… e arriviamo nel pieno di una cerimonia simbolica annuale nel corso della quale la popolazione birmana ritualizza la consueta offerta che ogni giorno viene fatta ai monaci: il padiglione rigurgita di fiori, frutta, riso e altro cibo cucinato. Curiosiamo in giro mischiandoci alla folla dei monaci e dei fedeli, scattiamo foto… e prendiamo definitivamente atto del fatto che ovunque, più che tollerati, siamo ben accolti. In un angolo appartato del padiglione con la videocamera riprendiamo un’artistica ricostruzione di tutte le innumerevoli vite del Buddha precedenti a quella nella quale, infine, raggiunse il Nirvana.
 




Quando finalmente usciamo chiediamo al nostro autista di portarci al grande mercato di Yangoon dove compriamo qualche souvenir e mangiamo qualcosa dei tipici cibi birmani.
Subito dopo il frugale pasto, nelle prime ore del pomeriggio entriamo nel parco del lago Kandaweyi e facciamo una pigra camminata sulla passerella lignea che lo circonda. Da lontano s’intravede la grande cupola dorata della Shwedagon Paya che – sappiamo - essere la più grande, la più bella e la più ricca di tutte le pagode birmane. La visiteremo verso il tramonto, come suggerito dalla guida, ma intanto, passeggiando, ci lasciamo tentare da un piccolo padiglione sacro eretto a bordo del lago. Anche qui piccoli Zedi, leoni alati, draghi e serpenti colorati, Nat, ieratiche statue del Principe Sachiamuni e curiosi servi e aiutanti delle varie divinità.
L’ora del tramonto si avvicina. Parcheggiamo l’auto vicino all’ingresso ovest della Shwedagon Paya e, dopo essere passati tra i due giganteschi leoni alati, saliamo le scale che ci porteranno alla grande terrazza basale. Quando finalmente arriviamo, rimaniamo folgorati: la terrazza – dal cui centro s’innalza il pinnacolo dorato centrale, la cui sommità è rivestita d’oro puro e tempestata di pietre preziose – è immensa. La sua circonferenza sarà pari al colonnato che il Bernini progettò per Roma, davanti a piazza San Pietro. E’ pavimentata di piastrelle bianche smaltate e, sul lato più esterno, rigurgita di piccoli stupa secondari, di tempietti e padiglioni sacri. Centinaia di statue di Siddarta Gotamo Buddha, di tutti i materiali e di tutte le dimensioni, si offrono all’adorazione dei fedeli. Il luogo è meraviglioso e merita la fama che lo contraddistingue.


Passeggiamo a lungo sulla terrazza, almeno finché il sole calante non tinge di rosa l’oro della cupola centrale, e cogliamo bellissime scene di ordinaria devozione al Buddha di questo dolcissimo popolo birmano.
Il giorno successivo, in un paio d’ore di auto raggiungiamo Bago. Visitiamo prima il grande tempio di Four Figures Paya costituito da quattro enormi statue del Buddha posti schiena contro schiena, assisi nella posizione del fiore di loto e rivolti ognuno verso un diverso punto cardinale. Quando usciamo ci fermiamo ad assaggiare uno sconosciuto frutto tropicale e, subito dopo, arriviamo ad un grande recinto sacro, all’aperto, dove giace un’altra enorme statua del Buddha sdraiato. Ci chiediamo come mai non sia protetta da alcuna tettoia e lasciata così esposta agli agenti atmosferici… ma non riusciamo a trovare una valida risposta. La soluzione ci si presenterà da sola alla visita successiva, dedicata a una pagoda che si presenta come una sorta di gigantesca piramide d’oro. Quattro rampe di scale si inerpicano sui suoi fianchi scoscesi e, in via del tutto eccezionale, agli uomini è concesso salire fino ad una considerevole altezza. Mi cimento nell’impresa e potete immaginare il mio stupore quando, lasciando vagare all’intorno il mio sguardo, vedo comparire in lontananza l’enorme statua del Buddha sdraiato che sembra fluttuare sopra gli alberi della giungla che lo circonda.

Davvero fantastico!
Scendo dalla pagoda e, tutti insieme, andiamo a visitare un altro singolare, piccolo tempio che avevo avvistato dall’alto. La struttura esterna è deliziosa, tutta in  pietra grezza finemente cesellata e decorata di statue. Ma l’interno riuscirà ancora una volta a stupirci: una foresta di colonne alte, lisce e dorate sostiene una volta al cui centro si erge una sorta di santuario dove quattro Buddha dorati, in piedi, si rivolgono verso i quattro punti cardinali. L’atmosfera è unica e anche nei giorni a venire non ne troveremo più una simile.
La giornata si conclude con la visita di una ennesima pagoda, la Shwethalyaung Paya, che nonostante presenti caratteri ed elementi suoi propri, non riesce a stupirci più di tanto.
Forse per questo, mentre torniamo in albergo, io e mia moglie ci chiediamo se in soli due giorni non abbiamo già raggiunto un punto di saturazione. Un apice di meraviglia e interesse oltre il quale difficilmente potremo riuscire ad andare. Le giornate sono state così piene, e così tanti sono stati i motivi di curiosità per elementi religiosi, artistici e culturali a noi del tutto estranei, che la paura di rimanere indifferenti nei prossimi giorni ci sembra legittima. Sarà tutto sempre e solo così?
In nessun precedente nostro viaggio avevamo avuto simili dubbi, ma, per fortuna, si dimostreranno del tutto infondati.
Il 23 dicembre, alle cinque del mattino, prendiamo il volo interno per Mandaly. Arriviamo verso le sei e trenta, distrutti dal sonno, ma l’autista che ci viene a prendere elude la nostra speranza di essere condotti all’albergo e ci conduce sulla strada verso Sagain, una piccola regione di territorio collinare dove sono raccolte decine di pagode. L’alba è sorta da poco e dal ponte sospeso sullo Ayeryarwady River ci appaiono le morbide forme delle colline che delimitano la sua riva occidentale. Su ogni altura una pagoda dorata o un tempio bianco e immacolato svettano sulla vegetazione sottostante composta di banani, tamarindi, palme da cocco e fiori colorati.


L’atmosfera lattiginosa del primo mattino e la quiete profonda del luogo ci tolgono il fiato.
Quando lasciamo il ponte andiamo a visitare un monastero di cui non ricordo il nome: sembra edificato a pianta circolare e caratterizzato da due cerchie murarie dove eleganti nicchie ospitano decine e decine di statue del Buddha raccolto in meditazione.
Siamo immersi nella natura, lontani da qualunque centro abitato. Fuori dal monastero solo alberi frondosi, fiori colorati e cielo azzurro. Tutto è pervaso da una grande pace.
Sta per accaderci qualcosa… ci sembra di avvertirlo con chiarezza.
Quando infine lasciamo il monastero, l’autista affronta una dura salita e ci deposita all’entrata di uno dei templi più famosi di Sagain. Saliamo delle lunghe scale e, alla fine, entriamo in una corte che sembra deserta. Alla nostra destra su un muro bianco, basso, disposto a mezza luna, ma lungo cento, centocinquanta metri, si aprono decine di piccoli archi impreziositi da temi decorativi verde brillante. Oltre il muro un lungo corridoio dove, ancora una volta, troviamo decine di statue del principe Gotamo Buddha seduto nella posizione del loto. L’atmosfera è sublime.
Dentro di noi si compie uno scatto. All’improvviso comprendiamo che la saturazione di immagini vissuta a Yangoon era una prova. Una sorta di soglia riuscendo a superare la quale l’anima avrebbe potuto avere accesso all’atmosfera sacrale che l’onnipresente effige del Buddha prima evoca, e poi amplifica, all’infinito, di rispecchiamento in rispecchiamento. Siamo entrati in una diversa dimensione. In essa il messaggio del Buddha e il suo serafico sorriso si rivelano per quello che sono: una vibrazione spirituale che compenetra ogni cosa. Una realtà dello spirito a cui il popolo birmano ha saputo aprire il cuore con autenticità e devozione. Alla fine intuiamo che l’ossessiva e solo apparentemente monotona ripetizione dell’immagine sacra del Buddha in meditazione nasconde una sua specifica funzione e un suo occulto significato.

In un qualche modo anche noi ci lasciamo rapire: finalmente lontani dal traffico caotico delle città e dalla folla che le abita, vaghiamo con calma da una pagoda all’altra e con gioia ci soffermiamo sulle infinite riproposizioni delle immagini sacre. Sempre coinvolti, interessati, curiosi, incantati…
Ma la Birmania è generosa e la giornata ci riserverà ben altre sorprese.
Subito dopo un frugale pasto, infatti, l’autista ci accompagna sull’argine sabbioso di uno dei tanti affluenti dell’Ayaryerwadi River e ci invita a salire sulla lancia a motore che fa da spola da una riva all’altra. Giungiamo sull’altra sponda, ci accordiamo con uno dei tanti vetturini locali in attesa e, con una carrozzella a cavallo, ci facciamo condurre tra i sentieri della piana dove, molti secoli addietro, sorgeva Inwa, antica capitale del regno. Ed ecco, tra una capanna solitaria o un misero villaggio su palafitte, ecco materializzarsi antichi stupa e templi semi-diroccati risalenti al XII° o XIII° secolo. Incontrarli così, abbandonati nella giungla, spesso divorati e quasi digeriti dal regno vegetale, ci regala intense emozioni. Molto “in piccolo”ci ricorda Angkor Vat, in Canbogia.
 Poi dal nulla, ecco comparire un antichissimo monastero buddista realizzato esclusivamente in legno di tek: al suo interno, una foresta di scure colonne arboree nasconde un piccolo altare e, ancora attiva, una scuola per giovanissimi futuri monaci.
La nostra carrozzella riprende il cammino, attraversa un magnifico bananeto, supera un passaggio tra antiche mura e si ferma infine davanti ad un enorme palazzo abbandonato, confinante con un gruppo di piccole pagode bianche e oro di raffinata eleganza architettonica.
La giornata è stata piena e soddisfacente, ma non è ancora finita: alle 17,30, prima di dirigerci verso l’hotel che abbiamo prenotato a Mandalay, facciamo in tempo a goderci uno spettacolare tramonto dal vecchio ponte in legno di tek che ad Amarapura attraversa il grande fiume.
La mattina del giorno successivo costeggiamo le mura dell’antico forte della vecchia città e saliamo al tempio di Mandalay Hill. Siamo fortunati, perché giunti alle porte della Kyauktawagyi Paya assistiamo alla coloratissima cerimonia con la quale le famiglie  birmane presentano al Buddha i bambini che, appunto con quella cerimonia, abbandoneranno la vita mondana e si faranno monaci. All’interno del Sancta Sanctorum della pagoda, un gigantesco Buddha d’oro è reso ancor più prezioso e quasi irriconoscibile dalle sottilissime scaglie d’oro che i fedeli, per devozione, usano incollarvi sopra. Sarebbe tutto perfetto se non avessimo oramai preso atto, definitivamente, che tutti i monaci sotto i quaranta, quarantacinque anni, posseggono e armeggiano con un Iphon o un Ipad di tutte le marche e dimensioni. Pensavamo fosse una moda presente solo nella capitale, ma ci sbagliavamo. Scopriremo che ovunque, anche nei monasteri più remoti, oramai è così! E in fin dei conti non è che sia un vero e proprio scandalo, ma certo è che mina alle fondamenta l’idea romantica del monaco che si è ritirato dal mondo e vive di elemosina per seguire una sua propria luce interiore. Anche loro fotografano, riprendono le scene più interessanti e le spediscono ai loro amici e parenti.















Come che sia… alla fine lasciamo Mandalay Hill e raggiungiamo di nuovo la riva del grande fiume: traghettiamo su un piccolo battello e raggiungiamo Mingun. Qui si trovano i resti di quello che, se fosse stato terminato, sarebbe stato il palazzo più grande del regno di Birmania. Un terremoto ne ha interrotto la costruzione, minandone le fondamenta. Ma dai centocinquanta metri del suo primo piano la vista sul fiume è superba. Quando scendiamo visitiamo la campana di bronzo più grande del mondo e, cosa di certo più interessante, la bellissima Pagoda bianca costruita a imitazione del Monte Meru. Poi, di corsa e affannati – come richiede il nostro destino di occidentali - torniamo al battello appena in tempo per goderci un ennesimo, splendido tramonto sul fiume.
Il 24 dicembre ci svegliamo ancora una volta prima dell’alba e ci rechiamo all’imbarcadero dal quale salperà il battello che, con dodici ore di navigazione sulle placide acque dello Ayaryerwadi River, aggirando centinaia di banchi di sabbia dovuti alla stagione secca, ci porterà alla mitica piana di Bagan. Il giorno di natale scorrerà piacevolmente tra mille esotici paesaggi. Arriveremo solo nel tardo pomeriggio, dopo il tramonto del sole… Appena in tempo per andare in albergo a dormire. L’indomani mattina, ancora una volta sveglia alle cinque, per andare a fotografare l’alba che spunta su una pianura che vanta ben 2500 pagode, costruite tutte tra il XI° e il XII° secolo. Lo spettacolo della luce del sole che gradualmente svela i segreti dell’immensa pianura, impreziosito dal volo di 30 mongolfiere, è a dir poco sublime.



Passiamo il resto di quella giornata e tutto il 26 dicembre a visitare quante più pagode possibili, scegliendo tra le più originali e meno affollate.
La sera ci sorprende sul terrazzo di una di quelle più defilate, insieme a pochi altri viaggiatori. Immobili e silenziosi, assistiamo al calare del sole tra le migliaia di guglie della piana di Bagan.
Ancora un sintomo dei danni prossimi a venire: sotto alcuni templi scorgiamo parcheggiati grossi autobus turistici. Quasi sempre sono torpedoni giapponesi. Perché anche qui, come in tante altre parti del mondo, compresa la nostra Europa, il Giappone ricatta i governi locali minacciando la sospensione o il blocco definitivo del loro ricco turismo qualora i propri autobus dovessero vedersi interdetto l’accesso ad alcuni scomodi siti. Inutile sottolineare l’orrore estetico di quegli enormi bus parcheggiati davanti agli ingressi di alcune delle pagode più famose.
Il 29 dicembre lasciamo Bagan e viaggiamo un giorno intero sulle strettissime strade, non sempre asfaltate, di questo meraviglioso paese. Occorreranno due giorni per coprire una distanza di 350, 400 km. Durante il primo giorno di viaggio visitiamo il celeberrimo tempio del Monte Popa, dedicato ai Nat (Esseri Elementari, Signori di vari elementi). Nonostante le nostre aspettative, la visita sarà deludente… migliaia di persone adoranti, “pupazzi” dal gusto discutibile (almeno per il nostro gusto occidentale) e un’architettura che più Kitch non si potrebbe ci spingono ad affrettare la partenza.
Nel corso della seconda mattina, invece, ci fermiamo a visitare le grotte di Pindaya, un cunicolo naturale che si immerge nel cuore della montagna per cinque o seicento metri, dove sono state ammassate più di 80000 statue del Buddha. Vista l’esperienza del giorno precedente, siamo indecisi se entrare o meno. Per fortuna alla fine ci lasciamo convincere, e viviamo così a una delle esperienze più pazzesche, e suggestive e commoventi di tutto il nostro viaggio. Per più di tre ore ci perdiamo in un dedalo di cunicoli naturali che la pietà dei birmani ha costipato fino all’inverosimile, ma pur sempre in un ordine artistico e ricercato, di statue piccole, medie e grandi realizzate in oro, argento, tek dipinto, ceramica, mattoni colorati, avorio e bronzo.


Quando finalmente ripartiamo da Pindaya, in poche ore raggiungiamo la meta finale del nostro viaggio: Inle Lake, il lago Inle, dove passeremo i nostri ultimi tre giorni di vacanza. La sera andiamo a dormire molto presto e la mattina del giorno successivo affittiamo una caratteristica piroga del luogo, a fondo piatto e albero motore orizzontale sull’acqua. Con quella, insieme a tanti altri turisti e viaggiatori che, come noi, si sono imbarcati su altre piroghe, lasciamo il porto, superiamo un lungo e stretto canale e alla fine usciamo sull’immensa superficie dell’Inle Lake. Prima ci dirigiamo verso il centro stesso del grande lago, per osservare il complicato metodo di remare dei pescatori del luogo… che, in pratica, stanno in piedi sulla prua dell’imbarcazione e, per avere il libero utilizzo di entrambe le mani, incastrano un remo tra l’ascella, l’anca e la caviglia del piede e, con un movimento serpentino, ottengono la vogata necessaria per far procedere la barca.


Quando il nostro stupore si placa, riprendiamo a navigare, accostiamo la riva occidentale del lago e ci inoltriamo in sinuosi canali per visitare alcuni dei villaggi galleggianti che animano le paludi che lo delimitano. In uno si fabbrica quello stesso tipo di piroghe in tek sul quale noi stiamo navigando, in un altro si tesse la seta e il filo di loto, in un altro ancora si producono originali sigari al tabacco dolce mentre, nell’ultimo, troviamo al tornio alcune donne Padaung, meglio conosciute con il nome di “donne giraffa”. 

Per piacere agli uomini della propria etnia queste donne, fin da bambine, vengono educate ad inanellare sul proprio collo stretti cerchi di bronzo dorato. Uno sopra e dopo l’altro, progressivamente nel tempo. Così facendo, i cuscinetti intervertebrali delle cervicali si allungano e i muscoli si atrofizzano. Dopo una certa età nessuna di loro potrebbe più vivere senza quei pesantissimi collari (circa otto chili), perché il loro collo si spezzerebbe e loro morirebbero.
Un altro mirabile esempio della follia dell’immaginario erotico maschile, che fa il paio con i piedini deformati delle geishe giapponesi, delle labbra tagliate e deformate dai piattelli labiali delle donne mursi e dal burka delle donne dei fondamentalisti islamici.



Di canale in canale, costeggiando mirabili orti galleggianti, alla fine raggiungiamo Inthein, all’estremo sud-ovest del lago. Dietro la piazza del mercato parte una lunga scalinata che si inerpica su una lussureggiante collina; ma a metà strada la vegetazione si dirada per lasciare spazio a una foresta di… antichissimi Zedi (stupa) edificati intorno al XVII° secolo. La maggior parte è in rovina e, come al solito, ostentano il fascino irresistibile del tempo; tuttavia, verso la cima, molti dei restanti 1000 Zedi sono stati restaurati e si impongono con la loro perfezione stilistica e la varietà dei colori: oro, bianco, grigio e arancione scuro.
Verso l’ora del tramonto scendiamo e torniamo alla piroga: occorrerà più di un’ora e mezza per tornare al porto dal quale siamo partiti.
Il terzo e ultimo giorno, infine, con tre biciclette prese a nolo, gironzoliamo per la campagna circostante e riusciamo a catturare bellissime immagini di una civiltà rurale che entro pochi anni sarà destinata a scomparire per sempre, inghiottita dal globalismo del modernismo occidentale. Molte capanne su palafitte, infatti, ostentano l’antenna parabolica: quanto tempo occorrerà prima che la “TV spazzatura” proveniente da tutto il resto del mondo riesca a corrompere l’animo gentile, aperto e fiducioso di un popolo che neanche il pugno di ferro della più feroce dittatura è riuscita a mutare? Non a caso, sia a Yangoon, che in tutte le altre cittadine dove abbiamo soggiornato, qua e là già circolavano adolescenti con i capelli colorati di giallo, creste da moicano e vistosi tatuaggi sulle braccia.

Non c’è nulla da fare… E’ solo questione di pochi anni e la nube oscura di cui accennavo nelle prime righe mi avrà raggiunto e sorpassato, distruggendo qualunque ultimo accenno di diversità e originalità.


1 commento:

  1. Ma che meraviglia...sono senza fiato.
    Mi sa che dovrò affrettarmi ad andarci prima che la nuvola nera ci raggiunga...
    Piero

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