giovedì 19 marzo 2020



Io e la Morte, oggi…


Anche a voler cercare con cura le parole con le quali esprimere il mio pensiero, devo ammettere di percepire una sorta di profondo timore. Ma non tanto per la situazione di pericolo infettivo che tutti stiamo vivendo, bensì per la perdita della più elementare calma o tranquillità interiore con cui esaminare i fatti (o meglio i “Dati”) che si sovrappongono e che, a voler essere corretti, meriterebbero una più attenta riflessione. Quella tranquillità imparziale che ci permetterebbe davvero di dialogare, e non di scagliarci l’uno contro l’altro, ognuno a difesa della propria piccola verità assoluta, quella calma interiore – dicevo - non c’è, non esiste nell’animo della maggior parte delle persone. Al suo posto c’è una aggressività rabbiosa le cui radici affondano in dinamiche fin troppo evidenti per chi sappia contemplare la complessa realtà della vita dell’anima umana.
Perché nonostante nessuno voglia negare l’incombere di una patologia da infezione che sembra interessare la maggior parte dei paesi compresi in una determinata fascia climatica del nostro pianeta, ci sarebbe però da valutare con molta, anzi moltissima, attenzione se i dati che costantemente vengono forniti siano tutti corretti, oppure manipolati, sovrapposti, amplificati se non addirittura distorti.
Siamo di fronte alla più grande pandemia della storia moderna o al più grande inganno che mai mente umana (o diabolica?) potesse partorire?
Questo articoletto non vuole entrare nel merito della questione, perché chi scrive sa bene che anche soltanto aver accennato a questo plausibile sospetto sarà motivo di ire funeste, da una parte o dall’altra. Come più volte ebbe a ricordare Rudolf Steiner, l’uomo moderno sembra incapace di convivere con “le domande”…  se una perplessità o un dubbio gli si manifestano, egli subito esige una risposta. Non importa se essa poi si dimostrerà infondata, l’importante è averla ora! Adesso! Subito! E guai a chi osasse metterla in discussione.
Perciò lascio volentieri la questione alla libera iniziativa di ognuno. Su Internet, o sui giornali, sulla TV o altrove è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
Che ognuno si faccia l’idea che crede.

Ma anche per quello che potrebbe riguardare le cause ultime di questo stato delle cose lascio ad altri la parola, preferendo, semmai, allinearmi con i pensieri espressi dal giornalista e mio buon amico Piero Cammerinesi nel suo più recente articolo su questo stesso tema e di cui allego il link: https://liberopensare.com/io-e-il-coronavirus/?fbclid=IwAR105mVcHDX_i-CFf4nNIBDrkRsSwGJRm9bbd1QY_Fl0dQlfn0ENyReXRXE
Nell’articolo, mi si voglia perdonare l’estrema sintesi, il giornalista riconduce la presupposta pandemia che tutti stiamo subendo a una significativa perdita di autentici valori spirituali, abdicati a favore di una visione materialistica dell’universo e della vita di tutti noi uomini. L’analisi condotta nell’articolo mi sembra esaustiva e mi soddisfa.
Ma allora cos’altro ho da aggiungere? Questo: io sono convinto, e oramai da molto tempo, che la situazione descritta nell’articolo sia stata originata, ma nello stesso tempo continui ad alimentare come in un furioso e infernale feed-back, dalla smisurata, profondissima, cieca e stolta paura della morte che alberga nell’anima della maggior parte delle persone di questa sciagurata civiltà moderna occidentale. Una civiltà che, chiudendo gli occhi su quanto di terribile avveniva in altre realtà limitrofe (basterebbe pensare al Medio Oriente e a tutti i suoi orrori) ha pasciuto sé stessa nell’illusione di aver scongiurato ogni guerra, ogni malattia, ogni dolore e di aver diritto, perciò, a godere pienamente della vita senza doversi mai chiedere quale fosse il senso ultimo della propria avventura su questo piccolo mondo.
Ribadisco che queste mie parole sono antiche, e non scaturite da una qualsivoglia reazione al pericolo che ora tutti stiamo correndo. La mia ricerca interiore, infatti, è iniziata quando avevo solo quindici anni, propiziata da un drammatico evento luttuoso. Poi, però, ho continuato ad incontrare “nostra sorella morte corporale”… e sempre da molto vicino: a trentatré anni in montagna e a quarantanove in volo. E infine, per ultimo, soltanto pochi anni fa, quando ne avevo sessantotto, in motorino, a Roma, fermo ad un semaforo rosso. Mi arrogo perciò il diritto di affermare che conosco l’argomento di cui sto parlando e il titolo che ho voluto dargli non è solo un omaggio all’articolo di Cammerinesi. Era il lontano 2000 quando pubblicai il mio primo libro che, sotto un titolo magari fuorviante (Attività estreme e stati alterati di coscienza) affrontava lo stesso argomento: l’ingiustificata e generalizzante paura della morte presente nell’anima dell’uomo contemporaneo. Una paura inconscia, ma sconfinata, dalla quale gli deriva una quasi assoluta incapacità di valutare e giustificare qualunque azione altrui che sembri (e sottolineo “sembri”) sfidare tale innominabile tabù.
La verità, come ho continuato a ripetere e a scrivere in altri libri e in numerosi articoli (l’ultimo è stato nell’agosto del 2018, e questo è il link: https://medium.com/psicanalisi-antroposofica/ri-pensare-la-morte-2f93ee0399a1 ), la verità – dicevo – è che tutti noi abbiamo rimosso la morte attraverso inconsapevoli processi psichici di relativizzazione e banalizzazione. Per questo molti hanno sempre ritenuta erronea la mia analisi e affermato di essere invece ben consapevoli della morte come limite estremo della vita.
Ma il fatto è che tali affermazioni sono astratte, dialettiche, discorsive… possono servire a far credere a noi stessi, e al pubblico che ci ascolta, di essere ben consapevoli del nostro tragico destino di creature mortali, ma non sono pensieri davvero accolti nella profondità del nostro essere. Vagano nella nostra mente, appaiono e scompaiono come gusci vuoti, parole senza spessore, pur permettendo di fingerci compenetrati dal senso del tragico. Ma non sono pensieri pensati, non sono scesi nel nostro cuore, non hanno compenetrato nervi, muscoli e sangue di tutto il nostro essere e per questo motivo, per questo unico ed essenziale motivo, ci lasciano del tutto impotenti e terrorizzati quando la Pallida Signora ci si presenta davanti.
Quando davvero la Morte ci sfiora, o sfiora i nostri cari, o persone che noi ben conosciamo, allora perdiamo il nostro occidentale aplomb e saremmo pronti a tutto pur di allontanare da noi la terribile minaccia.
Non possediamo l’esperienza dei nostri avi, che hanno convissuto con carestie inenarrabili, conflitti religiosi, guerre sanguinose, eccidi ignominiosi, pestilenze incontenibili o sconvolgimenti tellurici di immani proporzioni. Abbiamo dimenticato le esperienze tragiche dalle quali proveniamo. Noi di fronte a Lei impallidiamo, le membra iniziano a tremare e le viscere ci si contraggono nel tentativo disperato di contenere un’angoscia oscura e minacciosa di fronte alla quale non abbiamo alcun rimedio. Ci sentiamo inermi, perché non abbiamo Principi Viventi che ci ispirano, non abbiamo conoscenze solide che ci sostengano sospesi sull’abisso, non abbiamo più neanche una vera fede (le chiese oggi sono deserte). Con tutta la nostra intelligenza, regrediamo alla condizione di bambini spauriti e ci aspettiamo che uno Stato Forte ci prenda per mano e ci rassicuri… in cambio di ubbidienza cieca e rinuncia a qualsiasi velleità o pensiero individuale.

Quanto vado scrivendo, spero mi si voglia credere, ha poco a che fare con la situazione di emergenza che tutti stiamo vivendo né, tantomeno, è un invito all’anarchia o alla mancanza di solidarietà con tutte le altre persone che ci circondano. Sono pensieri che coltivo da decenni, che si trovano sparsi in tutti i miei libri e che sono nati dalla constatazione di quanto poco tutti noi siamo davvero preparati a guardare la morte negli occhi e a considerarla davvero, e fino in fondo, un aspetto inscindibile della vita. Eppure, ne sono convinto tanto quanto coloro che lo hanno affermato prima di me: “Chi non sa morire, non sa neanche vivere!”
E la nostra civiltà imbellettata non sa vivere! Si aggrappa all’apparenza di vita che vive senza chiedersi nulla del suo significato più profondo con ciò producendo, senza rendersene davvero conto, due ovvie reattività: o stili di vita distaccati, indifferenti, smodati se non addirittura offensivi nello spregio del suo sacro valore. Oppure, al contrario, stili pusillanimi, trattenuti, vigliacchi, sempre pronti a difendere con le unghie e con i denti quel poco di vita di cui si accontentano, non osando neanche immaginare di poterla mettere in pericolo. 
Di fatto, la nostra società – pur essendo estremamente violenta e pericolosa – ci ha addestrati a credere di poter allontanare da noi il pericolo, qualunque pericolo, e di poter sempre avere qualcuno a disposizione a cui delegare la nostra sicurezza. Ne deriva che se siamo accorti, bravi e oculati, in linea di massima possiamo vivere tranquilli e sicuri. Sappiamo che c’è sempre qualcuno che pensa a noi (la Sanità Pubblica, la Polizia, la Protezione Civile, l’Assicurazione, lo Stato) e se poi, nonostante tutto, le cose dovessero andare proprio male, allora si cercherà un responsabile da crocifiggere o, molto meglio, qualcuno da cui farsi rimborsare.
Di fatto in questi ultimi decenni la vita media degli uomini si è decisamente allungata; la medicina ha realizzato miracoli e ulteriori ne promette, noncurante delle aberrazioni e degli stravolgimenti cui necessariamente sta andando incontro; le assicurazioni e i sistemi di previdenza si sforzano di garantirci il futuro e preservarci dall’incertezza; le agenzie turistiche offrono viaggi sicuri e avventure senza rischi (sic!); la comunicazione di massa ci propina, enfatizzandoli, modelli umani sempre più sani, belli, ricchi, vincenti, spensierati e, soprattutto, eterni. Di conseguenza sempre più uomini vivono inseguendo il proprio benessere personale come se la morte fosse un evento che non li riguardasse affatto, con il risultato inevitabile di non comprendere più il valore delle cose che li circondano, il significato delle proprie esperienze e, in definitiva, della loro stessa vita. Nessuno sembra davvero felice, ma nessuno sembra disposto a fare il più piccolo sforzo per cambiare questo stato di cose. La paura è troppo forte e non ci sono valori né insegnamenti che permettano di contenerla. Forse senza neanche accorgersene i più si sono rifugiati nell’anestesia, anche se, negata la morte, la vita resterà per loro un mistero incomprensibile.
La verità è che la morte vive con noi: nasce nel momento in cui noi nasciamo e solo se integrata nella nostra quotidianità, anziché assumere l’aspetto dell’orrore, potrebbe svelare quello della saggia consigliera. La verità è che solo accettandola come nostra inseparabile compagna di viaggio sapremmo affrontare la vita con il giusto atteggiamento e il misurato coraggio.

E la realtà che tutti noi stiamo vivendo in questo storico momento esigerebbe un tale coraggio! Perché come scrissero uomini ben più saggi di me: “Se non si ha un Principio per il quale morire, allora non si ha alcun motivo per il quale vivere”.

1 commento:

  1. "La morte è una fine apparente che produce un dolore reale." (F.Kafka)

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