Soltanto
quindici anni fa molti italiani non possedevano ancora un cellulare. I più
evoluti potevano contare su una segreteria telefonica che, al massimo, avrebbe
registrato i messaggi di quanti avessero osato lasciarli sfidando la vergogna
di parlare a un 'marchingegno elettronico'. Tutti gli altri uscivano da casa, o
dall'ufficio, e in pratica erano irreperibili. Solo che era normale essere
irreperibili. Amici, conoscenti o clienti sapevano che se qualcuno aveva deciso
di passare il sabato e la domenica fuori casa, quel qualcuno non sarebbe stato
rintracciabile finché non fosse tornato. La sua sparizione dalla scena era non
solo comprensibile ma addirittura legittima all'interno della vita privata di
ognuno. Chi lasciava l'abitazione, o l'ambiente lavorativo, entrava perciò in
una sfera di libera espressione all'interno della quale solo il proprio Io
avrebbe deciso con chi, come, quando, dove e soprattutto se comunicare.
Sono
passati solo quindici anni e se qualcuno, oggi, esce da casa scordando il proprio
cellulare già sa che pagherà la sua dimenticanza con attacchi di ansia,
preoccupazione e vaghi sensi di colpa. Non è una sindrome generazionale. Non a
caso, per la strada, in autobus o in metropolitana, s’incontrano con una certa
frequenza uomini e donne di settanta o più anni che, nonostante gestiscano a
malapena una tecnologia per loro aliena, comunque non si risparmiano l'uso del
cellulare. Magari, come loro stessi affermano, solo per fare o ricevere
semplici telefonate.
Tuttavia,
se gli anziani si limitano all'uso dell'uno per cento del potenziale
tecnologico del più stupido cellulare, tutti gli altri si sono lasciati sedurre
dalle sue infinite potenzialità. Internet con relative mail, Facebook, YouTube,
Twitter, WhatsApp e quant'altro sono solo alcune delle tante applicazioni che
permettono, ma più che altro obbligano, alla connessione costante.
In
pratica, quella della reperibilità continua è una sindrome globale sulla quale
si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto: bene e male, costi e guadagni,
vantaggi e svantaggi.
Legittima
perciò la domanda: perché continuare a scriverne? Presto
detto: per la presunzione di aver rintracciato una prospettiva nuova del
fenomeno o, almeno, non ancora esplorata a sufficienza.
Come
molti concorderanno questa è un'epoca strana, decadente, malata. È l'epoca
degli attacchi di panico, del bullismo, della prostituzione giovanile
volontaria, dell'abbandono degli studi, della ricerca del business facile, del
successo ad ogni costo, dell'estetica priva di contenuto, della liquidità dei
rapporti. Tutte realtà che, almeno all'apparenza, non dovrebbero avere nulla a
che spartire con il tema della reperibilità continua. La quale, al massimo,
potrebbe essere considerata una dei tanti elementi dello sfondo culturale
tecnologico sul quale tutti ci muoviamo.
Ma
ne siamo così sicuri? Possiamo essere davvero certi che la connessione continua
sia solo un elemento marginale e descrittivo di un'epoca piuttosto che una
con-causa partecipante alla produzione del malessere che ci attanaglia?
Per
tentare di rispondere a queste domande dobbiamo partire da lontano e sforzarci
poi di tener sempre presente alcune considerazioni fondamentali.
Cominciamo,
allora, dalla prima legge della comunicazione umana scoperta da Gregory Batson
nel lontano 1940. Tale legge recita che, dato l'incontro di due o più
individui, questi non abbiano in alcun modo la facoltà di NON COMUNICARE. Tutto
è comunicazione e anche il tentativo di eluderla può essere tradotto per ciò
che è: la volontà di non comunicare. Così, ad esempio, se due persone
sconosciute entrano in un ascensore e una delle due inizia a fissare con
ostentazione il mazzo di chiavi che ha in mano, il messaggio analogico che
trasmette è: "Non ho alcuna intenzione di parlare con te! Non m’interessa!"
La dove un semplice: "Buongiorno! A che piano scende?" è indice di
disponibilità e apertura.
Ma se è vero che, data la
semplice vicinanza e/o frequentazione di due o più esseri umani, è impossibile
sfuggire alla comunicazione, se è vero che la contiguità obbliga alla
trasmissione di significati, è pur vero che fino a poco tempo fa esisteva un
territorio spazio-temporale privato nel quale chiunque avrebbe potuto ritirarsi
senza, per questo, essere obbligato a comunicare alcunché. Come ho già scritto,
fino a quindici anni fa era "normale" uscire da casa o dall'ufficio,
partire per un fine settimana o per le proprie vacanze e, appunto perciò,
essere impossibilitati a contattare o a essere contattati da chicchessia.
Sottolineo: era normale... Ciò significa che, entro certi margini,
l'irreperibilità non poteva essere interpretata.
"Sarà fuori casa...",
"Non avrà trovato un telefono funzionante...", "Se la starà
godendo...", sono solo alcune delle tante supposizioni che avrebbero
potuto essere formulate da chiunque si aspettasse notizie e non le avesse
ricevute. O non avesse trovato il proprio referente.
Oggi non è più così. La
reperibilità continua dei cellulari - per non parlare di Internet - non concede
alcuna giustificazione: se qualcuno spegne o si dimentica il cellulare qualcosa
dovrà pur significare e, a seconda delle relazioni nelle quali è implicato
(lavoro, amicizia, amore), il fatto di non poter essere trovato legittima tutta
una serie di altre interpretazioni: "Mio Dio, cosa gli sarà
successo?", "Questa sparizione è sospetta!", "Avrà qualcosa
da nascondere?", "Non mi vuole né parlare né sentire, sarà
arrabbiato/a...", "Strano... Non l'ha mai fatto!" E, a seguire,
tutta una serie di effetti collaterali: ansia, paura, curiosità, sospetto,
collera, odio, desiderio di ritorsione o di vendetta. Perché la connessione
continua oggi è data per scontata, talmente ovvia da essere considerata
naturale, e la sua mancanza legittima qualunque congettura. Che il cellulare
possa essersi guastato, che la rete mobile sia sovraccarica o che la persona
possa aver deciso deliberatamente di spegnerlo non è una ipotesi a cui si è
disposti a dare credito.
Non ce ne rendiamo conto, ma
viviamo quasi tutti così, dando per certa e assoluta la connessione continua
con le persone che conosciamo e dannandoci l'anima se per un caso qualsiasi
questa risulta elusa. Gli effetti più oscuri e inquietanti determinati da
questo stato di fatto, però, non sono quelli sopra elencati. Alla radice di
tutto, infatti, c'è una perdita dei confini dell'Io.
Mi rendo benissimo conto di
ciò che ho scritto: ai più questa idea sembrerà eccessiva. Possibile che un
fenomeno tecnologico come quello sotto esame abbia il potere di aggredire,
ferire e, a volte, addirittura distruggere le forze di coesione interiore dell'essere
umano che, a ben vedere, sono di tutt'altra natura? Come può una semplice
innovazione tecnologica e di costume sociale attaccare e annichilire l'istanza
superiore delle funzioni umane?
Comprendo le perplessità.
Eppure, a ben vedere, questo è esattamente l'obiettivo che raggiungono molti
altri fenomeni droganti, quali le sostanze alcoliche, gli stupefacenti, alcuni
psicofarmaci e - ultime arrivate - alcune innovazioni tecnologiche, quali la
televisione e il computer. Non credo, infatti, sia un mero caso se, in molte
parti del mondo, siano sorte cliniche specializzate per la difficile
disaffezione dalle dipendenze che tali innovazioni tendono a generare.
Si dirà: "Ma non sono
forse quelle individualità che avevano fin dall’inizio una fragilità dell'Io a
rimanerne soggiogate? Là dove individualità più forti e ben strutturate
riescono benissimo a gestire tutte queste innovazioni."
C'è qualcosa di vero in tali
affermazioni, solo che le mezze verità non sono la verità e, molto spesso,
rischiano di confondere il campo d’indagine. Perché se anche è innegabile che
le individualità più labili siano quelle che maggiormente possono rimanere
intrappolate nel condizionamento di queste innovazioni tecnologiche, primo: non
si vede perché tali fragili individualità non debbano essere protette, secondo:
si ha davvero idea di quanto esse siano diffuse e, terzo: chi può essere così
sicuro che la propria forte centralità non posa essere corrotta e violata da
una condizione di ripetitività che alla fine si traduce in una dipendenza
strisciante e inconsapevole?
Chiunque abbia lavorato, o
comunque avuto a che fare con delle personalità dipendenti, sa bene con quanta
sicumera e violenza essi decantino il loro presunto controllo della situazione.
"Io sono padrone di me stesso: bevo, oppure mi drogo, oppure gioco, oppure
ancora vedo la TV solo quando davvero lo voglio!" Peccato che non sia mai
vero.
Il risultato di questa
tecnologia è che viviamo tutti a stretto contatto gli uni con gli altri e,
sebbene solo virtualmente, la nostra intimità può essere di continuo violata.
L'Io sperimenta una labilità dei propri confini che spesso non è in grado di
riparare.
Un mio giovane paziente
l'altra settimana mi ha raccontato di non essere potuto uscire con i suoi
soliti amici. Il perché risiedeva nel fatto che da alcune settimane sta flirtando
con una ragazza, conoscente alla lontana degli altri ragazzi del suo gruppo, sperando
di coinvolgerla in una più stabile e durevole storia sentimentale. Uscire con
tutti gli altri, proprio quella sera in cui lei non ci sarebbe stata, avrebbe
significato poter essere fotografato con il cellulare, magari anche per
sbaglio, o per gioco, e magari in un momento di semplice confidenzialità con
qualche altra amica, e vedere poi la foto in questione girare per il web,
attraverso Facebook. La ragazza per la quale spasima avrebbe potuto vederla e,
magari, trarne delle conclusioni sbagliate, che sarebbero andate a suo danno.
In sé e per sé l'episodio
sembra una ragazzata. Il risultato di un eccesso di prudenza da parte del mio
giovane paziente, forse un po' troppo auto-referente. Può darsi. Tuttavia,
quante situazioni di vita, in questi ultimi tempi, sono state registrate con
foto scattate al volo da un cellulare e usate per compromettere la
rispettabilità di questa o quella persona? Né ci interessa l'obiezione che in
molti casi possa essere stata colta sul fatto una persona nel pieno di una sua
azione poco edificante, scandalosa o, addirittura, delittuosa. Questo potrebbe
essere il tema di un'altra trattazione. Quello che qui mi preme rilevare è il
sentimento di violazione della propria privacy che chiunque di noi potrebbe
sperimentare in un qualunque momento della propria vita.
Per non parlare degli sms e
delle telefonate pubblicitarie che ci giungono in qualunque ora della giornata,
della paura di poter essere intercettati o della consapevolezza di poter essere
rintracciati in qualsiasi momento e in qualunque angolo del mondo ci si fosse
nascosti.
Naturalmente, il cellulare è
solo uno dei tanti varchi, anche se forse il più abusato, che la società
moderna ha imposto alla membrana protettiva del nucleo dell'Io. In aggiunta c'è
Internet, la TV e tutte le tecnologie che a queste ultime girano attorno.
Come paradosso, ma forse per
reazione alla perdita di confini certi, molte persone hanno finito per
auto-confinarsi in casa e avere relazioni solo virtuali. In questi ultimi pochi
anni, nella modesta statistica del mio lavoro privato, ho conosciuto almeno tre
casi di ragazzi tra i venti e i trenta anni che da lungo tempo vivevano
confinati nella propria camera, con il cellulare e il PC come unici strumenti
di mediazione con il mondo. La loro vita interiore si alimentava di film,
programmi televisivi spazzatura, giochi virtuali, pornografia, addirittura
sesso virtuale e contatti video-telefonici con altri membri del club dei
diseredati. Un piccolo numero di esseri umani forse destinato ad aumentare,
abbandonati a se stessi e al vuoto allucinante di un’epoca che solo una sorta
di pudore mi impedisce di inserire tra quelle più buie che il genere umano
abbia mai attraversato. Al di là del presunto progetto per il controllo del
mondo da parte di una élite di scellerati psicopatici, al di là dei disastri
finanziari, ecologici, e culturali che tutti stiamo subendo, la mia convinzione
è che stiamo assistendo ad un attacco diretto alle forze dell'Io umano da parte
di quello che, con un eufemismo, mi piace chiamare lo Spirito dei Nuovi Tempi.
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