giovedì 23 novembre 2017

Due “sottili” esperienze napoletane




La prima: Abbiamo deciso di regalarci un fine settimana artistico-culturale nella meravigliosa città di Napoli. Così, sabato mattina, dopo aver vagato tra i palazzi del centro storico della città, ci rechiamo alla cappella di Sansevero, per contemplare il capolavoro di Giuseppe Sanmartino, il “Christo velato”. Ammetto che non ci eravamo informati affatto sul “dove” avremmo trovato la scultura marmorea e “cosa” rappresentasse quel luogo. Così la sorpresa è totale, perché l’ideatore della cappella fu il principe Raimondo di Sangro, massone, alchimista, scienziato e inventore che intese farne un “luogo iniziatico”. Cioè a dire un luogo architettonico in cui gli spazi, gli affreschi, le statue e ogni minimo altro particolare, avessero la proprietà di occasionare nel visitatore un’esperienza trascendente. Non a caso, perciò, nel suo testamento, il principe pregò gli eredi di non modificare il più piccolo dettaglio della cappella. Peccato che nel 1889 un’infiltrazione d’acqua facesse crollare il camminamento posto tra la dimora privata del principe e la cappella, rovinando tutto il pavimento di quest’ultima.  Si trattava di un mosaico di marmoree tarsie policrome all’interno delle quali era incastrata una linea di marmo bianco, continua e senza giunture. L’opera, ideata dallo stesso principe, rappresentava un “Labirinto” (il labirinto dell’anima) ed era così complessa e articolata che nessun restauratore, in seguito, fu più capace di ricostruire.
Nonostante questa ragguardevole mancanza e l’ingombrante afflusso di pubblico, che impedisce qualunque raccoglimento su se stessi, l’affresco del soffitto (Gloria del Paradiso di Francesco Maria Russo), le statue delle virtù (tra cui spiccano La Pudicizia e il Disinganno), tutto il resto dell’impianto statuario e, infine, il Christo velato al centro della sala, hanno conservato qualcosa della loro sublime capacità evocativa. E mi permetto di credere che la statua centrale alludesse alla possibilità che il visitatore preparato realizzasse una ben precisa esperienza occulta.
Tuttavia, mentre ci guardavamo attorno stupiti e commossi, ancor più siamo stati rapiti da un particolare quasi nascosto, pur nella sua ostentata evidenza, contenuto nell’altorilievo dell’altare maggiore. Un’opera, guarda caso e chissà perché, che nessun turista presente degnava di uno sguardo. Si tratta di una bellissima e impressionante Deposizione di Francesco Celebrano che, in pratica, occupa tutta l’altezza della parete di fondo della cappella. In basso e al centro, piccoli rispetto all’intera scultura, due Putti offrono, al visitatore attento, una sorta di Sindone (o meglio una Veronica) che, essendo di metallo dorato su sfondo marmoreo, “sembra forare” la scena. Tralascio di dilungarmi sull’uso dell’oro, nell’arte, come rimando diretto a dimensioni spirituali “altre” rispetto a quelle fisico sensibili.
Come se non bastasse, però, il Putto in secondo piano solleva in alto il dito indice della mano destra, nello stesso identico modo con cui Raffaello raffigurò Platone nel suo celeberrimo quadro “La scuola di Atene”. Un gesto che, nella simbologia occulta, in genere richiama la presenza dell’Io.
Insomma… ci sono tutti i presupposti affinché, dopo la visione del “Christo velato” al centro della sala, l’esperienza che il principe di Sangro voleva provocare potesse e dovesse essere completata dalla devota contemplazione del volto aurico del Cristo che “buca” la parete scultorea della Deposizione.









La seconda: la mattina seguente, prima di ripartire per Roma, decidiamo di andare ai locali del Pio Monte della Misericordia dove, ci avevano detto che avremmo trovato il meraviglioso “Sette Opere di Misericordia” di Caravaggio e altri prestigiosi dipinti sullo stesso tema realizzati da alcuni grandi artisti della “scuola napoletana” del seicento.
Contemplare un “Caravaggio” suscita sempre una certa emozione… ma le sette opere che circondano il quadro (la chiesa è a pianta ottagonale) non sono certo da meno.


La visita però prosegue nelle sale superiori dove, nella così detta Quadreria sono conservate all’incirca 144 grandi opere che vanno dal XV al XX secolo.
In realtà sono quasi tutte opere pittoriche classiche, salvo alcune modernissime, raccolte in un paio di sale. Quest’ultime spaziano da una serie di tele con colori mischiati e sparpagliati con molta cura (dicono) a una lastra semimetallica con una piccola pietra dorata incastrata ad un terzo dell’altezza. Oppure da due materassi usati, sdruciti, ripiegati e legati con uno spago ad un espositore per abiti con sette stampelle e sette canottiere di diverso colore con su scritto: “dar da bere agli assetati”, “seppellire i morti”, “soccorrere i bisognosi” e così via.
Ora… se proprio si vuol scherzare, lo si faccia pure. Non c’è motivo alcuno per scandalizzarsi. Gli artistoidi da strapazzo che in questo modo sbarcano il lunario nelle “personali” di New York o di Berlino hanno pur diritto alla loro libera espressione a alla presa per il culo di quanti si lasciano incantare dalle loro cialtronerie.
Quello che abbiamo trovato invece raccapricciante sono gli “scappellamenti critici” che accompagnavano quelle presunte opere e che rimpiango di non aver fotografato con il cellulare per poterle riportare integralmente.
Ma il senso era pressappoco questo: “Colore a olio versato in abbondanza sulla tela, per essere poi spatolato come percorso artistico che va da Piero della Francesca al Caravaggio in un susseguirsi di dolcezza, fermezza e violenza che l’artista ha poi sublimato”.
Oppure: “ Canottiere della Misericordia che, nella loro pochezza espressiva, raccontano la condizione di abbandono e trascuratezza di queste qualità nell’anima dell’uomo moderno”.
Naturalmente, per ogni così detta opera, l’accuratezza della disamina critica era ben più corposa e articolata, dipanandosi in un susseguirsi di metafore astratte la cui creatività fantasiosa era ben superiore alle opere di cui si occupavano.
E noi ci siamo dovuti chiedere: “Possibile? Fino a queste assolute astrusità può arrivare il pensiero astratto, decerebrato e vuoto dell’uomo contemporaneo? Davvero nessuno si scandalizza, non tanto per queste così dette opere, quanto piuttosto per la pseudo-dignità che un pensiero autocelebrantesi vorrebbe loro conferire? Nessuno si ritira, inorridito, di fronte alla contemplazione di un pensare che ha totalmente perduto se stesso e che ora vaga, applaudito da una folla di mentecatti, senza più rammentare il significato e il senso del proprio brillare nella coscienza dell’uomo?


Insomma… a Napoli abbiamo così realizzato due “sottili” esperienze: quella di un “vuoto” che contiene il Tutto (Io sono la Via, la Verità e la Vita) e quella di un “tutto dialettico” che, invece, contiene il Grande Vuoto. Quello che aleggia sulla nostra povera civiltà moderna.

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