martedì 1 dicembre 2015

La Morte Rubata





Si può rubare una morte?
Ebbene sì! Per quanto assurdo o paradossale il fatto possa sembrare, la morte può essere rubata. Può essere sottratta alla persona direttamente chiamata a farne umana esperienza e a tutti i suoi cari aventi diritto di commossa partecipazione.
La morte può essere rubata! È un tentativo di furto bello e buono quello che in queste ore abbiamo vissuto io, mio fratello… due uomini adulti, consapevoli e responsabili, cui il sistema sanitario italiano, nella sua ristrettezza di vedute, ha tentato di sottrarre la partecipazione composta e serena alla morte della propria madre.
La donna in questione avrebbe compiuto tra pochi giorni novantun anni, vissuti tutti nella grazia della piena salute, nella profonda autenticità del rapporto d’amore con il proprio marito e nel raggiungimento di significativi successi familiari e sociali. Sarebbe difficile immaginare una vita altrettanto piena e soddisfacente.
Questa donna, alcuni mesi or sono, accusò il sanguinamento di un vecchio cavernoma al cervello che, agendo sul sistema neurovegetativo, in pochissimo tempo aggredì le sue funzioni. Dopo un minuzioso controllo in una costosa clinica privata, che scartò la possibilità di un intervento chirurgico drammatico sia per l’età della paziente che per la delicatezza oggettiva dell’intera operazione, nostra madre venne portata in una casa di riposo di recente costituzione: signorile, discreta e, soprattutto, molto umana. Il personale è gentile, accogliente, comprensivo… anche se non del tutto rispondente alle normative vigenti. La loro umanità, tuttavia, sembrava impagabile.
Dopo soli due mesi di degenza, nostra madre però peggiora: il cavernoma continua a sanguinare e si espande da 12 a 15 mm. La non abitudine alla malattia, l’invecchiamento e l’affaticamento naturale di tutti gli organi interni, la comprensiva angoscia di fronte all’esperienza del trapasso imminente, più una serie di concause di difficile individuazione fanno precipitare la situazione. La pressione della donna si abbassa, viene a mancare l’apporto di sangue e di ossigeno a vari organi e il cuore, in un tentativo naturale di compensazione, va in fibrillazione rendendole difficile il respiro.
Da giorni parlavamo con nostra madre per prepararla alla dipartita: le ricordavamo i suoi momenti più belli, i viaggi fatti con nostro padre, le loro forti amicizie, gli affetti, lo stuolo di nipoti, i suoi personali successi come donna di una generazione lontana anni luce da quella attuale. Le anticipavamo l’imminente re-incontro con nostro padre, la rassicuravamo sull’altra vita che presto avrebbe sperimentato e, scherzosamente, la pregavamo di non scordarsi di darci i numeri buoni per una straordinaria vincita al lotto.
Domenica 29 novembre ho un impegno di lavoro. Mi da il cambio mio fratello che resta con nostra madre fino al primo pomeriggio. Poi torna a casa. Io sono impegnato fino a tarda sera, ma quando finalmente mi libero la situazione di nostra madre precipita. L’affanno respiratorio mette in agitazione il personale della casa di riposo che, spaventato da possibili responsabilità legali, preme per chiamare la guardia medica. Quando il medico arriva, pur se bravo e competente, si lascia andare a una serie di accuse nei confronti della casa di riposo, responsabile - a suo avviso - di non aver dato l’allarme almeno un giorno prima, perché privo di personale infermieristico competente.
Gentile ma rigido, il medico esige che si chiami il 118. Mia madre sta solo morendo, con me vicino… ma questo non è contemplato nella cura ossessiva della vita fisica.
È notte, non mangio da dieci ore, sono stanco… e ho un cedimento di fronte all’arroganza dell’autorità medica. È tutta colpa mia e così, senza rendermene chiaramente conto, entro in una spirale di subdoli inganni. Nostra madre viene portata all’ospedale più vicino.
Lo so! Lo so benissimo… sono senza personale, senza posti letto e senza attrezzature; i medici e tutto il personale infermieristico fanno turni massacranti e straordinari, spesso senza essere nemmeno pagati. E so anche che su mille persone, novecentonovantanove di fronte alla possibile morte di una persona cara, esigono tutte le cure del caso e il rinvio all’infinito dell’esito finale. E che quasi tutti sono pronti a muovere guerra penale e civile contro chiunque non ottemperi con solerzia a quelli che credono essere i loro sacrosanti diritti: il diritto alla vita “più eterna possibile” e alle cure miracolose. Lo so: medici e infermieri vivono nel terrore continuo di assurde denunce.
Tutto ciò, tuttavia, non dovrebbe offuscare la loro più profonda umanità.
Non dovrebbe… ma questo purtroppo accade.
E così, dopo ore di attesa in un atrio del pronto soccorso – dove nessuno si perita di darmi la benché minima informazione, ci mancherebbe altro – alla fine un medico solerte s’impegna nell’accurata descrizione del circolo vizioso patologico nel quale è caduta nostra madre. Il risultato è che, così in fibrillazione, non può essere dimessa. Tuttavia, in reparto non ci sono letti disponibili… e non ce ne sono in nessun altro ospedale del circondario, per cui nostra madre dovrà restare parcheggiata lì, su una lettiga del pronto soccorso, mezza nuda, spaventata, con la luce accesa in faccia, dove nessuna voce amica potrà esserle di conforto.
Alle tre di notte, inebetito dal sonno, vengo pregato sgarbatamente, da una infermiera con il volto arcigno, di lasciare la sala d'aspetto del pronto soccorso.
La mattina dopo ci rendiamo conto di essere caduti in un girone infernale, fatto di paura, ipocrisia e totale mancanza di umanità. L’ospedale non ha posti liberi, ma non vuole dimetterla in quelle condizioni per paura di nostre possibili ritorsioni penali qualora, dopo poche ore, nostra madre dovesse morire. Firmiamo noi l’uscita dal pronto soccorso ma, con quel foglio, la casa di cura afferma di non poterla riprender in carico, sempre per paura di ritorsioni penali. In casa non possiamo portarla, perché non siamo organizzati con personale e strumenti adeguati.
Per alcune ore fronteggiamo la follia di una cultura che è incapace di contemplare la morte e che, paradossalmente, presume che i malati debbano morire sanati da qualunque male. La malattia deve essere curata, sempre e comunque, a prescindere dall'avere i luoghi, i tempi e il personale per poterlo fare. L’imperativo è categorico, e indifferente all’abissale solitudine spirituale del malato, trattenuto come un oggetto dismesso in luoghi desolati e desolanti, esposto all’indifferenza del via vai affannato di un pronto soccorso sempre intasato.
Ma in quale civiltà viviamo?
In quale incivile civiltà si ha così paura della morte da esorcizzarla in tutti i modi possibili immaginabili e, in nome della vita, si offende e si ingiuria senza riguardo la dignità morale di un essere umano? Quale vuoto interiore abita l’anima di questi insulsi professionisti sanitari, medici e infermieri, il cui compito specifico sembra essere solo quello di fare al meglio il proprio lavoro, come ligi impiegatucci di un sistema che ha del tutto rimosso la precarietà della vita umana? Quale ottusità si è impossessata di tutti noi che non sappiamo più guardare, non dico occhi negli occhi, ma nemmeno di sfuggita il pallido volto di Nostra Signora Morte?

Alla fine della nuova giornata, mia moglie, battendosi come una furia contro l’insensibilità della segreteria ospedaliera, riesce ad ottenere da un’anima pia un certificato di dimissione “taroccato” e, con quello, riporta nostra madre nella casa di cura che “a torto collo” l’accetta. Quando l’ambulanza la deposita sul suo letto, il personale si accorge che all’uscita dall’ospedale le hanno lasciato il catetere inserito. Fantastico paese l’Italia… Tanta accortezza burocratica… poca professionalità, e assenza totale di anima. Che il Signore abbia pietà di tutti voi, perché in questo momento a noi risulta difficile.
Nostra madre spira verso le 18, in quella che da mesi considera la sua camera, tra le sue cose, dopo aver salutato nipoti e pronipoti che sono venuti a salutarla, con le mani tra quelle di mia cognata. Io e mio fratello arriviamo tardi, dal lavoro, ma con il pensiero eravamo lì.
Nonostante tutto e contro tutti nostra madre se ne è andata tranquilla, invitata e accolta nel nuovo mondo dall’unico uomo che lei ha amato per tutta la vita.


Non ce l’avete rubata questa morte, non siete stati all’altezza del vostro Padrone.

giovedì 22 ottobre 2015

Al cuore dell'imperialismo americano

Ieri sera sono voluto andare al cinema per vedere “The Martian”, tradotto in Italiano con “Sopravvissuto”. Sapevo bene che mi sarei ritrovato a vedere un mediocre prodotto da intrattenimento. Insomma: una di quelle piacevoli “americanate” che a Hollywood riescono così bene e che, quando sei stanco o comunque non ti va di spremerti le meningi, ti regalano un paio d’ore di relax.  Lo ripeto: a occhio e croce potevo ben immaginare la qualità del prodotto, ma ci sono andato lo stesso: Matt Damon, come attore, mi è sempre piaciuto molto; l’avventura fantascientifica su Marte avrebbe potuto essere interessante; sapevo, inoltre, che il film era stato girato in buona parte a Wadi Rum, il deserto rosso nel quale avevo trascorso alcuni giorni stupendi durante il mio viaggio in Siria e Giordania, nel lontano 2007… e mi faceva piacere ritrovare quegli orizzonti.
Insomma… ero ben disposto, ma il film mi ha deluso lo stesso. Soprattutto, però, mi ha annoiato (tempi lunghi e lenti delle riprese, atteggiamento serafico del protagonista in una situazione panica) e così, poco stimolato da quello che vedevo, mi sono messo a pensare.
Era proprio quello che non volevo, ma non ho potuto fare altrimenti.
Perché, per la miliardesima volta, mi sono trovato di fronte al solito messaggio che sempre traspare nelle opere cinematografiche statunitensi, quando il protagonista rimane isolato in un qualche territorio selvaggio o, meglio ancora, dietro le linee nemiche. Perché è allora che tutti gli altri protagonisti del racconto, se non addirittura tutto il popolo americano, viene afferrato e determinato da una sola idea: “È uno di noi… non possiamo abbandonarlo… andiamo a prenderlo!” Questo, ovviamente, perché il disperso è un americano. È uno di loro… e l’America non è una madre da abbandonare i propri figli.
Ora, non voglio neanche lontanamente entrare nel merito di quante volte il governo degli Stati Uniti d’America abbia offerto prove evidenti d’ipocrisia a riguardo (si pensi al Vietnam, tanto per dirne una). Quest’argomento non m’interessa. Piuttosto sono interessato a penetrare nel cuore della comunicazione emotiva che, più o meno di proposito, viene ogni volta riproposta.
Di fatto, il messaggio subliminale che passa in molti documentari, commedie e, soprattutto, film d’azione americani è sempre lo stesso: martellante, ossessivo, esaltato… una sorta di coinvolgente: “Uno per tutti, tutti per uno”. Un messaggio neanche troppo criptico ma, soprattutto, intenso, viscerale, entusiastico, eroico, spesso sublime. E non importa, poi, se il proibitivo sistema della loro sanità nazionale lasci morire con indifferenza qualunque cittadino non abbia soldi a sufficienza per pagarsi un medico né tantomeno un ricovero ospedaliero. Non importa se il neo-capitalismo finanziario cannibalico, che è l’anima nera del “sogno americano”, è legittimato a gettare sul lastrico centinaia di lavoratori dipendenti per favorire una “fusione” societaria utile solo agli azionisti. Non importa il contrasto, ancora feroce, tra le diverse etnie che formano il substrato di quell’immenso paese. Non importa l’efferata criminalità che esplode improvvisa in tutti gli States. Nulla importa della vita vera. Il retorico messaggio: “È uno di noi… andiamo a salvarlo, costi quel che costi…” passa per il cuore e raggiunge le budella di tutti i cittadini americani.
Ma non solo le loro. Mentirei se non ammettessi il fascino che quello stesso messaggio ha sempre esercitato su di me. Come negare il valore immenso rappresentato dall’idea, o meglio dal sentimento, di appartenenza fraterna, di intima e solidale comunione con tutti gli altri, di amicizia a prescindere, di aiuto e solidarietà? Sarà forse per il contrasto rappresentato dalla cultura dell’Italia, il paese nel quale vivo, e che è fondata sulla totale mancanza del più elementare senso civico, sull’individualismo più gretto e sull’ostilità più feroce riservata a chiunque esprima un parere diverso dal proprio. Sarà forse per il clima d’insicurezza e apprensione creatosi in questi ultimi vent’anni di oscena politica, di mancanza di lavoro, di abusi mafiosi, d’immigrazioni clandestine, di terrorismi vari… Sarà per il fallimento evidente del grande sogno di una Europa Unita… non so, sarà per questi e tanti altri motivi… Ma ho sempre avvertito il fascino del commovente messaggio ripetuto come una ossessione compulsiva dall’industria cinematografica hollywoodiana. Anche perché in America ci sono stato, almeno tre volte, e ho dovuto riconoscere che quel messaggio è stato davvero ben interiorizzato dal popolo americano. Nonostante tutte le sue evidenti contraddizioni è presente e vivo nello sguardo orgoglioso delle persone comuni, nell’aria che ovunque si respira e nello sventolio festoso di milioni di bandierine a stelle e a strisce che adornano quasi ogni negozio, ogni casa, ogni balcone, ogni giardino.
“Io amo il mio paese” è la frase più scontata e retorica che si possa immaginare ma che, negli States, vive sovrana nell’anima e nel cuore di tutti i cittadini, compresi quelli da poco acquisiti.
Se anche fosse stata abilmente confezionata dalla vergognosa élite che governa politicamente e finanziariamente il paese, bisognerebbe ammettere che ha funzionato perfettamente. E che al di là del fatto di assicurare a tale élite un materiale umano pronto a gettarsi in qualsiasi inferno, perché convinto di immolarsi per il bene del proprio paese, resta però che il profondo sentimento di appartenenza alimenta e guida gli intenti di ogni singolo individuo.
Perciò… lo ammetto: ho invidiato spesso tale spirito di solidarietà, pur senza che questo desiderio di emulazione m’impedisse di riconoscervi il volto del nostro Nemico Comune.
Perché cosa diavolo mai significa, oggi, alle soglie del nuovo millennio, distinguersi come americano? Così come italiano, o europeo, o arabo o cinese? Come diavolo si fa a dare valore, dignità e significato al fatto puramente occasionale e fortuito di essere nati in un territorio anziché in un altro? Quale sortilegio è stato lanciato, e da chi, affinché anche le persone più colte e istruite siano divenute del tutto incapaci di vedere oltre la punta del loro naso?
Perché dovrebbe essere evidente a tutti che il corollario del messaggio americano: “È uno di noi… salviamolo e riportiamolo a casa” è che quel povero soldato scomparso o avventuriero disperso è meritevole di qualunque sforzo e sacrificio per il solo fatto di essere un cittadino degli Stati Uniti… mentre tutti gli altri, ovviamente, no. Gli altri sono persone qualsiasi di altre qualsiasi nazioni, alle quali non viene riconosciuta alcuna dignità o valore. O, almeno, nessun valore paragonabile a quello che avrebbero invece i cittadini degli Stati Uniti d’America. Tutti gli altri sono semplici, odiosi nemici che piuttosto andrebbero sterminati, anche solo perché probabilmente renderanno difficile il recupero del compagno perduto. Sono nemici a prescindere! Per il semplice fatto di non essere americani.
Eppure, dovrebbe essere evidente a tutti gli uomini di libero pensiero che, quando si combatte una guerra (militare ma anche scientifica o culturale), sia del tutto ovvio che ogni combattente si illuda di essere dalla parte della ragione, altrimenti lo scontro non ci sarebbe. Ma come la storia ha testimoniato più volte, non sempre la Verità o la Giustizia o la Libertà sono stati rappresentati dai vincitori. Anzi, più spesso è stato vero il contrario.
Come si fa a credere di essere nel giusto o nella verità solo perché si è nati americani? Come si fa a credere che la propria (discutibile) democrazia sia quella che vada imposta a tutto il resto delle nazioni? Come si fa a presumere che essendo i più ricchi del mondo, quelli in possesso della tecnologia scientifica più avanzata e dell’esercito più agguerrito e preparato che si possa immaginare, per antonomasia si rappresenti allora la migliore umanità possibile?
Piuttosto è vero il contrario, perché le persone più evolute dovrebbero essere quelle in grado di riconoscere il valore sacro rappresentato dalla Vita di ogni essere umano. Di qualunque nazionalità, di qualunque colore, di qualunque religione esso sia.
Perché il nazionalismo – scrisse una volta la nostra scrittrice Dacia Maraini – corre sul filo di rasoio del razzismo, e la sacrosanta difesa anche estrema delle leggi, della religione e della cultura che un popolo si è conquistato non ha nulla a che vedere con la soprafazione degli altri e con la condanna della loro identità umana.
Anche perché, lo ripeto, le migliaia di bambini che nascono ogni giorno non meriterebbero di essere considerati americani, o cinesi, o arabi, o australiani, o europei. Così come nel momento della nascita non dovrebbero essere considerati cristiani, o ebrei, o buddhisti, o islamici o animisti bensì, appunto, solo bambini. Bambini che acquisiranno un’identità culturale e religiosa secondo il condizionamento del paese nel quale sono nati e del percorso interiore che intraprenderanno da adulti.
La verità, difficile da riconoscere e scomoda da digerire, è che tutti, indistintamente tutti quei bambini “Sono uno di noi”. Come uomini, infatti, condividiamo lo stesso identico destino, tutti abitiamo questo stesso identico pianeta, che a tutti appartiene e a nessuno nello stesso tempo… e tutti nasciamo, cresciamo, amiamo, soffriamo e infine moriamo, portando nel mondo dello spirito il valore della vita che abbiamo vissuto.
Non credo che dall’altra parte Qualcuno ci chiederà il passaporto, o che vorrà sapere se siamo stati italiani, o messicani, o giapponesi, o africani. Al contrario, se è vero quello che hanno sempre insegnato i grandi saggi di ogni tempo e di ogni luogo, ci chiederanno soltanto: “Quanto avete amato?” E dalla risposta dipenderà il nostro futuro destino.

Perciò, quando mi commuovo sentendo gli attori americani recitare: “Io amo il mio paese!” oppure: “È uno di noi, non possiamo abbandonarlo, andiamo a prenderlo!” mi chiedo quanto mi commuoverei di più se tutti, ma proprio tutti potessimo un giorno dire: “Io amo la Terra, amo questo nostro bellissimo Pianeta!” e ancora: “Siamo tutti uomini, siamo tutti fratelli, anche se molto diversi gli uni dagli altri… diamoci una mano… salviamoci!

sabato 3 ottobre 2015

Ma di cosa stiamo parlando?





È accaduto piano, piano e, quasi, non ce ne siamo accorti. È stata come una marea montante ma graduale, un allagamento impercettibile eppure costante, continuo e inarrestabile. Era sotto gli occhi e le orecchie di tutti, ma quasi nessuno se n’é accorto; e quei pochi più sensibili che seppero registrarlo forse non lo credettero pericoloso più di tanto.
E così, adesso, ce ne stiamo tutti qui, impantanati in questa palude di chiacchiere assurde, inutili, condizionate e condizionanti, quasi mai veritiere, ma sempre aggressive, violente, livide di odio mal celato.
Faccio riferimento a quella pratica oramai quasi globale di parlare e sparlare di tutto, a proposito e a sproposito, ma sempre con una convinzione assoluta e inattaccabile che non si perita di dare il minimo ascolto ad alcuna voce discordante.
Sospetto che Internet e i vari social network ne siano stati i maggiori responsabili: in maniera graduale le persone scoprirono un giorno che potevano dire la loro, che disponevano dei mezzi per esprimere i propri giudizi e far valere le proprie opinioni. Molti iniziarono a farlo. Dapprima con cautela e circospezione… Il fenomeno debuttò in sordina, trattenuto all’inizio dal pudore e dalla vergogna. Dovrei dire: da un sano pudore e da una giustificata vergogna. Presto, però, uomini e donne trovarono il coraggio di superare questi orpelli della coscienza di altri tempi, e sospinti dall’arroganza, dalla presunzione, dal narcisismo e dalla vanagloria, senza più limiti e confini se non quelli dell’immagine grandiosa di sé, si sentirono legittimati a “dire la propria”. Be’, non proprio “a dirla”, quanto piuttosto a sbraitarla ai quattro venti, urlando forte per imporla agli altri e giustificandola coprendo di accuse e d’insulti chiunque osasse avversarla. Il fenomeno, lo ripeto, iniziò in sordina, piano piano… per poi è esplodere, superando ogni immaginabile previsione.
Allo stato attuale non è più questione di temi importanti o secondari, di episodi o eventi da cui dipendono chissà quali conseguenze. No! Quello che è interessante, fondamentale e significativo osservare è l’immediata stura di rigurgiti emotivi incontrollati e incontrollabili che, a ben vedere, non si capisce nemmeno che scopo possano avere. Se non quello dell’affermazione ingiustificata di se stessi. Vorrebbero sembrare pensieri… magari non eccessivamente complessi o ben strutturati… ma comunque pensieri. E invece sono solo stati emozionali, sensazioni di bassa lega se non, addirittura, istinti camuffati da pensiero.
Potrebbe anche darsi, come sostengono in molti, che buona parte di questa gazzarra sia stata orchestrata ad arte da chi trae grandi vantaggi dall’immensa confusione nella quale versa l’attuale comunicazione umana. Di sicuro buona parte della babele nella quale ci conduciamo non è altro che l’effetto di quell’orchestrazione se è vero, come è vero, che ci sono persone stipendiate per gettare false notizie in rete, per confutare quelle più veritiere e creare tendenze di pensiero del tutto discutibili. Resta però il fatto che la maggior parte delle persone vi ha aderito senza alcun minimo cenno di resistenza ma, anzi, convinta di appartenere a quella sofisticata elite dallo sguardo acuto e dal pensiero fine grazie ai quali poter sparare a zero su qualunque avversario.
La ragione o la causa del dissenso ha poca importanza. Tutto è motivo di accuse e discussioni infinite, condite con menzogne, insulti e improperi vari. Dalla celebrazione corretta o ingiusta di un qualche personaggio politico, sportivo o del mondo dello spettacolo, alla immigrazione che sta sommergendo l’Europa, dalle “guerre di pace” che sconvolgono l’Africa ai tatuaggi sull’inguine di Belen. Tutto fa brodo, non c’è notizia che non abbia il potere di sconvolgere qualcuno, di toccarlo nel sancta sanctorum delle sue rigide certezze e quindi amareggiarlo offenderlo e inorridirlo… oppure confermarlo ed esaltarlo… ma comunque facendogli sentire la necessità di testimoniare al mondo la propria verità distruggendo quella degli altri.
Alcuni esempi:

- Verso la primavera del 2015, almeno qui da noi in Italia, si accende prima e divampa poi una vera e propria guerra di principio sulla così detta “Teoria del Gender”, secondo la quale l’appartenenza al genere sessuale maschile o femminile sarebbe un evento culturale e non biologico. Esiste o non esiste una teoria del genere? Quali sarebbero le sue basi scientifiche? E se esiste, come andrebbe interpretata?
In verità convincimenti simili a quelli attribuiti alla teoria del gender erano presenti fin dalla seconda metà del ‘900 (penso al libro della Elena Gianini Belotti “Dalla parte delle bambine” uscito in Italia nel 1973) e che creò, anche allora, assensi e dissensi.
Io fui, e sono tuttora, uno dei convinti contestatori di quel libro.
Ma non è questo il punto. È che all’epoca i toni erano molto più pacati e, quasi sempre, si cercava il conforto nell’equanimità della ricerca scientifica e di un ragionamento pacato. Quello che oggi sgomenta (o almeno dovrebbe sgomentare) non è tanto l’asservimento di una teoria all’ideologia politica, ai grandi interessi finanziari o alla fede religiosa (questo, in verità, accadeva anche allora), quanto piuttosto la totale ignoranza e non conoscenza dei suoi complessi presupposti da parte di chi poi presume di difenderla o di oltraggiarla, la sua strumentalizzazione fraudolenta, la manipolazione o la distorsione dei dati, la loro de-contestualizzazione e, soprattutto l’intensità dell’odio che caratterizza la discussione. E che, bisogna ammettere, è tanto più violento e intransigente quanto più è espresso da persone che non hanno alcuna preparazione specifica ma che, con la loro partecipazione al dibattito (dibattito?) scaricano piuttosto condizionamenti e frustrazioni personali.

- Il dottor Angelo Consoli è il presidente del CETRI e ha dedicato tutta la propria vita alla ricerca delle energie sostenibili o rinnovabili. In occasione dello scandalo Volkswagen, scrive un articolo, per altro molto pacato, nel quale si prefigge di spostare l’attenzione del lettore dal fattaccio vero e proprio delle centraline truccate agli interessi delle lobbie del combustibile fossile. In questo contesto riporta la notizia dell’esistenza di case automobilistiche (GM, Honda e Toyota) che già dal 2004 avrebbero messo a punto modelli di auto ibride innovative, che sfruttando l’elettrolisi e l’energia elettrica potrebbero sostituire del tutto le auto con il motore a scoppio. Di ognuna di queste case automobilistiche il dot. Consoli riporta  link e  video dove potersi accertare della veridicità delle sue affermazioni. Le sue riflessioni sono interessanti… forse fin troppo ottimistiche e magari mancanti di comparazioni politiche e finanziarie, ma comunque hanno il carisma della professionalità.
Nonostante ciò, sotto la pagina Internet sulla quale è riportato il suo articolo, subito prendono la parola un paio di Quaquaraquà che, pur ammettendo la propria totale mancanza di cognizioni tecniche nel settore, con una faccia tosta che ha dell’incredibile lo tacciano di superficialità e ingenuità, di gratuita e sommersa ideologia anti-americana, e si sforzano di farlo passare per un sognatore ecologista poco aderente alla realtà. In poco tempo le voci a favore e contrarie si moltiplicano, degenerando in una rissa virtuale di insulti e improperi.

- Alice Sabatini viene eletta Miss Italia 2015. Alice è una ragazzina di diciotto anni che, come tutti i ragazzi a quell’età, non può, né dovrebbe esibire chissà quale profondità di pensiero. È una ragazza bella, spensierata, impegnata nello sport e nel godimento della vita. Che male c’è? Qualcuno, però, si ostina a voler pretendere da lei, oltre alla bellezza sfolgorante della gioventù, anche una qualche forma di saggezza. Perciò, alle solite, insulse domande dei giornalisti: “Quale tuo desiderio vorresti veder realizzato?” tutti si aspettano stereotipate risposte, tipo: “La fine di tutte le guerre e della fame nel mondo!”. Per poi, ovviamente, rilevarne con malcelata superiorità intellettuale la consueta stereotipia. Ma Alice risponde in maniera originale, anche se bambinesca: “Mi piacerebbe vivere nel 1942, all’epoca della seconda guerra mondiale. Tanto, come donna, la guerra non la farei.”
È ovvio che è una scemenzuola, una fantasia bizzarra che chissà in quali meandri psichici affonda le sue radici, ma la stampa, la TV e i network si scatenano montando una vicenda che, al massimo, avrebbe dovuto risolversi con un sorriso complice di circostanza. E, invece, giù cattiverie, prese in giro, sermoni dotti e moraleggianti.

- Massimo Mazzucco è uno dei tanti o pochi giornalisti (insieme a Michael Moore, Giulietto Chiesa, Simon Shack e altri ancora) che sospettano del fatto che l’attentato dell’undici settembre alle torri gemelle si sia realizzato come le fonti ufficiali vogliono fare credere. Mazzucco ha documentato le sue perplessità con un film di cinque ore, riportando le convinzioni di numerosi tecnici nel campo dell’ingegneria, della demolizione di edifici, di architetti, di fisici, di piloti di linea e quanti altri. Contro la teoria del complotto sostenuta da Mazzucco e dagli altri, si battono numerose altre personalità del mondo dell’informazione (giornalisti, scrittori, opinionisti), chiamate The Bunkers, attive ognuna nel proprio paese d’origine (come mai non mi meraviglio che in Italia, tra le loro file, ci siano Piero Angela e Umberto Eco?). Comunque, quello che davvero conta è che chiunque davvero volesse potrebbe tentare di farsi un’idea dei fatti o delle forze in gioco, chiunque potrebbe approfondire alcuni argomenti e cercare conferme o contraddizioni.
Ma la maggioranza delle persone comuni che, per chissà quale motivo, sentono il bisogno di prendere parte al decennale dibattito, quasi sempre partono da una ignoranza di fondo degli argomenti trattati e da inconsapevoli adesioni di parte che affondano le loro radici nella simpatia o nell’antipatia nei confronti della politica americana, nella convenienza personale, in motivi privati di amore o odio e così via. E come sempre, oramai, lo scontro usa l’ingiuria, l’offesa, la demolizione sistematica della credibilità professionale dell’altro.

- E poi ancora: “I cannabinoidi sconfiggono il cancro!” È quanto sostiene da anni la ricercatrice spagnola Christina Sanchez… e i suoi studi sono stati avallati dal dott. Vincenzo Di Marzo (direttore dell’Istituto di ricerca Biomolecolare del CNR), dal prof. Burkhard Hinz e altri numerosi studiosi di spicco. Per capire davvero come stanno le cose bisognerebbe fare una ricerca non da poco… troppo faticoso. Meglio schierarsi a prescindere della verità, basandosi sull’eco impressionistica (a favore o a sfavore) che il nome “Cannabis” evoca.
Vegani e Fruttiani - buon per loro - si stanno guadagnando un posto nel mercato alimentare. Gli onnivori se la ridono, adducendo considerazioni mediche di tutto rispetto e sano buon senso. Poi però eccedono non riuscendo a sostenere l’indifferenza ascetica degli altri nei confronti dell’attrazione, spesso irresistibile, che la buona tavola esercita su di loro. E montano la crociata del buon gusto contro la scipitezza dei loro nemici. Vegani e Fruttiani reagiscono e tentano addirittura di “dimostrare” la natura vegetariana dei grandi carnivori. Se non facesse ridere, tutta questa situazione dovrebbe far piangere.
Oriana Fallaci, dopo anni di silenzio, sconvolta dall’11 settembre, pubblica “La rabbia e l’orgoglio” in cui spara a zero sulla cultura islamica. Tiziano Terzani, un altro grandissimo giornalista italiano, le scrive una lettera aperta nella quale, con toni molto pacati, da grande estimatore della collega, le contesta alcune sue prese di posizione. La stessa cosa fa la scrittrice Dacia Maraini. Quanti profondi pensieri e motivi di riflessione in tutti loro. Quante verità ed errori in ognuno. E quanta fatica bisognerebbe fare per impossessarsi di un libero convincimento su un tema così ampio. Ma la campagna pubblica, come al solito, è fatta solo di invettive, insulti pesanti e menzogne la cui ragion d’essere è solo l’appartenenza aprioristica a uno schieramento o ad un altro.
La stessa campagna, in questi giorni, si è scatena sul sindaco di Roma Ignazio Marino. È un ingenuo, un inetto, un approfittatore o una vittima designata? Per capirlo davvero bisognerebbe essere addentro alle mille losche manovre di Mafia-Capitale. Bisognerebbe avere l’onestà di ammettere la propria ignoranza di fondo sui grandi giochi di potere e riconoscere di poter essere ingannati con estrema facilità. Chi è così onesto da farlo? Meglio schierarsi secondo i propri moti viscerali, alzare i pugni al cielo e gridare più forte degli altri.
Forza Roma!
Noooo… Forza Lazio!
Perché ormai siamo tutti alla stadio! In uno stadio virtuale, ma pur sempre uno stadio, dove si ama la propria squadra prima ancora di conoscerne e valutarne l’autentico valore. Dove le proprie frustrazioni vengono espresse e dissipate, scaricate sui gladiatori nell’arena del circo pubblico e così distratte dai Poteri Oscuri che, proprio grazie a questa babele così abilmente alimentata, continuano indisturbati nelle proprie iniquità.
È come se, oramai, si fosse del tutto persa o dimenticata quella profonda fiducia nel pensiero che da Socrate a Tommaso d’Aquino aveva sempre sostenuto le sfide dialettiche dell’uomo sulla ricerca della verità. Quella fiducia che portava gli sfidanti a considerare il peso e il valore della concatenazione di pensieri dell’avversario e a non emettere giudizi gratuiti sul tema da lui proposto solo sulla base della sua appartenenza a uno stato straniero, a una confessione religiosa o a un partito politico. Il nemico, poi, il vero nemico era la costruzione di pensiero dell’altro. Non l’altro, con la sua inevitabile, e perciò comprensibile, fallace umanità.

Adesso però, per non incorrere nello stesso errore che questo articolo vorrebbe denunciare, permettetemi di alzarmi in volo e guardare le cose dall’alto: forse tutta questa gazzarra si rivelerà fine a se stessa. Forse è solo l’inizio di quella degradazione finale verso la quale lo Spirito dei Nuovi Tempi vorrebbe condurci e verso la quale tutti noi ci stiamo precipitando gridando a squarciagola, con i pugni alzati e un sorriso beota dipinto sul volto.
Tuttavia c’è una speranza… è fioca fioca, come la luce emanata da uno striminzito fiammifero acceso al centro di una buia caverna. È appena un barlume… ma c’è.
La speranza è che questo impulso di autonomia, questo voler parlare per forza a proprio nome, usato e abusato finora in modalità così sguaiate, non sia che il primo vagito di quella ben più ampia facoltà di libero pensiero che, ci auguriamo, un giorno l’uomo potrebbe raggiungere. La speranza è che sempre più persone arrivino a provare disgusto per questa sarabanda di chiacchiere inutili e si rifiutino di ascoltarle e di generarle.
Basterebbe poco. Basterebbe che accettassero l’idea che non si nasce con la capacità di pensare acquisita una volta per tutte ma che, al contrario, tutti dobbiamo imparare a farlo, possibilmente prima di aprire bocca. Basterebbe riconoscere che il sano pensare è difficile e costa fatica, mentre rivestire di pensieri la propria animosità è molto, molto più semplice e gratificante. Peccato sia inutile.
Oltre a ciò, bisognerebbe trovare il coraggio di abbandonare qualunque partito preso, qualunque fideismo, per quanto nobile possa sembrare - materialismo, spiritualismo, comunismo, fascismo, cattolicesimo, buddhismo, islamismo o invece ateismo, pacifismo, razzismo, femminismo, maschilismo, perbenismo o nichilismo  - insomma,  basterebbe smettere di tifare per una squadra o per l’altra solo per partito preso e riconoscere che la verità è Un Essere in continuo movimento.

Già… La Verità è un Essere Vivente e, se Lo si vuole anche solo intravedere, bisogna che il nostro pensiero si muova alla sua stessa velocità, liberandosi da tutto ciò che vorrebbe invece imprigionarlo nei limiti di una qualsivoglia categoria.

venerdì 23 gennaio 2015

La Luce che venne dall'Oriente

Birmania



“Io che corro a perdifiato, con l’ansia che mi attanaglia il cuore, lo sguardo avido, proteso ad afferrare paesaggi umani o naturali ancora sconosciuti. Alle mie spalle il fronte della nube oscura avanza veloce e, presto, inevitabilmente, mi sorpasserà oscurando e uniformando tutto quello che ancora avrei potuto e voluto scoprire…”
Questo non è un sogno. Piuttosto è l’immagine simbolica della mia vita di viaggiatore alla ricerca di quel bene inestimabile e prezioso che è (anzi, che era) la Diversità: la diversità biologica e, soprattutto, quella culturale. La nube oscura che sta per raggiungermi rappresenta, invece, la modernità occidentale nei suoi aspetti più distorti, depravati e, per ciò stesso, invasivi. Ma come lessi nell’illuminato libro di un altro disperato viaggiatore, non c’è più un Altrove nel quale rifugiarsi. Il globalismo finanziario e mercantile ha vinto su tutti i fronti, almeno per ora, e presto della Diversità non resteranno che pallidi ricordi.
Godiamoci quel poco di luce che resta.

Yangoon è una capitale anonima: né bella né brutta, molto ampia ed estesa, buia di notte (per la mancanza di lampioni) e con un traffico automobilistico costantemente paralizzato e paralizzante. Se è vero che l’attuale governo aprirà le frontiere agli investitori stranieri, la città potrebbe essere destinata a modernizzarsi, come è accaduto  Bankog, Kuala Lampour, Seoul, e molte altre, perdendo così quasi tutto ciò che le caratterizzava.
Di prima mattina, dopo uno sguardo fugace alla Sule Paya, raggiungiamo a piedi la Botataung Paya. Dagli anni lontani in cui visitammo il Nepal, il Tibet, la Cambogia e la Tailandia, è la prima volta che rimettiamo i piedi in un tempio buddhista. La prima impressione è tiepida: l’architettura degli edifici che si bilancia a stento in un sincretismo tra quella indiana e quella cinese, gli specchi e gli specchietti decorativi, i colori brillanti degli intonaci, l’abbondanza della tinta oro, le statue colorate di grifoni dorati, serpenti, draghi, orchi, orchesse e esseri elementari (qui conosciuti come Nat), le decine e decine di piccoli Zedi (stupa) raccolte intorno ad un gigantesco pinnacolo centrale, è inevitabile che appaiano kitch ai nostri occhi europei. Tuttavia le centinaia di statue del Buddha, di tutte le misure e di tutti i materiali emanano un loro indiscutibile fascino. Magnifici, nella Botataung Paya, il corridoio d’oro zecchino finemente intarsiato e una gigantesca statua in bronzo del Buddha benedicente.

Ci colpisce poi l’intensità della devozione dei fedeli che ovunque si inginocchiano, pregano e versano acqua consacrata sulle effigi del Buddha predisposte a questo specifico rito.
La seconda visita della mattina è dedicata al padiglione di un’altra pagoda, la Chaukhtatgy Paya, sotto il cui tetto giace un’enorme statua del Buddha sdraiato.
Siamo fortunati… e arriviamo nel pieno di una cerimonia simbolica annuale nel corso della quale la popolazione birmana ritualizza la consueta offerta che ogni giorno viene fatta ai monaci: il padiglione rigurgita di fiori, frutta, riso e altro cibo cucinato. Curiosiamo in giro mischiandoci alla folla dei monaci e dei fedeli, scattiamo foto… e prendiamo definitivamente atto del fatto che ovunque, più che tollerati, siamo ben accolti. In un angolo appartato del padiglione con la videocamera riprendiamo un’artistica ricostruzione di tutte le innumerevoli vite del Buddha precedenti a quella nella quale, infine, raggiunse il Nirvana.
 




Quando finalmente usciamo chiediamo al nostro autista di portarci al grande mercato di Yangoon dove compriamo qualche souvenir e mangiamo qualcosa dei tipici cibi birmani.
Subito dopo il frugale pasto, nelle prime ore del pomeriggio entriamo nel parco del lago Kandaweyi e facciamo una pigra camminata sulla passerella lignea che lo circonda. Da lontano s’intravede la grande cupola dorata della Shwedagon Paya che – sappiamo - essere la più grande, la più bella e la più ricca di tutte le pagode birmane. La visiteremo verso il tramonto, come suggerito dalla guida, ma intanto, passeggiando, ci lasciamo tentare da un piccolo padiglione sacro eretto a bordo del lago. Anche qui piccoli Zedi, leoni alati, draghi e serpenti colorati, Nat, ieratiche statue del Principe Sachiamuni e curiosi servi e aiutanti delle varie divinità.
L’ora del tramonto si avvicina. Parcheggiamo l’auto vicino all’ingresso ovest della Shwedagon Paya e, dopo essere passati tra i due giganteschi leoni alati, saliamo le scale che ci porteranno alla grande terrazza basale. Quando finalmente arriviamo, rimaniamo folgorati: la terrazza – dal cui centro s’innalza il pinnacolo dorato centrale, la cui sommità è rivestita d’oro puro e tempestata di pietre preziose – è immensa. La sua circonferenza sarà pari al colonnato che il Bernini progettò per Roma, davanti a piazza San Pietro. E’ pavimentata di piastrelle bianche smaltate e, sul lato più esterno, rigurgita di piccoli stupa secondari, di tempietti e padiglioni sacri. Centinaia di statue di Siddarta Gotamo Buddha, di tutti i materiali e di tutte le dimensioni, si offrono all’adorazione dei fedeli. Il luogo è meraviglioso e merita la fama che lo contraddistingue.


Passeggiamo a lungo sulla terrazza, almeno finché il sole calante non tinge di rosa l’oro della cupola centrale, e cogliamo bellissime scene di ordinaria devozione al Buddha di questo dolcissimo popolo birmano.
Il giorno successivo, in un paio d’ore di auto raggiungiamo Bago. Visitiamo prima il grande tempio di Four Figures Paya costituito da quattro enormi statue del Buddha posti schiena contro schiena, assisi nella posizione del fiore di loto e rivolti ognuno verso un diverso punto cardinale. Quando usciamo ci fermiamo ad assaggiare uno sconosciuto frutto tropicale e, subito dopo, arriviamo ad un grande recinto sacro, all’aperto, dove giace un’altra enorme statua del Buddha sdraiato. Ci chiediamo come mai non sia protetta da alcuna tettoia e lasciata così esposta agli agenti atmosferici… ma non riusciamo a trovare una valida risposta. La soluzione ci si presenterà da sola alla visita successiva, dedicata a una pagoda che si presenta come una sorta di gigantesca piramide d’oro. Quattro rampe di scale si inerpicano sui suoi fianchi scoscesi e, in via del tutto eccezionale, agli uomini è concesso salire fino ad una considerevole altezza. Mi cimento nell’impresa e potete immaginare il mio stupore quando, lasciando vagare all’intorno il mio sguardo, vedo comparire in lontananza l’enorme statua del Buddha sdraiato che sembra fluttuare sopra gli alberi della giungla che lo circonda.

Davvero fantastico!
Scendo dalla pagoda e, tutti insieme, andiamo a visitare un altro singolare, piccolo tempio che avevo avvistato dall’alto. La struttura esterna è deliziosa, tutta in  pietra grezza finemente cesellata e decorata di statue. Ma l’interno riuscirà ancora una volta a stupirci: una foresta di colonne alte, lisce e dorate sostiene una volta al cui centro si erge una sorta di santuario dove quattro Buddha dorati, in piedi, si rivolgono verso i quattro punti cardinali. L’atmosfera è unica e anche nei giorni a venire non ne troveremo più una simile.
La giornata si conclude con la visita di una ennesima pagoda, la Shwethalyaung Paya, che nonostante presenti caratteri ed elementi suoi propri, non riesce a stupirci più di tanto.
Forse per questo, mentre torniamo in albergo, io e mia moglie ci chiediamo se in soli due giorni non abbiamo già raggiunto un punto di saturazione. Un apice di meraviglia e interesse oltre il quale difficilmente potremo riuscire ad andare. Le giornate sono state così piene, e così tanti sono stati i motivi di curiosità per elementi religiosi, artistici e culturali a noi del tutto estranei, che la paura di rimanere indifferenti nei prossimi giorni ci sembra legittima. Sarà tutto sempre e solo così?
In nessun precedente nostro viaggio avevamo avuto simili dubbi, ma, per fortuna, si dimostreranno del tutto infondati.
Il 23 dicembre, alle cinque del mattino, prendiamo il volo interno per Mandaly. Arriviamo verso le sei e trenta, distrutti dal sonno, ma l’autista che ci viene a prendere elude la nostra speranza di essere condotti all’albergo e ci conduce sulla strada verso Sagain, una piccola regione di territorio collinare dove sono raccolte decine di pagode. L’alba è sorta da poco e dal ponte sospeso sullo Ayeryarwady River ci appaiono le morbide forme delle colline che delimitano la sua riva occidentale. Su ogni altura una pagoda dorata o un tempio bianco e immacolato svettano sulla vegetazione sottostante composta di banani, tamarindi, palme da cocco e fiori colorati.


L’atmosfera lattiginosa del primo mattino e la quiete profonda del luogo ci tolgono il fiato.
Quando lasciamo il ponte andiamo a visitare un monastero di cui non ricordo il nome: sembra edificato a pianta circolare e caratterizzato da due cerchie murarie dove eleganti nicchie ospitano decine e decine di statue del Buddha raccolto in meditazione.
Siamo immersi nella natura, lontani da qualunque centro abitato. Fuori dal monastero solo alberi frondosi, fiori colorati e cielo azzurro. Tutto è pervaso da una grande pace.
Sta per accaderci qualcosa… ci sembra di avvertirlo con chiarezza.
Quando infine lasciamo il monastero, l’autista affronta una dura salita e ci deposita all’entrata di uno dei templi più famosi di Sagain. Saliamo delle lunghe scale e, alla fine, entriamo in una corte che sembra deserta. Alla nostra destra su un muro bianco, basso, disposto a mezza luna, ma lungo cento, centocinquanta metri, si aprono decine di piccoli archi impreziositi da temi decorativi verde brillante. Oltre il muro un lungo corridoio dove, ancora una volta, troviamo decine di statue del principe Gotamo Buddha seduto nella posizione del loto. L’atmosfera è sublime.
Dentro di noi si compie uno scatto. All’improvviso comprendiamo che la saturazione di immagini vissuta a Yangoon era una prova. Una sorta di soglia riuscendo a superare la quale l’anima avrebbe potuto avere accesso all’atmosfera sacrale che l’onnipresente effige del Buddha prima evoca, e poi amplifica, all’infinito, di rispecchiamento in rispecchiamento. Siamo entrati in una diversa dimensione. In essa il messaggio del Buddha e il suo serafico sorriso si rivelano per quello che sono: una vibrazione spirituale che compenetra ogni cosa. Una realtà dello spirito a cui il popolo birmano ha saputo aprire il cuore con autenticità e devozione. Alla fine intuiamo che l’ossessiva e solo apparentemente monotona ripetizione dell’immagine sacra del Buddha in meditazione nasconde una sua specifica funzione e un suo occulto significato.

In un qualche modo anche noi ci lasciamo rapire: finalmente lontani dal traffico caotico delle città e dalla folla che le abita, vaghiamo con calma da una pagoda all’altra e con gioia ci soffermiamo sulle infinite riproposizioni delle immagini sacre. Sempre coinvolti, interessati, curiosi, incantati…
Ma la Birmania è generosa e la giornata ci riserverà ben altre sorprese.
Subito dopo un frugale pasto, infatti, l’autista ci accompagna sull’argine sabbioso di uno dei tanti affluenti dell’Ayaryerwadi River e ci invita a salire sulla lancia a motore che fa da spola da una riva all’altra. Giungiamo sull’altra sponda, ci accordiamo con uno dei tanti vetturini locali in attesa e, con una carrozzella a cavallo, ci facciamo condurre tra i sentieri della piana dove, molti secoli addietro, sorgeva Inwa, antica capitale del regno. Ed ecco, tra una capanna solitaria o un misero villaggio su palafitte, ecco materializzarsi antichi stupa e templi semi-diroccati risalenti al XII° o XIII° secolo. Incontrarli così, abbandonati nella giungla, spesso divorati e quasi digeriti dal regno vegetale, ci regala intense emozioni. Molto “in piccolo”ci ricorda Angkor Vat, in Canbogia.
 Poi dal nulla, ecco comparire un antichissimo monastero buddista realizzato esclusivamente in legno di tek: al suo interno, una foresta di scure colonne arboree nasconde un piccolo altare e, ancora attiva, una scuola per giovanissimi futuri monaci.
La nostra carrozzella riprende il cammino, attraversa un magnifico bananeto, supera un passaggio tra antiche mura e si ferma infine davanti ad un enorme palazzo abbandonato, confinante con un gruppo di piccole pagode bianche e oro di raffinata eleganza architettonica.
La giornata è stata piena e soddisfacente, ma non è ancora finita: alle 17,30, prima di dirigerci verso l’hotel che abbiamo prenotato a Mandalay, facciamo in tempo a goderci uno spettacolare tramonto dal vecchio ponte in legno di tek che ad Amarapura attraversa il grande fiume.
La mattina del giorno successivo costeggiamo le mura dell’antico forte della vecchia città e saliamo al tempio di Mandalay Hill. Siamo fortunati, perché giunti alle porte della Kyauktawagyi Paya assistiamo alla coloratissima cerimonia con la quale le famiglie  birmane presentano al Buddha i bambini che, appunto con quella cerimonia, abbandoneranno la vita mondana e si faranno monaci. All’interno del Sancta Sanctorum della pagoda, un gigantesco Buddha d’oro è reso ancor più prezioso e quasi irriconoscibile dalle sottilissime scaglie d’oro che i fedeli, per devozione, usano incollarvi sopra. Sarebbe tutto perfetto se non avessimo oramai preso atto, definitivamente, che tutti i monaci sotto i quaranta, quarantacinque anni, posseggono e armeggiano con un Iphon o un Ipad di tutte le marche e dimensioni. Pensavamo fosse una moda presente solo nella capitale, ma ci sbagliavamo. Scopriremo che ovunque, anche nei monasteri più remoti, oramai è così! E in fin dei conti non è che sia un vero e proprio scandalo, ma certo è che mina alle fondamenta l’idea romantica del monaco che si è ritirato dal mondo e vive di elemosina per seguire una sua propria luce interiore. Anche loro fotografano, riprendono le scene più interessanti e le spediscono ai loro amici e parenti.















Come che sia… alla fine lasciamo Mandalay Hill e raggiungiamo di nuovo la riva del grande fiume: traghettiamo su un piccolo battello e raggiungiamo Mingun. Qui si trovano i resti di quello che, se fosse stato terminato, sarebbe stato il palazzo più grande del regno di Birmania. Un terremoto ne ha interrotto la costruzione, minandone le fondamenta. Ma dai centocinquanta metri del suo primo piano la vista sul fiume è superba. Quando scendiamo visitiamo la campana di bronzo più grande del mondo e, cosa di certo più interessante, la bellissima Pagoda bianca costruita a imitazione del Monte Meru. Poi, di corsa e affannati – come richiede il nostro destino di occidentali - torniamo al battello appena in tempo per goderci un ennesimo, splendido tramonto sul fiume.
Il 24 dicembre ci svegliamo ancora una volta prima dell’alba e ci rechiamo all’imbarcadero dal quale salperà il battello che, con dodici ore di navigazione sulle placide acque dello Ayaryerwadi River, aggirando centinaia di banchi di sabbia dovuti alla stagione secca, ci porterà alla mitica piana di Bagan. Il giorno di natale scorrerà piacevolmente tra mille esotici paesaggi. Arriveremo solo nel tardo pomeriggio, dopo il tramonto del sole… Appena in tempo per andare in albergo a dormire. L’indomani mattina, ancora una volta sveglia alle cinque, per andare a fotografare l’alba che spunta su una pianura che vanta ben 2500 pagode, costruite tutte tra il XI° e il XII° secolo. Lo spettacolo della luce del sole che gradualmente svela i segreti dell’immensa pianura, impreziosito dal volo di 30 mongolfiere, è a dir poco sublime.



Passiamo il resto di quella giornata e tutto il 26 dicembre a visitare quante più pagode possibili, scegliendo tra le più originali e meno affollate.
La sera ci sorprende sul terrazzo di una di quelle più defilate, insieme a pochi altri viaggiatori. Immobili e silenziosi, assistiamo al calare del sole tra le migliaia di guglie della piana di Bagan.
Ancora un sintomo dei danni prossimi a venire: sotto alcuni templi scorgiamo parcheggiati grossi autobus turistici. Quasi sempre sono torpedoni giapponesi. Perché anche qui, come in tante altre parti del mondo, compresa la nostra Europa, il Giappone ricatta i governi locali minacciando la sospensione o il blocco definitivo del loro ricco turismo qualora i propri autobus dovessero vedersi interdetto l’accesso ad alcuni scomodi siti. Inutile sottolineare l’orrore estetico di quegli enormi bus parcheggiati davanti agli ingressi di alcune delle pagode più famose.
Il 29 dicembre lasciamo Bagan e viaggiamo un giorno intero sulle strettissime strade, non sempre asfaltate, di questo meraviglioso paese. Occorreranno due giorni per coprire una distanza di 350, 400 km. Durante il primo giorno di viaggio visitiamo il celeberrimo tempio del Monte Popa, dedicato ai Nat (Esseri Elementari, Signori di vari elementi). Nonostante le nostre aspettative, la visita sarà deludente… migliaia di persone adoranti, “pupazzi” dal gusto discutibile (almeno per il nostro gusto occidentale) e un’architettura che più Kitch non si potrebbe ci spingono ad affrettare la partenza.
Nel corso della seconda mattina, invece, ci fermiamo a visitare le grotte di Pindaya, un cunicolo naturale che si immerge nel cuore della montagna per cinque o seicento metri, dove sono state ammassate più di 80000 statue del Buddha. Vista l’esperienza del giorno precedente, siamo indecisi se entrare o meno. Per fortuna alla fine ci lasciamo convincere, e viviamo così a una delle esperienze più pazzesche, e suggestive e commoventi di tutto il nostro viaggio. Per più di tre ore ci perdiamo in un dedalo di cunicoli naturali che la pietà dei birmani ha costipato fino all’inverosimile, ma pur sempre in un ordine artistico e ricercato, di statue piccole, medie e grandi realizzate in oro, argento, tek dipinto, ceramica, mattoni colorati, avorio e bronzo.


Quando finalmente ripartiamo da Pindaya, in poche ore raggiungiamo la meta finale del nostro viaggio: Inle Lake, il lago Inle, dove passeremo i nostri ultimi tre giorni di vacanza. La sera andiamo a dormire molto presto e la mattina del giorno successivo affittiamo una caratteristica piroga del luogo, a fondo piatto e albero motore orizzontale sull’acqua. Con quella, insieme a tanti altri turisti e viaggiatori che, come noi, si sono imbarcati su altre piroghe, lasciamo il porto, superiamo un lungo e stretto canale e alla fine usciamo sull’immensa superficie dell’Inle Lake. Prima ci dirigiamo verso il centro stesso del grande lago, per osservare il complicato metodo di remare dei pescatori del luogo… che, in pratica, stanno in piedi sulla prua dell’imbarcazione e, per avere il libero utilizzo di entrambe le mani, incastrano un remo tra l’ascella, l’anca e la caviglia del piede e, con un movimento serpentino, ottengono la vogata necessaria per far procedere la barca.


Quando il nostro stupore si placa, riprendiamo a navigare, accostiamo la riva occidentale del lago e ci inoltriamo in sinuosi canali per visitare alcuni dei villaggi galleggianti che animano le paludi che lo delimitano. In uno si fabbrica quello stesso tipo di piroghe in tek sul quale noi stiamo navigando, in un altro si tesse la seta e il filo di loto, in un altro ancora si producono originali sigari al tabacco dolce mentre, nell’ultimo, troviamo al tornio alcune donne Padaung, meglio conosciute con il nome di “donne giraffa”. 

Per piacere agli uomini della propria etnia queste donne, fin da bambine, vengono educate ad inanellare sul proprio collo stretti cerchi di bronzo dorato. Uno sopra e dopo l’altro, progressivamente nel tempo. Così facendo, i cuscinetti intervertebrali delle cervicali si allungano e i muscoli si atrofizzano. Dopo una certa età nessuna di loro potrebbe più vivere senza quei pesantissimi collari (circa otto chili), perché il loro collo si spezzerebbe e loro morirebbero.
Un altro mirabile esempio della follia dell’immaginario erotico maschile, che fa il paio con i piedini deformati delle geishe giapponesi, delle labbra tagliate e deformate dai piattelli labiali delle donne mursi e dal burka delle donne dei fondamentalisti islamici.



Di canale in canale, costeggiando mirabili orti galleggianti, alla fine raggiungiamo Inthein, all’estremo sud-ovest del lago. Dietro la piazza del mercato parte una lunga scalinata che si inerpica su una lussureggiante collina; ma a metà strada la vegetazione si dirada per lasciare spazio a una foresta di… antichissimi Zedi (stupa) edificati intorno al XVII° secolo. La maggior parte è in rovina e, come al solito, ostentano il fascino irresistibile del tempo; tuttavia, verso la cima, molti dei restanti 1000 Zedi sono stati restaurati e si impongono con la loro perfezione stilistica e la varietà dei colori: oro, bianco, grigio e arancione scuro.
Verso l’ora del tramonto scendiamo e torniamo alla piroga: occorrerà più di un’ora e mezza per tornare al porto dal quale siamo partiti.
Il terzo e ultimo giorno, infine, con tre biciclette prese a nolo, gironzoliamo per la campagna circostante e riusciamo a catturare bellissime immagini di una civiltà rurale che entro pochi anni sarà destinata a scomparire per sempre, inghiottita dal globalismo del modernismo occidentale. Molte capanne su palafitte, infatti, ostentano l’antenna parabolica: quanto tempo occorrerà prima che la “TV spazzatura” proveniente da tutto il resto del mondo riesca a corrompere l’animo gentile, aperto e fiducioso di un popolo che neanche il pugno di ferro della più feroce dittatura è riuscita a mutare? Non a caso, sia a Yangoon, che in tutte le altre cittadine dove abbiamo soggiornato, qua e là già circolavano adolescenti con i capelli colorati di giallo, creste da moicano e vistosi tatuaggi sulle braccia.

Non c’è nulla da fare… E’ solo questione di pochi anni e la nube oscura di cui accennavo nelle prime righe mi avrà raggiunto e sorpassato, distruggendo qualunque ultimo accenno di diversità e originalità.