domenica 3 ottobre 2010

Psicologia di Città


Le città hanno un’anima?
E se sì, potrebbe uno psicologo descriverne i tratti salienti, le forze dinamiche operanti, il carattere, le doti, le potenzialità o le inconsapevoli nevrosi?
Molti grandi scrittori hanno descritto poeticamente questa o quella città, riversando in tali descrizioni tutta la loro arte; ma il primo che l’abbia fatto con un atteggiamento scientifico – applicandovi la propria teoria della “Metafisica della Qualità” – è stato Robert Pirsig nel suo secondo, straordinario libro: “Lila”.
Passando per altre esperienze e altri percorsi conoscitivi, io ero già pervenuto in maniera autonoma a convincimenti filosofici molto simili a quelli di Pirsig per cui, dopo aver letto Laila, trovai elegante usare la  sua Metafisica della Qualità come teoria di riferimento.
Rimandando volentieri il lettore interessato alla lettura del suo libro, mi basterà qui solo accennare come, secondo tale concezione, l’intero universo si dispiegherebbe in un’alternarsi continuo di Valori - ora statici, ora dinamici - tendenti verso la Qualità Assoluta. E come, in una metafisica così concepita, molti aspetti della realtà potrebbero essere riconosciuti Enti a tutti gli effetti, individualità metafisiche vere e proprie aventi un progetto esistenziale più o meno riconoscibile.
Perciò, secondo questa concezione scientifico-filosofica, le città del mondo possederebbero uno spirito del tutto originale, indipendente e autonomo dagli uomini che le hanno fondate e da tutti quelli che ancora le vivono. Le città potrebbero essere “immaginate” come Esseri, Organismi di Valore a se stanti, che una sensibilità acuta potrebbe sforzarsi di cogliere nella loro più profonda essenza.
Nell’esercizio quotidiano del mio lavoro di psicanalista mi sono sempre ritenuto attento, sensibile e intuitivo.  Perciò è su queste doti che cercherò di fondarmi nel dare vita a questa rubrica nella quale, prendendo spunto dai miei numerosi viaggi, cercherò di “dipingere” l’anima delle città che hanno maggiormente colpito la mia fantasia.
Per omaggio a R. Pirsig (al quale mi sono ispirato) inizierò questa rubrica con New York.
New York: il Gigante
Eccola qui, davanti ai nostri occhi, distesa tra la riva sinistra e la riva destra dell’Hudson River: New York! The Big Apple. L’Ombelico del Mondo. Il cuore pulsante della civiltà moderna contemporanea, come un tempo oramai lontanissimo lo furono Babilonia, Tebe, Atene, Roma e poi poche altre, in un susseguirsi di mutamenti epocali che hanno scandito la storia umana.
New York. La più prestigiosa ed influente città degli Stati Uniti d’America, la quale però – come amici e nemici si sono preoccupati di sottolineare – non è propriamente americana. Non rappresenta l’America. New York è solo New York. Una città unica al mondo, la cui anima è il risultato dell’inimmaginabile coesistenza e sovrapposizione delle più diverse etnie. Qui convivono, infatti, non senza mai combinarsi e intrecciarsi tra loro, cinesi e africani, messicani e italiani, portoricani e irlandesi, ucraini, inglesi, polacchi e quanti altri, tutti insieme partecipi della creazione di quella singolarissima umanità di cui questa città è dimora.
Oggi è il nostro penultimo giorno di permanenza, e siamo qui seduti su una delle famose panchine dalle quali si può ammirare l’altrettanto famoso skyline della città. L’impressione è forte, intensa, come se sull’immagine paesaggistico-architettonica – già di per sé suggestiva quanto basta – cumulassero tutte le sensazioni e le emozioni vissute in questi nove giorni di permanenza. Stati d’animo così intensi che, pur volendo parteciparli, rendono difficile una scelta cronologica di merito. Dove cominciare? Quale impressione scegliere per prima tra le tante sperimentate? Difficile prediligerne una a discapito di un’altra. Volendo tuttavia costringermi, allora direi quella dell’impatto surreale del primo giorno quando, provenendo dal Columbus Circle, dopo aver attraversato una foresta di grattacieli della più eterogenea fattura - tra le cui radici occhieggiavano inattese facciate di piccole chiese gotiche – l’autobus turistico scoperto ci precipitò nel delirio inenarrabile di Times Square.
Indescrivibile a parole – almeno per le mie capacità – perché dovrei essere in grado di rendere non solo l’impressionante gioco di equilibri delle linee architettoniche verticali ed orizzontali ma, con- temporaneamente, anche quello derivante dalle decine e decine di immagini pubblicitarie in movimento, coloratissime, che si susseguivano e si sovrapponevano sulle facciate dei grattacieli trasformate in giganteschi video al plasma. E, parallelamente, dovrei saper rendere il fluire lentissimo dei taxi gialli tra l’immensa folla vociante di turisti e residenti, e l’ululato singhiozzante delle sirene dei vigili del fuoco o delle ambulanze che, noncuranti delle difficoltà, fendevano quel mare di umanità e mezzi meccanici con perizia e convinzione.
Come si potrà ben immaginare, fummo travolti in pochi secondi: sorpresi, increduli, affascinati, stupiti. Inconsapevolmente partecipi del quadro vivente che stavamo contemplando.
Tuttavia New York non è solo grattacieli. Deliziosi sono anche tutti quei quartieri le cui abitazioni  risalgono ai primi del ‘900 o, comunque, riecheggiano l’architettura liberty, con il portone d’ingresso posto alla sommità di quelle mini-gradinate con balaustre a cui il cinema americano ci ha da tempo abituato, e le facciate “a cortina” solcate dalle scalette metalliche anti-incendio che qui sembrano essere un obbligo edilizio. E poi ancora chiese su chiese, quasi tutte in stile gotico o romanico, ovviamente “false” ma immerse in piccoli, deliziosi, ombreggiati parchi il cui verde brillante sembra tenere a debita distanza tutti gli altri palazzi. Avenue ampie, dritte e lunghissime. Street più contenute nelle proporzioni, di solito ombreggiate e meno trafficate. Tombini da cui esce perennemente del fumo, sempre come nella migliore tradizione cinematografica. Piazze ampie, solari. Monumenti sconcertanti che vanno dallo stile vittoriano classico al più bizzarro iper-modernismo. E poi le banche più prestigiose, i negozi con i marchi più esclusivi e quelli invece più economici e a buon mercato, migliaia di piccoli e grandi ristoranti per tutte le cucine possibili del mondo, Grand’Hotel di lusso e hotel più popolari, teatri più o meno famosi, bar alla moda, immensi garage sotterranei, piccolissimi parchi pubblici e - dulcis in fundo - il vero e proprio polmone verde della città: Central Park, inimmaginabile senza i newyorkesi che vanno in bicicletta, corrono a piedi, pattinano, giocano a base-ball, o passeggiano con il cane tenuto al guinzaglio. Dalla terrazza sommitale dell’Empire State Building, oltre alla vista sullo strepitoso panorama di guglie e terrazze, si può  ascoltare il “suono” o “la voce” della città: un palpitare sommesso, pulsante ma continuativo, quasi un respiro… il respiro del Gigante.
È stato Robert Pirsig a chiamare New York  “il Gigante”, nel secondo degli unici due libri da lui scritti in una intera vita di riflessioni. In questo secondo romanzo-filosofico - intitolato “Lila”, e che se fosse per me salverei per primo da una ipotetica catastrofe mondiale se dovessi scegliere solo cinque libri tra tutti quelli mai scritti – in questo secondo romanzo, dicevo, nel capitolo 17 si può trovare una delle descrizioni più belle dello spirito proprio di questa città:
“Ma certo! Bastava guardarla! Dio, la forza che aveva! Straordinaria! Quale opera d’arte individuale avrebbe mai potuto eguagliarla? Oh, si: è sporca. Rumorosa, scostante, violenta, costosa. Lo è sempre stata e sempre lo sarà. L’anticamera dell’inferno, se cerchi la stabilità e la pace  ma se cerchi queste cose, non venire a New York, vai in un cimitero! Questo è il posto più dinamico al mondo! […] La velocità, l’altezza, le folle e la loro tensione […] Un pugno nello stomaco. Vedi di continuo cose che niente ti ha preparato a vedere. Prendi il contrasto tra ricchezza e povertà […] Il diavolo si porta via gli ultimi della fila, sotto i tuoi occhi, e poco più in là, ad un passo dai pezzenti, ecco i primi della fila, con chauffeur e limousine. Che sballo! Mai fermarsi, mai perdere il ritmo!” "La metafisica sostanzialistica impedisce di scorgere il Gigante. Perché ti abitua a pensare che una città come New York sia opera dell'uomo. Ma quale uomo, o quale gruppo di uomini, l'ha inventata? Chi si è messo a tavolino a sistemare tutti i pezzi? Immaginiamoci due globuli rossi seduti uno accanto all'altro che si chiedono: "Si arriverà mai a una forma di evoluzione superiore alla nostra?" e che, guardandosi attorno e non vedendo niente, concludono che no, loro sono il massimo; ecco non è forse altrettanto grottesca l'idea di due esseri umani che, passeggiando per Manhattan, si chiedono se esisterà mai una forma di evoluzione superiore all'uomo, intendendo l'uomo biologico? L'uomo biologico non inventa le città e le società, così come maiali e polli non inventano il contadino che dà loro da mangiare. La forza creativa dell'evoluzione non è contenuta nella sostanza. La sostanza è solo una delle configurazioni statiche lasciate come residuo dalla forza creativa". "Anche New York è una configurazione statica che la forza dell'evoluzione si è lasciata indietro. E' fatta di sostanza, ma non è stata fatta dalla sostanza. E nemmeno dall'organismo biologico che chiamiamo uomo". "Questa città era un insieme di sistemi estremamente complicato... La forza che teneva insieme tutti quei sistemi: ecco cos'era il Gigante".
 E i cittadini newyorkesi, chi più chi meno, sembrano tutti consapevoli della straordinarietà da loro stessi rappresentata. Basta fermarsi ad osservarli – come ho potuto fare io, in tutta comodità, seduto su uno dei tanti idranti o su qualche muretto, mentre le “mie donne” impazzivano all’interno dei magazzini M’aesis o di Victoria’s Secret – per farsi una idea più che approssimativa della loro singolarità. Ogni sosta era una sorpresa. Come quando mi vidi passare a fianco il vecchietto centenario, depositato su una sedia a rotelle guidata da una nera rubiconda: in testa, l’omino aveva un berretto da base-ball giallo canarino; addosso un giubbetto dello stesso colore. Sulle gambe un plaid giallo; e ai piedi delle scarpe da ginnastica giallo shocking. Chi poteva averlo conciato in una maniera così assurda e graziosa nello stesso tempo? E a quale scopo? Difficile immaginarlo. Ma indubbiamente, lì, sui marciapiedi di New York, era un vero spettacolo! Passa qualche secondo, ed ecco un signore dall’aria distintissima, vestito con giacca e cravatta, scivolare tra la folla con… i pattini a rotelle ai piedi, mentre parla compassato nel proprio iPhon. E poi ecco le due donne indiane, accuratamente avvolte nei loro tradizionali shari di seta, con tanto di “terzo occhio” in rosso dipinto sulla fronte, sedute da M’c Donald’s di fronte ad una montagna di hamburger e patatine fritte affogate nella maionese. Per non parlare poi dell’attempato signore scozzese che, in pieno pomeriggio, passeggiava come se nulla fosse in kilt, calzettoni bianchi e berrettino tipico. O del giovane gay, bellissimo – bisogna riconoscerlo – che su un paio di bermuda bianchi portava un golf azzurro cielo tutto strappato e pieno di vistosi buchi, che gli conferiva una sorta di eleganza sui generis difficilmente contestabile.
Una fiumana di gente in movimento! Uomini e donne di tutte le razze e di tutte le religioni, apparentemente molto indaffarati, in tutti i quartieri della città, a qualunque ora, perché – come ci confidò il barman di un bar lillipuziano dove si poteva gustare dell’autentico “caffè all’italiana” – New York non dorme mai. Semmai rallenta appena un poco il ritmo frenetico della vita che qui pulsa e sussulta come da nessun’altra parte al mondo. Non sono mai stato a Tokio, o nella moderna Pechino, o in nessuna delle tante nuove città dell’oriente iper-teconologico che stanno bussando alle porte della storia, ma non credo che potranno mai contendere con questa città. Non fosse altro che per una questione di stile. Nella sua bizzarria, infatti, New York ha una classe che le altre non potranno mai avere! Perché se anche è vero che questa città non ha alle spalle una “Storia” o una tradizione culturale come quella che caratterizza la stragrande maggioranza delle città europee, è però anche vero che qui hanno vissuto, lavorato ed espresso il proprio genio i più grandi artisti e intellettuali dell’ultimo secolo: urbanisti, architetti, pittori, scultori, musicisti, scrittori, attori, registi, ballerini e fotografi. Tutti impegnati e partecipi a fare di questa città qualcosa di unico al mondo. Credo che qui si nasconda il suo fascino: in questa atmosfera ricercata e trascurata nello stesso tempo, superficiale e snob, leggera ed intensa, moderna, frivola, sconveniente e nello stesso tempo vecchia,  austera e un po’ beghina. Una città dove tutto sembra possibile ma niente è mai davvero difforme, dove il contrasto, l’atipico, l’asimmetrico e l’imprevedibile non sono fuori norma, bensì la norma rigida cui tutto si adegua. Rendendo ogni cosa mutevole, discontinua, sfacciata, bizzarra e, tuttavia, stranamente equilibrata.
Pregevole testimonianza di quanto affermo la presenza in città di alcuni dei musei più interessanti al mondo: il Metropolitan, il Moma, il Museo delle scienze naturali, il Gougheneim e il Museo della scienza e della tecnica con il suo fantastico planetario. Scusate se è poco…
Nove giorni sono pochi per penetrare l’anima di una città. Ma intuitivamente direi che è l’ambivalenza il suo tratto più caratteristico: come se fosse affetta da un bipolarismo cronico. Da una sorta di distimia umorale anomala all'interno della quale le fasi alterne non si succedono nel tempo, bensì coesistono. Uno strato sotto l’altro. Forse per questo, a New York, si ha come l’impressione che il caos sia ordinato, che il frenetico sia tranquillo, che la violenza non esista, che la povertà sia relativa e che l’assurdo sia ordinario. Insomma: come se lo squilibrio avesse un suo misterioso equilibrio interiore.
Una mia amica, grande viaggiatrice in solitaria che ha visitato quasi tutto il mondo conosciuto, è tornata da pochi giorni dal Giappone: quando l’ho incontrata sembrava appena uscita da un trip di coca. Le pupille dilatate, lo sguardo perso nel nulla, l’incredulità nella propria memoria:
- Un viaggio nel viaggio – mi ha confidato – un’esperienza unica ai confini della realtà. Una moltitudine di esseri anonimi che potrebbero calpestarti senza nemmeno registrare la tua presenza. Città futuristiche e altrettanto anonime, dove si aprono improvvise sacche di rigurgiti medioevali. Un incubo! Un mondo fuori dal mondo. Qualcosa davvero diverso da tutto ciò che altrove sarebbe possibile sperimentare. Un’esperienza da vivere prima o poi.
Non posso sapere se le cose stiano davvero così, o se la mia amica invece è impazzita… ma certo è che New York non prenderà mai quella direzione e, se ciò che rappresenta oggi l’Oriente moderno e tecnologico è l’accenno di un prossimo futuro, forse allora New York rappresenterà in quel futuro ciò che oggi, per lei, rappresentano Roma, Parigi, Londra o Berlino. Città abitate da uomini che lottano per mantenere viva e integra la propria umanità.

venerdì 1 ottobre 2010

Rubrica di storie cliniche


I segreti della bellezza


Ero un giovane terapeuta con 7 o 8 anni di attività alle spalle. Avevo ancora moltissimo da imparare. La psicologia del profondo catalizzava tutti i miei entusiasmi. Studiavo ancora con fervore e seguivo tutti i seminari che mi sembravano interessanti, ma ciò che davvero mi arricchiva e mi plasmava erano le storie che ogni giorno mi occorreva di ascoltare.
Quando aprii la porta alla nuova paziente che solo due giorni prima mi aveva chiamato al telefono rimasi folgorato: Maria Rossi era una giovane donna di 29 anni di una bellezza inusitata. Come se non bastasse era il mese di maggio. Uno di quei mesi nei quali a Roma si poteva già morire dal caldo… e Maria indossava perciò uno straccetto corto e leggero che esaltava le forme del suo corpo lasciando generosamente scoperte le gambe. Sembrava una modella appena uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda.
Mentre si accomodava ricordo di aver pensato:
- Dio mio, quant’è bella! Cosa mai potrà volere da me?
Provate perciò ad immaginare il mio stupore quando Maria esordì dicendo:
- Sono disperata, dottore. Mi sento una sbandata… non ho alcuna stima o fiducia in me stessa. Non so cosa voglio. E poi non mi piaccio… non piaccio a nessuno. Nessuno mi trova interessante. Stavo anche pensando alla chirurgia estetica. Forse… se avessi il naso più piccolo… o il seno più abbondante… i capelli neri… o se fossi più alta.
Me lo diceva così. Con semplicità ma anche con disperazione, mentre mi guardava con quei suoi occhi azzurri che le lacrime rendevano scintillanti come preziose acquemarine. L’ovale perfetto del viso, il naso piccolino, le labbra piene e carnose, i capelli castano-chiari che le scendevano a onde sulle spalle. E un corpo da urlo…
Non so come feci a rimanere impassibile e, anziché contraddirla (sarebbe stato un errore madornale da parte di un terapeuta), avallare la sua angoscia proponendole però, nel contempo, di raccontarmi la propria storia. La quale, bisogna riconoscerlo, in fondo era da manuale psicologico. Figlia unica di una donna totalmente succube del proprio marito, Maria era cresciuta in un ambiente povero di affettività e di attenzioni. La madre costantemente impegnata a soddisfare  le capricciose aspettative del marito, ovviamente senza mai potervi riuscire. Il padre per lo più assente o distratto. E, comunque, con una manifesta predilezione per tutte le altre donne del mondo, che non mancava mai di elogiare ed apprezzare enfaticamente anche di fronte alla figlia.
I tradimenti – ricordava Maria – erano all’ordine del giorno. E, di conseguenza, i pianti disperati della madre. E i litigi, le parole pesanti, le urla. Sovente anche schiaffi ed insulti. Poi le fughe più o meno durature del padre e, in concomitanza di quelle, gli stati depressivi della madre.
Maria era cresciuta così, senza alcuna considerazione da parte del mondo degli adulti significativi intorno a lei e, volendo usare una delle più belle metafore eziopatologiche coniata dal nostro psichiatra Luigi Cancrini, gli “specchi” nei quali Maria, da bambina, aveva cercato di mettere a fuoco la propria immagine erano risultati sporchi, opachi, privi di luce. Inadeguati a farle prendere coscienza di sé. Come conseguenza di ciò la bambina si era ripiegata su se stessa, schiacciata da una umiliazione profonda che né la scuola prima, né il mondo del lavoro dopo, erano riusciti a scalzare. Nel momento in cui la conobbi, Maria, dopo aver interrotto anzitempo gli studi universitari, lavorava come magazziniera in un supermercato e le sue massime prospettive erano quelle di poter divenire un giorno cassiera in quella stessa struttura commerciale.
Come ho accennato all’inizio, il caso di Maria potrebbe essere considerato banale ed esemplare nello stesso tempo: da una parte per l’apparente, schiacciante obbligatorietà delle dinamiche psichiche di base; dall’altro per la loro stessa relatività che – nel caso specifico – neanche una risorsa così evidente (la bellezza di Maria) era riuscita a debellare.
Proverò a spiegarmi meglio. Ogni volta che ascolto una storia, cerco di difendermi in tutti i modi dalla tentazione di cadere in una concezione deterministica (o causale) del destino umano. Questo perché solo una psicologia di basso profilo può illudersi che, date certe condizioni, inevitabilmente si manifesteranno specifici risultati. In realtà le cose non sono mai così semplici: solo nel mondo dell’inorganico applicando una determinata forza ad un oggetto, quello si sposterà con una velocità e in una direzione prevedibili e misurabili. Nel regno del vivente, al contrario, e soprattutto nel mondo umano, a dispetto di tutti i tentativi di riduttivismo psicologico, i risultati non sono mai scontati né tanto meno prevedibili. Una madre ansiosa e possessiva – tanto per fare un esempio - può condizionare la vita di un figlio e renderlo passivo e dipendente. Così come, per reazione, lo stesso figlio potrebbe risultare spericolato e ribelle. E tra questi due estremi si potrebbero avere tutte le gradazioni possibili immaginabili. Questo perché, a differenza del mondo inorganico, in quello umano entrano in gioco una tale quantità di variabili indipendenti (caratteri fisici e psicologici ereditari, talenti, facoltà, occasioni, fortuna e sfortuna) che in pratica, date certe condizioni, è comunque sempre impossibile prevedere cosa da queste si determinerà. Perciò, quando da un punto di vista psicologico viene ricostruita una anamnesi e vengono rintracciati i motivi che in un uomo o una donna hanno prodotto certi risultati, ci si dovrebbe sempre ricordare che in questo modo è stato descritto il “come” i sintomi si sono sviluppati e non il loro “perché”. Vengono descritte le relazioni che, in quello specifico caso, hanno giocato a favore di uno sviluppo negativo, non già le “leggi” inderogabili che hanno governato quello stesso destino.
Non a caso, nel mio lavoro, ho sempre incontrato tante persone che in condizioni tremende di vita, tutto sommato, se la sono cavata abbastanza bene, quante ne ho incontrate che, invece, hanno ceduto del tutto, sviluppando sintomi aberranti. Così come ho incontrato persone che da frustrazioni minime e offese risibili, hanno sviluppato invece sintomi devastanti.
Per questo il caso di Maria era stupefacente: da una parte erano evidenti gli eventi e le circostanze che avevano danneggiato il suo sviluppo psicologico ed umiliato la sua immagine di giovane donna. Dall’altro, era altrettanto evidente come neanche un dono così prezioso come la bellezza fosse riuscito a risarcire Maria delle attenzioni e dell’amore mancati. Quella giovane, splendida donna se ne andava in giro per il mondo circonfusa da un alone di melanconia e di tristezza così cupo, spesso e denso da tenere chiunque a debita distanza.
Di fatto Maria, anche da adulta, non aveva avuto grandi storie di amore… pochissimi ragazzi avevano mostrato un autentico interesse per lei (al di là di scontati capricci sessuali) e, in quegli ultimi anni, si trascinava all’interno di una squallida storia triangolare con un uomo sposato che se la portava a letto quattro o cinque volte al mese senza prometterle più di tanto.
Ascoltarla, in quelle prime ore del nostro rapporto terapeutico, fu per me sconvolgente: toccavo con mano e osservavo con gli occhi come nessun potenziale, nessuna ricchezza, se non sostenuta dall’interno, avesse il potere di rendere felice e soddisfatto l’essere umano. So bene che questa è una verità scomoda: così come la maggior parte delle persone è convinta che le basterebbe avere a disposizione una grossa somma di denaro per essere davvero appagata, allo stesso modo la maggior parte delle donne potrebbe essere tentata di credere che le basterebbe avere anche soltanto la metà della bellezza di Maria per sentirsi soddisfatta. Senza comprendere che in mancanza di una sana centralità dell’Io, né la bellezza per le donne, né la ricchezza per tutti gli altri, potrebbero mai essere garanzie di pienezza e felicità.
In quegli stessi mesi veniva da me, in terapia, un’altra giovane donna, coetanea di Maria. Una donna verso la quale madre natura non era stata troppo generosa ma, anzi… decisamente avara. Bene! Quella donna era la simpatia in persona: intelligente, colta, brillante, estroversa, traboccante di gioia e di vita. Contrariamente a qualunque facile aspettativa dipendente dal proprio aspetto fisico, in pratica, con gli uomini, “non sapeva a chi dare i resti”. Se era venuta da me, era appunto per comprendere meglio i propri sentimenti e, stanca di cumulare sempre nuove esperienze e liberi incontri, avere la certezza di scegliere con autenticità tra quanti le dichiaravano il proprio incondizionato amore. Perché, contrariamente a ciò che accadeva a Maria, nessuno si accontentava di avere con lei rapporti sporadici e in molti avrebbero voluto sposarla.
Fu necessario un lunghissimo rapporto terapeutico per rinforzare, almeno in parte, l’Io  profondo di Maria. Un rapporto nel quale il sostegno affettivo nel transfert giocò un ruolo determinante. Da parte mia ebbi l’occasione di fare un’esperienza che mi cambiò radicalmente: da allora, infatti, non mi sognai neanche più di dubitare del fatto che nulla, assolutamente nulla, né denaro, né potere, né salute, né bellezza, potrà mai sostituire la centralità dell’Io o, se vogliamo usare un altro termine, l’autentica coscienza di sé. Questa componente fondamentale dello spirito dell’uomo in massima parte dipende dai “modelli” che, nascendo e poi sviluppando, egli ha potuto avere sotto gli occhi. Secondo, da una sana educazione affettiva, capace di “rispecchiarlo” nei suoi valori spirituali assoluti e non dipendenti da “beni” aleatori. Terzo, infine, da impulsi di centroversione innati (E. Neumann) che sfruttando doti, capacità, talenti e inclinazioni naturali sono in grado, a volte, di sopperire alle carenze educazionali di cui sopra.
Rimane comunque il fatto che, senza un solida immagine del proprio valore esistenziale, nessun uomo e nessuna donna può vivere soddisfacentemente. Semmai può sopravvivere, quali che siano i surrogati ai quali tenterà di ancorare la propria individualità.