lunedì 13 gennaio 2014

Testimonianaza dal Chapas


Una Luce improvvisa nell'anima



Devo fare una premessa: la vita mi ha concesso il dono prezioso di poter realizzare molti grandi viaggi. Non tanti quanti la mia sfacciata e pretenziosa fantasia avrebbe desiderato ma, indubbiamente, davvero tanti. Dal Tibet alla Terra del fuoco, in Patagonia; dall'Islanda a Cuba; dal Vietnam al Medio Oriente; dai più straordinari e assolati paesi dell'Africa agli Stati Uniti d'America.
Scrivo questo non per mero autocompiacimento o per gratuita ostentazione, ma solo per dare spessore e intensità alla testimonianza che in questa rubrica voglio lasciare. Perché, pur avendo avuto infinite opportunità, rare sono state le volte nelle quali la commozione ha inondato la mia anima in maniera così intensa e assoluta da farmi quasi dimenticare chi io fossi e dove, di fatto, mi trovassi. Come quel lontano giorno, a Pashupatinath, sulle rive del Bagmati, in cui mi persi osservando il fumo denso e acre delle pire funerarie offuscare lo splendore delle cupole dorate del tempio dedicato a Shiva. O come quella volta che le note di una fuga di Bach mi sorpresero sgorgando all'improvviso, maestose e solenni, dalle canne d'organo della cattedrale di Canterbury. Oppure ancora ad Aleppo, quando mi lasciai coinvolgere nel fervore dei fedeli musulmani che pregavano nella splendida moschea verde degli Omayyadi. O a Lhasa, quando nascosto tra le mille colonne rosso sangue del Jo-Kang, potei spiare i pellegrini che vi giungevano stremati dopo mesi di estenuante camino e si gettavano proni, distesi con tutto il corpo, a baciarne il pavimento. Così come rapito ed estasiato rimasi a Istanbul, in un locale nascosto e un po' fuori mano, durante una cerimonia dei Dervishi ruotanti; o sull'isola di Chiloé, in Cile, nell'atmosfera austera e riservata della piccola chiesa lignea di Castro, realizzata dai mastri carpentieri dell'isola sotto la guida dei missionari gesuiti. O, ancora, ad Assisi, nella cattedrale di Santa Chiara, ascoltando il coro celestiale delle clarisse nella notte di Natale di tanti anni fa. O, per finire, nello sperduto villaggio di Possotomé, in Benin, quando fui invitato ad assistere a un’improvvisata cerimonia voodoo e, non so come, mi ritrovai a suonare uno jambé mentre intorno a me i feticci ruotavano e le donne ballavano entrando in trance.
Sí... lo so! Queste esperienze, riassunte in poche righe, sembrano molte e dunque frequenti... ma in realtà sono pochissime se si considera che sono state realizzate nell'arco di un'intera vita di viaggi. A testimonianza del fatto che sono sempre inconsuete e straordinarie le occasioni in cui l’animo di un viaggiatore può realizzare esperienze così coinvolgenti da permettergli di scavalcare le proprie ordinarie difese psichiche e farsi scaraventare nel mistero.
In Chapas, nella piccola cittadina di San Juan de Chamula, questo è di nuovo accaduto.
Ma andiamo con ordine.


Dicembre 2013. Dopo aver rimandato per anni il viaggio in Messico, quasi a voler protestare contro la psicosi collettiva relativa alla fine del mondo prevista (secondo discutibili interpretazioni) dal calendario Maya, alla fine io e mia moglie decidemmo di regalarci il tanto sospirato viaggio.
Arrivati a Cancun, nello Yucatan, prenotammo una piccola utilitaria e partiamo. Sorvolerò sulle nostre tappe più ovvie: Valladolid, Chichen-Itza, Uxmal, Lebna, Edzna, Palenke, Yaximal e, alla fine, San Cristobal, in Chapas, posta a 2200 metri di quota. Arriviamo in questa splendida cittadina tutta in stile coloniale – molto simile a Trinidad, se immaginata almeno 100 volte più grande - nella notte del 24 dicembre. Ci ha guidato il caso, spingendoci a seguire i capricci del sole in una stagione che si comporta in maniera anomala rispetto agli standard stagionali. Alloggiamo in un bellissimo hotel che, senza alcuna pressione da parte nostra, ci pratica uno sconto irrinunciabile. Andiamo a letto presto, dopo una cena frugale, perché alle ventuno tutti i locali e i ristoranti avrebbero chiuso per concedere al personale di passare in famiglia il santo Natale.
La mattina del 25, prestissimo, siamo già in piedi e usciamo all'aperto in una giornata di sole sfolgorante. La città, com’era da aspettarsi, è deserta. Decidiamo perciò di prendere un "collettivo" (un taxi cumulativo) e di recarci a San Juan Chamula, una piccolissima cittadina a soli 15 km di distanza da San Cristobal, abitata quasi esclusivamente da Tzotzil, una delle poche sopravvissute etnie Maya. Chamula è famosa per la piccolissima chiesa di architettura coloniale al cui interno sopravvive, immutato nei secoli, il sincretismo tra gli antichi culti pagani e la religione cattolica.
Il "collettivo" ci scarica all'inizio del viale che conduce alla piazza principale, “Quella laggiù - ci indica il conducente - quella che s’intravede in basso, alla fine delle bancarelle di souvenir che incorniciano il viale”. Curiosando tra un banco e l'altro percorriamo la distanza che ci separa dalla nostra meta. All'improvviso la piazza si apre ai nostri occhi: lo slargo è enorme e, alla luce del sole basso e radente delle prime ore del giorno, a 2200 metri di quota, risulta amplificato e impreziosito da una mescolanza di vividi colori. Davanti alla piccola chiesa che occupa lo sfondo, infatti, i Tzotzil stanno montando il mercato e la piazza sembra la tavolozza di un pittore naif: il giallo delle banane, il rosso vivido dei pomodori, il verde delle papaie, il nero e il bianco delle pelli di capra, i ricami colorati delle coperte e delle tovaglie artigianali.  Sui pochi alberi che circondano la piazza sono legati migliaia di palloncini colorati. Lo spettacolo è magnifico, ma noi siamo ben vaccinati. Per quanto piacevole e sorprendente, la scena non si discosta poi di molto da quella che abbiamo ammirato sull'isola di Djiené, in Mali, ai piedi della più grande moschea di fango del mondo. Dobbiamo tuttavia riconoscere che i costumi locali sono straordinari: gli uomini indossano giubbotti di pelo lungo di capra nero o bianco, chiamati chujes, e larghi cappelli bianchi da cowboy. Le donne, invece, indossano camicette bianche ricamate con fiori di tutti i colori e lunghe gonne di pelo di capra, sempre nera o bianca. In capo hanno un buffo cappello di stoffa ripiegata. In un certo qual modo ricordano i nostri "mamuthones" sardi, anche se le fattezze del loro volto sembrano incartapecorite dal tempo. Girovaghiamo tra i banchi della frutta scattando qualche foto e ci avviciniamo all'ingresso della chiesa. Da questo punto in poi macchine fotografiche e videocamere sono ‘vietatissime’, se non si vuole rischiare una solenne bastonatura da parte dei guardiani e della gente del posto. La facciata della chiesa è bianca con delle modanature verdi che fanno da cornice al portale e ai motivi ornamentali del tetto. Davanti all'ingresso un piccolo gruppo di Tzoltzil, con stravaganti ed enormi strumenti musicali, officia un antico rituale maya. A dieci metri dagli officianti alcuni fedeli sono in ginocchio e, alla fine di ogni strofa, si avvicinano di un paio di metri. Un odore intenso d’incenso aleggia nell'aria. Ammetto di aver tentato di "rubare" qualche immagine, ma la maledizione dei Maya ha mandato fuori campo l’obiettivo della mia cinepresa.
Alla fine, facendoci largo tra la folla varchiamo l'ingresso della chiesa e... rimaniamo senza fiato. L'interno - trentacinque metri per quindici - è completamente vuoto. Il pavimento, presumibilmente di marmo bianco, è ricoperto da uno spesso strato di aghi di abete. A destra e a sinistra, per tutta la lunghezza dei lati, si avvicendano dei tavolini bassi sormontati da teche di legno e vetro al cui interno si trovano dei santi, in grandezza naturale, realizzati in legno o ceramica ma con vestimenti di stoffa. Tra una teca e l'altra, il muro è tappezzato di fiori bianchi. Sopra i tavolini, più larghi di almeno venti centimetri delle teche, ardono migliaia e migliaia di candele. Sul pavimento, tra gli aghi di abete, alcuni Maya sono accucciati in piccoli cerchi e officiano strani riti accendendo decine di altre candele. In fondo, l'abside è un tripudio di fiori bianchi e palloncini colorati. All'altezza dell'altare solo quattro cerchi concentrici al neon, rosso, giallo, verde e bianco che si accendono e spengono in alternanza creando un senso di convergenza verso il centro. Il significato è inequivocabile: qui è nata la Vita. Qui è nata la Luce. Dall'unica finestra posta sul lato destro, in direzione sud, un raggio di sole penetra obliquo a testimonianza che: "Dio c'è!"
Non credo che si possa immaginare nulla di più kitsch e pacchiano... ma l'insieme è sconvolgente. La luce e il fumo delle candele, l'odore resinoso degli aghi di abete, lo sguardo dei santi dalle teche, il profumo dei fiori, il mormorio confuso e disarmonico dei Tzoltzil, il messaggio ovvio dei cerchi al neon, non concedono dubbi: qui il Divino è immanente!
L'atmosfera è satura di forze magiche che vibrano sull’onda della devozione incondizionata e assoluta di questo semplice e antichissimo popolo.
La mia compagna, una donna pragmatica e disincantata, ma con un animo purissimo, dopo pochi minuti da che siamo entrati, spontaneamente s’inginocchia tra gli aghi di abete, abbassa la testa sul petto e chiude gli occhi, lucidi per la commozione. La mia anima intellettuale, invece, complicata e fin troppo sovrastrutturata, accenna a un moto di resistenza. Ma l'atmosfera magica della chiesa è troppo potente e, in breve, mi ritrovo inerme, il pensiero vuoto, gli occhi gonfi di lacrime. Restiamo così non so più quanto tempo. Non riusciamo a staccarci. Non riusciamo a deciderci di muoverci, uscire dalla chiesa e porre fine a quello straordinario evento interiore. Senza esserci scambiati una sola parola, entrambi stiamo vivendo la medesima identica esperienza di rapimento interiore, prigionieri consenzienti di questo natale maya che il destino ha voluto regalarci.

Quando dopo molto tempo riusciamo a strapparci dall’incantesimo e a uscire all’aperto mi metto a riflettere: alcune leggende esoteriche asseriscono che l'umanità – nonostante tutte le sue nefandezze - sarà risparmiata dal giusto furore divino, e il pianeta sarà risparmiato dalla distruzione, fintantoché nel mondo sopravviveranno almeno sette saggi che, con la loro devozione, intercederanno per tutti coloro che non lo meritano. Mi viene spontaneo pensare che, oltre all'opera dei sette sconosciuti saggi, una buona parte delle intercessioni possa giungere agli dei dalle preghiere di popoli semplici e devoti come appunto i Tzoltzil che, con la purezza dei loro intenti, hanno mantenuto la grazia di parlare al cuore degli dei.
Rifletto ancora e, per quanto convinto foto-amatore, per la prima volta sono costretto a chiedermi: "Ma non sarà, davvero, che le fotografie rubino l'anima ai luoghi e alle persone, per poi disperderla, strumentalizzarla e, infine, banalizzarla? Non sarà che l'atmosfera magica della chiesa di Chamula sia così potente proprio perché protetta - anche con la violenza, se necessario - dagli stupidi impulsi che imperversano negli animi dei tanto evoluti uomini moderni occidentali che, come noi, non conoscono davvero l’umiltà e il timor di Dio?”
Assorti nei nostri pensieri, riprendiamo a girovagare nella piazza.
- Grazie, Spirito del popolo Maya… grazie del meraviglioso Natale che hai voluto donarci.











1 commento:

  1. non sarà che lo Spirito esiste e noi siamo solo diventati sordi alla sua sacralità?

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