martedì 26 marzo 2013

Il futuro dell'anima




Non c’è dubbio! Il Futuro è dietro l’angolo. Il Futuro sta arrivando – come sempre d’altronde – ma, questa volta, porta con sé un’equivoca novità: sarà sempre più veloce.
Per l’essere umano – nonostante il fatto che sul piano cosciente possa aderire con entusiasmo ed eccitazione all’accelerazione degli stimoli - le conseguenze inevitabili sul piano inconscio saranno: un’accresciuta superficialità, uno stato di perenne disorientamento e agitazione, la perdita della capacità di produrre sforzi di volontà prolungati nel tempo e, infine, l’indebolimento dell’immagine di sé, costantemente minacciata dal “nuovo” che avanza.
Non credo che sbaglierei più di tanto se affermassi che, a breve termine, si verificherà un aumento delle più classiche sintomatologie psichiche di tutti i tempi e l’irrompere di sindromi del tutto nuove (come, ad esempio, la già perniciosa “dipendenza da PC o dal virtuale”).

Quali saranno le cure? Difficile dire, perché la psicanalisi – che storicamente ha rappresentato il primo significativo accesso alle profondità dell’anima umana e che, appunto per questo, presumeva di poter raffinare i propri strumenti ed estendere a molti le proprie conoscenze – in realtà è stata esautorata, destituita, spodestata… a favore di prassi terapeutiche che, nella migliore delle ipotesi, possono essere  considerate solo delle caricature della prima.

I motivi del suo fallimento sono molteplici e complessi, ma se dovessi azzardare una sintesi estrema oserei dire che la fine della psicanalisi e della psicologia del profondo sia stata decretata dallo svilimento della cultura mitteleuropea e dall’affermarsi, in antitesi, di quella americana. Una cultura – quest’ultima - che, nella sua più intima essenza, è priva di radici, superficiale, ingenua e, soprattutto, drasticamente materialistica (anche là dove proprio non sembra). Le conseguenze dello sradicamento della ricerca psicologica dalla profondità della tradizionale cultura mitteleuropea e l’adesione acritica alla superficialità materialistica della cultura americana, di fatto, ha introdotto nei percorsi di formazione dei nuovi terapeuti (soprattutto italiani) tecniche terapeutiche che hanno il privilegio di apparire intelligenti, sintetiche, efficaci e di facile acquisizione ma che sono risibili di fronte alla profondità e alla complessità dell’animo umano.

Lo svilimento culturale dell’università italiana, gli interessi economici e politici dei soliti “baroni” che la governano e l’ignoranza sostanziale da cui muovono gli studenti provenendo dalla scuola superiore hanno così creato una situazione per la quale non so trovare aggettivi appropriati: in pratica, oggi è sufficiente per chiunque superare una manciata di esami per essere legittimati “Psicologi” e basta pagare (profumatamente) uno qualsiasi dei tanti corsi di formazione psicoterapica ratificati dalla Facoltà di Psicologia per essere riconosciuti come psicoterapeuti e iscritti regolarmente all’albo regionale.

Siamo lontani anni luce da quella base culturale che, in un recente passato, era condicio sine qua non della formazione di uno psicoanalista e che, ben oltre alla materia clinica, gli permetteva di spaziare dalla conoscenza della storia delle religioni alla meccanica quantistica, dalla letteratura classica e moderna alla storia dell’arte, alla filosofia e all’antropologia.
Come se non bastasse, nessuna istituzione scolastica si sognerebbe più, oggi, di giudicare le capacità empatiche del futuro terapeuta, le sue doti di creatività e improvvisazione, le sue qualità morali e – soprattutto – il suo equilibrio psicologico. In altre parole, la sua sanità psichica.
Così, nonostante il parere espresso dai più eminenti trainer di tutti i tempi (una fra tutti: Hilde Bruch) che annoverano l’empatia, la creatività e la moralità tra le doti essenziali di un terapeuta, oggi qualunque studente può pretendere di diventarlo. Per lui sarà sufficiente studiare quel minimo che oggi serve a superare gli esami e pagare la retta delle scuole di formazione convenzionate.

Il risultato è che migliaia di titolati psicoterapeuti si sono riversati sul “mercato della salute psichica” (anche l’anima, oggi, si sottomette alla nomenclatura economica corrente), inconsapevoli o, forse, incuranti di essere poco più che dei miseri tecnici e, giustamente, pretendono di avere a disposizione luoghi di lavoro riconosciuti dallo stato (lo psicologo nelle scuole, lo psicologo di famiglia, ecc…) o di potersi comunque affermare professionalmente. Uno su dieci di queste migliaia sa di che cosa sta parlando quando pratica. Uno su cento conosce davvero se stesso.

Il risultato è che sulle vetrine delle farmacie o delle erboristerie di ogni città o paese italiano, sulle bacheche di compiacenti medici della mutua o medici specialisti, sulle metropolitane, sugli autobus e sulle finestre virtuali di Internet, singoli terapeuti o sedicenti associazioni terapeutiche si presentano sbandierando i più nobili e sacrosanti ideali (ad esempio, il diritto di ogni cittadino alla salute psichica) e offrono i propri servizi al ribasso, come in una vera e propria economia di mercato: le prime due sedute gratis, un “pacchetto” iniziale a costi ridotti, offerte su Groupon di imperdibili occasioni… Il messaggio aggiuntivo è che l’intervento sarà mirato, efficace e soprattutto breve. Anzi brevissimo!

La presunzione di tutte queste affermazioni è pari soltanto alla loro stupidità.

Peccato che gli utenti (come tutti gli psicoterapeuti oramai sono soliti chiamare le persone sofferenti di un qualche sintomo psichico) della complessità di queste problematiche non si rendano neanche lontanamente conto. Per la maggior parte delle persone pressate da un qualche disagio, un terapeuta è un terapeuta. O, almeno, così dovrebbe essere. Nessuno potrebbe mai sospettare che dietro tutta questa offerta si cela un vuoto di contenuto e di spessore che non ha uguali in nessun altra specialistica professionale. Per molti, in oltre, che forse sono quegli stessi che patiscono le maggiori difficoltà economiche in questo paese devastato dalla criminalità di chi ci governa, l’onorario stracciato è una tentazione troppo forte. È difficile per loro applicare nel mercato dell’anima lo stesso lungimirante proverbio che, di fatto, invece, sono soliti usare nel mercato dei beni materiali: “Poco pagare, poco valere!”  In altre parole, molti si lasciano abbindolare, confidando in una rapida soluzione dei loro problemi.

Così, se ancora fino a qualche anno fa erano gli uomini o le donne sofferenti che sentivano il bisogno di rintracciare il terapeuta più competente o più esperto al quale affidare la propria anima e, una volta trovatolo, potevano solo sperare che questi avesse delle ore libere a disposizione, oggi sono i terapeuti ad essere obbligati a scendere nel “mercato” e a cercare i loro possibili pazienti. Accettando il gioco di: “vediamo chi si mette più in mostra” o, meglio ancora, di: “vediamo chi si offre al minor prezzo”. Questa è la realtà della decadente epoca mercantile alla quale tutti partecipiamo e alle cui ferree regole nessuno – ma proprio nessuno - può sperare di sottrarsi. Tutto è stato ridotto a merce: anche la cura dell’Anima. E come merce, appunto, tanto la cura, quanto coloro che la praticano, vanno pubblicizzati se vogliono sperare di essere acquistati.

Speranze per un prossimo futuro? Nessuna!
La violenza delle forze storiche in gioco è immensa e presto, almeno così sospetto, della grande cultura umanista e spirituale europea non rimarrà che un pallido ricordo. C’è solo da augurarsi che qua e là permangano dei piccoli, occulti cenacoli ove l’anima possa nascondersi. L’augurio è che pochi e sparuti individui riescano a conservane il ricordo in vista di un più lontano futuro… quando un’Altra Umanità, liberatasi dalla Peste Economica che oggi devasta e corrompe il mondo, sentirà di nuovo la necessità di conoscere infine se stessa.



lunedì 18 marzo 2013

Disturbi...complessi


La scissione dell’immaginario
erotico maschile


Ha senso continuare a dibattere un tema così dibattuto, appunto, come quello della latente scissione dell’immaginario erotico maschile? Probabilmente no! Ricercatori e colleghi hanno già sviscerato il problema esponendolo poi in relazioni, articoli e saggi di raro acume. Di fatto, tutto quello che poteva essere detto è stato detto e questo articolo potrebbe giustamente sembrare una pedissequa e inutile ripetizione. Credo tuttavia che non si insisterà mai abbastanza nella denuncia della tematica in questione. Non tanto perché si debba o si possa aggiungere, ogni volta, qualcosa di nuovo, quanto piuttosto perché molti degli uomini di oggi, che neppure sospettano la problematicità del proprio vissuto, trovandosi sempre più spesso di fronte a tali denuncie, alla fine possano cominciare a sospettarla.
Se la disamina è abusata, non è detto, però, che non si possa tentare di essere originali: ad esempio rovesciando i consueti nessi di causa ed effetto e presentare alcuni di quegli atteggiamenti interiori ed esteriori che spesso sono considerati “conseguenza” di un determinato agire maschile, piuttosto come spinte e motivi inconsci che quello stesso agire determinano. L’esercizio potrà sembrare sterile, o comunque gratuito – posso immaginarlo… sono tuttavia convinto che alla fin fine ne possano nascere spunti interessanti.
E allora vediamo: cominciando dalla fine, mi sentirei di affermare che il processo evolutivo della psiche maschile, oggi come oggi, è del tutto mancante di almeno un paio di paradigmi che sarebbero invece indispensabili a definirne la progettualità. In altre parole, forse più semplici, direi che l’attuale immagine di “virilità” sia completamente distorta, se non addirittura caricaturale e, dunque, inadeguata a far realizzare ai giovani quella maturità e quell’equilibrio interiore che sarebbero invece indispensabili in una vita adulta.
I motivi di questo stato di fatto sono molteplici e, come ho già dichiarato in apertura di questo articolo, colleghi e ricercatori ben più titolati hanno individuato nella sostanziale mancanza della figura (simbolica e reale) del Padre nella nostra società la radice ultima di tutti questi problemi. Mi fa qui piacere segnalare ai più curiosi dei miei lettori i pregevoli lavori di Claudio Risé: “Il Padre, l’assente inaccettabile” e “Il mestiere di Padre”; il testo di Massimo Recalcati: “Cosa resta del Padre”, quello di Luigi Zoja: “Il gesto di Ettore: preistoria, storia, attualità e scomparsa del Padre”; e, per finire, il bel racconto autobiografico di Stefano Zecchi: “Dopo l’infinito cosa c’è, Papà”.
Come già detto, non ho intenzione di ripetere – magari male – ciò che altri hanno già detto. Più interessante mi sembra, invece, provare a raccogliere le osservazioni e i pensieri espressi da tutti questi autori per individuare i due principali paradigmi la cui assenza – anche secondo me – è responsabile del mancato processo “individuativo” dell’uomo contemporaneo. Questi due paradigmi sono: 1) il senso di responsabilità nei confronti della comunità e 2) il senso di protezione.
Guardiamoci spregiudicatamente intorno… giriamo lo sguardo… ma proviamo a farlo con gli occhi di un giovane di quattordici, quindici, sedici anni… Cosa vediamo? Anzi, no! Cominciamo da ciò che non vediamo: molto spesso – come già detto – non c’è traccia di un Padre degno di questo nome. Di un uomo adulto che si faccia incarnazione del presente storico e che, pur partecipando alla creazione di un prossimo futuro, sappia indicare al figlio, con l’esempio e non con vuote parole, l’importanza del proprio impegno personale nel tessuto sociale. Manca l’uomo adulto che con infinito amore prenda la mano del ragazzino e, adeguando il proprio passo, lo accompagni sulla soglia di uno dei tanti possibili sentieri che il figlio potrebbe scegliere di percorrere per avvicinarsi a quell’orizzonte lontano oltre il quale si nasconde la meta di ognuno di noi. Che lo accompagni fin sulla soglia, e non oltre, trasmettendogli la sua fede incrollabile nelle capacità del figlio di poter raggiungere la meta grazie alle risorse che in lui egli intravede. Manca l’uomo adulto come Presenza amica, come punto di riferimento fisso, certo, indubitabile, inamovibile, inattaccabile… permissivo ma, nello stesso tempo, protettivo, sicuro, difensivo. Porto protetto, faro di luce, rocca granitica da cui il figlio possa muovere verso l’incertezza del proprio domani.
Ecco. Tutto questo, oggi, molto spesso non c’è.
Al suo posto Padri distratti, assenti, lontani, occupati… molto spesso ancora impegnati a ricercare il significato della loro stessa vita. Padri ancora bambini – a volte nonostante l’età avanzata – padri insicuri… oppure ancora padri mancanti di quei contenuti ideali di cui i figli avrebbero invece un bisogno assoluto. Se i Padri biologici sono assenti non meno distorti, però, risultano quelli simbolici: insegnanti demotivati, incapaci e, a volte, autoritari ed arroganti; professori impreparati, oppure assolutisti e dispotici, più interessati al sapere nozionistico dei propri allievi che non alla loro formazione umana e professionale. E, per finire, politici corrotti, bugiardi, spregevoli in qualunque loro manifestazione; ladri, narcisisti, donnaioli di infima categoria.
Sul versante opposto i modelli della notorietà: calciatori strapagati con il fisico palestrato e accuratamente tatuato; rok star dai costumi scostumati e dissacranti; indossatori e modelli dalla bellezza ricercata e vagamente effeminata (nonostante sia volutamente maschilista). E poi ancora attorucoli, paparazzi, show man, ballerini, opinionisti e “tronisti” vari che in un qualche modo hanno occupato la ribalta pubblica e da lì, con un carisma fondato sull’ignoranza e la presunzione, dettano le proprie opinioni come se fossero verità rivelate.
In altre parole è come se l’immaginario delle nuove generazioni fosse colonizzato dal culto della personalità di omuncoli indegni che della propria vuota avvenenza, del pensiero senza fondamento, della furbizia e della mancanza di qualunque scrupolo morale hanno fatto business. Questo è quello che offre il mercato culturale. Sui banchi dell’immaginario non c’è null’altro se non il successo pubblico ed economico dell’esaltazione narcisistica. Il rovescio della medaglia è rappresentato dal fallimento, se non addirittura dall’assenza, dell’Eroe Solare, del Padre le cui gesta ruotano intorno ai valori dell’impegno personale, dell’assunzione di responsabilità, dell’affidabilità certa, granitica, fedele nel tempo… della partecipazione completa fino al sacrificio totale di sé.
Eppure, l’archetipo dell’Eroe Solare non appartiene solo alla storia del tempo che fu. Non è una leggenda “datata” dell’epoca mitica. Piuttosto, è una configurazione archetipa inalienabile, reale e concreta di cui la psiche maschile ha avuto, ha e continuerà ad avere sempre bisogno. Mille analogie e sfumature la collegano all’archetipo del Cavaliere che incarna l’interiorizzazione e la difesa di alcuni valori basilari: quali la purezza, la lealtà, l’onore, l’impegno, la difesa del più debole e, infine, la fedeltà a una donna amata, ad una causa o a Dio.
“La cavalleria – scriveva a tal proposito Chevallier-Geerbrant - dà uno stile alla guerra come all’amore e alla morte: l’amore è vissuto come un combattimento, la guerra come un amore e ad ambedue il cavaliere si sacrifica fino alla morte lottando contro tutte le forze del male…L’ideale cavalleresco sembra inseparabile da un certo fervore religioso”
Questi, insomma, erano i paradigmi sui quali, soltanto fino a poco tempo fa, si modellava la virilità dei ragazzi durante la crescita… paradigmi che oggi – per tutta una serie di motivi che sarebbe troppo lungo illustrare – sono precipitati nelle tenebre dell’inconscio collettivo e individuale.
Il risultato di questa mancanza sul piano della coscienza ordinaria è che il modello di virilità a cui possono ispirarsi i ragazzi di oggi nel corso della loro evoluzione non è più quello della Virilità Olimpica (secondo l’accezione del termine usata da Bachofen) bensì quello della Virilità Ctonia o Fallico-narcisitica (così ben descritta da Alexander Lowen).

Molte attuali patologie del vissuto erotico maschile, pur non originando direttamente da quanto sopra descritto, traggono tuttavia nutrimento e rafforzamento da questo modello distorto di virilità.
È il caso, ad esempio, della sindrome dell’amatore compulsivo che abbraccia tutte le gradazioni che vanno dal “Casanova” al “Don Giovanni”.
Ora sia chiaro: i primi passi mossi dai ragazzi in quella che sarà la loro vita adulta futura non possono (e non dovrebbero) evitare di essere condizionati e spinti dalla Libido – anche in maniera cieca e violenta – verso la volubilità, l’instabilità e addirittura la promiscuità delle prime esperienze erotiche. Occorre molto tempo al giovane uomo per sentirsi sicuro delle proprie capacità virili e per soddisfare la propria naturale curiosità verso quel “misterioso pianeta” rappresentato dalle donne. Questa perciò sarà l’epoca “fisiologica” delle mille avventure, degli incontri mordi-e-fuggi, oppure degli “amori eterni” bruciati nel giro di poche settimane. Questa è l’epoca della leggerezza nonostante tutto, della novità ad ogni costo, della passione “a tempo determinato”, della frenesia, dell’ingordigia, e della voluttà insaziabili.
Ma ciò che è fisiologico a una certa età diviene patologico ad un’altra… Non c’è ovviamente un limite d’età vero e proprio ma, in generale, dovremmo immaginare che il fuoco della Libido dovrebbe pian piano andare scemando di estensione e aumentare invece di calore e di stabilità. E’ un momento magico nella vita di un uomo o, almeno, dovrebbe esserlo: è il momento in cui egli dovrebbe saper convogliare il suo “desiderare” verso un’unica donna che diverrà così il simbolo vivente di tutte le donne possibili e immaginabili. Verso quest’unica, sola donna dovrebbero allora potersi dirigere le sue forze di uomo adulto maturando responsabilità, affidabilità e protezione.
Solo queste qualità realizzano la pienezza della virilità maschile rivelandosi, a lungo termine, non solo o non tanto doni benefici per la donna e i figli che li ricevono, quanto piuttosto motivi intimi e segreti di stabilità, equilibrio e dignità per l’uomo capace di esprimerli.
È ovvio che – alla luce dei nuovi tempi - c’è sempre spazio per accorgersi di possibili errori di valutazione, di scelte avventate, di inganni subiti o di speranze mal riposte. Nell’epoca dell’anima cosciente, il cammino che conduce all’amore sacro è complesso e irto di errori. Tuttavia la stella cometa che indica il cammino dell’uomo virile dovrebbe risuonare della capacità di sacrificare le parti egoiche e infantili di sé e del naturale desiderio di proteggere gli esseri amati. Solo queste potenzialità possono giustificare gli eventuali errori commessi e legittimare il desiderio, ogni volta, di ricominciare una nuova avventura.
Molto spesso, però, non è questo il caso. Piuttosto gli uomini moderni si attardano nell’età della spensierata giovinezza cumulando storie, incontri e avventure delle quali è difficilissimo, se non impossibile, cogliere un qualunque autentico significato. Come ho accennato all’inizio di questo articolo, l’impulso può derivare sia da un atteggiamento ludico e giocoso fine a se stesso – come quello che viene descritto metaforicamente nelle sindromi di Peter Pan e Casanova – e che Jung ha legato invece all’archetipo del Puer Aeternus, così come da un atteggiamento compulsivo di rapina e conquista – come quello espresso dalla figura di Don Giovanni – il quale ultimo, al di sotto di un evidente collezionismo numerico, mal nasconde un’ansia di prestazione che rasenta l’impotenza vera e propria. Tra questi due estremi, tutte le gradazioni possibili e immaginabili che oggi sono rintracciabili nel vissuto più o meno sconclusionato di molti uomini moderni.

La patologia opposta, almeno per quello che mi è dato sapere, non risponde ad una nosografia clinica specifica, anche se presenta un margine di diffusione altrettanto significativo della prima e sottende una maggiore pericolosità. Per subito intenderci, mi riferisco qui a quella scissione dell’immagine femminile presente nella struttura psichica di molti uomini a causa della quale essi distinguono e  separano - più o meno coscientemente – la “brava donna” di famiglia, casta e pura, spesso madre dei propri figli, dalla donna di piacere e dai facili costumi. La prima forzatamente immaginata virtuosa e morigerata, interprete di una sessualità “accademica”, inadeguata a realizzare giochi trasgressivi e priva di qualunque licenziosità erotica. In pratica una “santa donna” che non dovrebbe neanche lontanamente essere offesa costringendola a chissà quali capriole.
Queste, piuttosto, sono la specialità della seconda, la donna di piacere, la meretrice, la sgualdrina vogliosa, la cui turpe colpa – è incredibile questa fantasia maschile - sarebbe proprio quella di desiderare le stesse cose che l’uomo desidera e di provare (anche lei) piacere nel realizzarle. Con ciò, ovviamente, esaltando la voglia e il desiderio dell’uomo.
Credo che al fondo di questa ignominiosa “capriola psichica” di alcuni uomini moderni si nasconda, in verità, una terribile paura dell’eros femminile che, appunto per questo, deve essere depotenziato e offeso attraverso un pre-giudizio moralistico. La paura però – si badi bene – non riguarda l’esuberanza o gli eccessi dell’eros femminile in quanto tali (da questi infatti si viene sedotti), quanto piuttosto dal fatto che “tutte le donne” possano esprimerli. Questo, infatti, è il pensiero tremendo: che tutte le donne possano nascondere un’incontenibile focosità erotica. D’altra parte, un libero riconoscimento e un sano apprezzamento dell’universalità dell’eros femminile costringerebbe l’uomo a dover fare i conti con la figura della madre e a riconoscerla – in quanto donna – portatrice potenziale di quegli stessi impulsi. Questo è il pensiero inconscio, ma inaccettabile, di molti uomini che – incapaci di portarlo a coscienza - lo risolvono spesso operando una terribile scissione nel proprio immaginario.
Da una parte le Madri, caste e pure, desessualizzate, “angeli del focolare” con le quali si può copulare solo per mettere “su” famiglia e ottemperare così alle aspettative della Patria o di Dio; dall’altra parte le “Poco-di-buono”, le donne di malaffare, quelle “facili” e puttane proprio perché capaci di desiderare il sesso e di provarvi piacere.



Ed è ovvio, allora, come solo con queste ultime l’uomo possa lasciarsi davvero andare e mostrare tutta la propria esuberanza, la propria fantasia, la propria lascivia…
La verità, anche se nessun uomo “scisso” lo ammetterebbe mai sul piano cosciente, è che la loro stessa sessualità è ambivalente. E anziché essere sempre percepita da questi uomini come un’espressione di gioia, di piacere e di rispetto – anche là dove si esprime nella fantasie più azzardate – si scinde appunto in una “sessualità sporca” che viene però proiettata sulle donne con cui essi riusciranno ad esprimerla, e una “sessualità pulita” che viene invece condivisa con le donne che saranno le madri dei loro figli.
Non è incredibile? Siamo nel 2012… ostentiamo una modernità che sarebbe il risultato di una lunga evoluzione culturale, politica e religiosa… e alcuni di noi uomini si comportano né più né meno come i più fanatici dei Talebani. Qualcosa non deve aver funzionato in occidente se nel mio studio di psicoterapia, soprattutto in questi ultimi anni, sono sfilati non pochi uomini con manifeste problematiche di questo tipo. Certo… non sempre la gravità della situazione è ai massimi livelli. Molti uomini vivono la propria maturità “accontentandosi” delle proprie donne-mogli-madri dei propri figli e solo occasionalmente si lasciano afferrare da una qualche tentazione trasgressiva. In apparenza saremmo lontani anni luce da coloro che, invece, relegano la propria donna in casa e dividono il loro tempo tra mille e una fidanzate. Ma, appunto, è solo apparenza. In realtà il tema di fondo è il medesimo: l’incapacità di con-dividere con la propria donna le fantasie più segrete, i giochi più azzardati, i bisogni più vergognosi. Come conseguenza di questa mancata con-divisione, la scissione interna ed esterna dei due partner si allarga e si approfondisce, andando ad interessare ambiti sempre più significativi di quella che dovrebbe essere considerata una vita in comunione.
Lentamente, ma inesorabilmente, gli interessi e i desideri dell’una e dell’altro si andranno diversificando, le forze migliori dei due partner verranno impiegate per inseguire progetti fin troppo distanti e alla fine - non sempre, ma molto spesso - i due coniugi, piuttosto che con-vivere, finiranno per coa-bitare sotto lo stesso tetto. Con ciò perpetuando la patologia di generazione in generazione: perché l’uomo-padre tenderà sempre più a scomparire e ad assentarsi dal vissuto dei propri figli (maschi o femmine che siano... anche se qui ci interessa solo il vissuto dei figli maschi). Mancherà di trasmettere loro, attraverso le parole, gli sguardi e i gesti quotidiani, quel sano desiderio che un uomo dovrebbe sempre riversare sulla propria donna. E i figli così abbandonati, cresciuti da una madre privata del proprio uomo, dovranno difendersi dalle aspettative incestuose (ancorché inconsce) che essa proietterà su di loro. Si difenderanno come potranno: spesso scindendo il proprio immaginario, che si comporrà così di “Femmine caste e pure”, intoccabili come le proprie madri, e “Femmine lascive”, sulle quali proiettare la parte migliore e la parte peggiore della propria libido.
Con ciò il cerchio si chiude, lasciando ognuno dei protagonisti del dramma da solo con i propri fantasmi. Solo la presa di coscienza dell’uomo divenuto finalmente adulto potrebbe spezzare il “cerchio malefico”… La presa di coscienza di un uomo che divenisse perciò capace di esprimere impegno civile, fedeltà ai propri cari e protezione… ma che non mancasse di fondare tali qualità interiori sulla spregiudicatezza, sulla curiosità e sul rinnovato desiderio di esplorare insieme alla propria compagna di vita gli orizzonti infiniti dell’Eros.
Per quanto possa sembrare incredibile in un’epoca intellettualizzata come quella di oggi, un tale uomo – che vivesse tali contenuti più che pensarli - non avrebbe bisogno di molte parole o di chissà quali gesta per educare i propri figli: gli basterebbe essere loro vicino.

venerdì 8 febbraio 2013

CHI SONO








Dott. Piero Priorini, psicanalista junghiano e sessuologo
Con studio a Roma, a Bracciano e a Trevignano Romano.
Iscritto all’Albo degli Psicoterapeuti del Lazio al N° 655


Il dott. Piero Priorini è nato a Roma il 03. 05. 1949. Si è laureato in giurisprudenza nel 1974 e in psicologia nel 1983 presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Nel 1970 inizia un training di psicologia del profondo presso l’Istituto junghiano G.A.P.A. (Gruppo Autonomo Psicologia Analitica), divenendone socio ordinario nel 1980. Dal 1976 lavora come psicanalista junghiano libero professionista. Nel corso degli anni ha frequentato corsi di formazione in Sessuologia, Bioenergetica, Psicologia Transazionale e Ipnosi.

Una vita ricca di esperienze culturali (conferenze sulla psicanalisi tenute in varie città italiane, rassegne cinematografiche ad indirizzo psicanalitico, corsi presso l’università e in scuole di formazione privata), esperienze artistiche (giovane batterista in una rock-band, corsi di Teatro, di Danza, di Fotografia e Multivisioni), esperienze sportive (sci estremo, alpinismo, parapendio, arti marziali) e di viaggi in 4x4 (Estremo e Medio Oriente, Africa, Stati Uniti e America Latina), gli hanno permesso di scrivere e pubblicare cinque libri: tre saggi psicanalitici e due taccuini di viaggio e di antropologia.

Visita il sito ufficiale del Dott. Piero Priorini:
www.piero.priorini.it

Tel 328 0572102

giovedì 7 febbraio 2013

Antropologia



La Bellezza della Donna


Del legame occulto, più che “simbolico”, tra il Principio Femminile, le donne e la bellezza, ho già scritto più volte in articoli, saggi e brevi racconti. Sarebbe sciocco da parte mia ripetermi, perciò, presumendo che chi mi conosce abbia letto almeno qualcuno dei miei precedenti lavori (consultare ad esempio: http://www.pieropriorini.it/index_file/ladonnasalverailmondo.html) partirò dall’assunto che, di tale legame, si conoscano le radici. Tuttavia, per correttezza verso nuovi e occasionali lettori, mi si conceda di ricapitolare in sintesi tali presupposti.
Punto di partenza delle mie ricerche è sempre stata la Realtà Archetipica e l’osservazione degli elementi e delle qualità che la caratterizzano nel suo dispiegarsi nel mondo fenomenico. E questo perché, in sintonia con la psicologia del profondo di C. G. Jung e il convincimento di molti suoi esegeti, sono convinto che siano questi elementi e queste qualità ad imprimersi nella realtà quotidiana e, almeno in parte, a condizionarla. Non viceversa! In altre parole, ciò significa che il Principio Femminile e il Principio Maschile, con le loro specifiche qualità, oltre a condizionare molti dei processi del mondo fenomenico, soprattutto presiedono all’essere fisico e psichico delle donne e degli uomini i quali poi, a seconda di numerose variabili tra loro indipendenti (facoltà e attitudini innate, educazione, condizionamenti ambientali, ecc…), possono respingere oppure accogliere tali qualità. E possono farlo in maniera più o meno parziale o assoluta.
Sottolineando, ancora una volta, che le sintesi riassuntive non sono mai in grado di restituire un immagine esaustiva dei fenomeni che, appunto, vogliono solo riassumere, sarà tuttavia opportuno qui ricordare che se l’asse portante dell’identità del Maschile può essere considerata La Forza e i suoi derivati (coraggio, determinazione, aggressività, attività, ecc…), e che tutti si riassumono nel Fallo Eretto, centro gravitazionale del Femminile può essere invece considerata La Bellezza e i suoi specifici derivati (recettività, affettività, duttilità, creatività, vitalità, ecc…), che tutti si riassumono nelle Rotondità Corporee della donna.
Sono questi elementi archetipici che, in quanto universali e perenni, si dispiegano nel destino di tutti gli uomini e di tutte le donne, e ciò a prescindere – come ho già tentato di spiegare - dall’accoglimento o dal rifiuto, totale o parziale, che ogni individuo può liberamente esercitare nei loro confronti. A prescindere dalle forme contingenti che essi di volta in volta assumeranno nel tempo e nello spazio. E, infine, a prescindere dalle innumerevoli variazioni culturali e cultuali. Perciò, l’influenza del Principio Archetipico, Maschile o Femminile, può essere percepita tra gli Inuit che hanno trascinato la loro esistenza tra i ghiacci perenni, così come tra gli Himba che hanno invece popolato la costa nord della Namibia; si è fatta sentire negli usi e nei costumi degli antichi romani, così come in quelli della più rigida cultura anglosassone, ha condizionato le usanze della secolare cultura cinese così come quelli della più moderna popolazione newyorkese. Le donne sempre sensibili alla propria estetica; gli uomini sempre impegnati a dimostrare il proprio vigore.
Dato tutto ciò per provato, cos’altro aggiungere? Quale bisogno di ricamare su dati di realtà che a tutti dovrebbero apparire incontrovertibili? Nessuno! Se non forse quello di voler sottolineare l’incredibile fedeltà della donna moderna al proprio mandato archetipico.
Mi spiegherò meglio. La visione della portata e dello spessore del fenomeno che sto per descrivere si è accesa all’improvviso in me, che da anni tratto queste tematiche, soltanto poche settimane or sono, durante un ultimo viaggio in India. Da giorni mi compiacevo di osservare i magnifici colori dei Sari indossati dalle donne indiane quando, come se fossi stato colpito da un lampo, mi resi conto del fatto che, forse, più del novantacinque per cento delle donne che osservavo vestivano con i costumi tradizionali, mentre si e no il dieci per cento della popolazione maschile faceva altrettanto. Così, al fianco di donne giovani o vecchie, povere o ricche, disimpegnate oppure intente nei più duri e umili lavori, tutte però in sari e veli, in un tripudio di accesissimi colori, al loro fianco, dicevo, c’erano uomini grigi, vestiti all’occidentale, con jeans, scarpe da ginnastica Nike o Reebok, magliette di calcio con i numeri di Totti, Ronaldo o di Lionel Messi, maglioni dai colori scuri, smorti e tristi, oppure con giacche a vento nere e informi.









Perché?
Mentre me lo chiedevo, mi resi conto però che la stessa cosa avevo sempre osservato ovunque nel mondo: in Medio Oriente, in Africa, in America Latina… Forse non con la stessa schiacciante proporzione percentuale ma, comunque, pur sempre esorbitante. Le donne bellissime nei loro abiti o vesti tradizionali, con le acconciature, i trucchi e i gioielli che le avevano celebrate nel corso della storia. Gli uomini inguardabili, dentro abiti che non gli appartenevano, brutti anche nei rari casi in cui si trattava di vestiti di prestigio. Smunti. Tristi. Inadeguati.
Ancora una volta… Perché?
Come era possibile che nessuno avesse mai rilevato l’assurdità del fenomeno? O, almeno, la sua dissonanza percettiva?
Non feci in tempo a stupirmi della mia osservazione che già mi stavo rispondendo: è probabile che il fenomeno che stavo contemplando non fosse altro che la riprova di quella differenza sostanziale tra il Principio Femminile e quello Maschile di cui sempre mi sono interessato al livello professionale. È innegabile, infatti, che anche gli uomini moderni sono fedeli alle Qualità Archetipiche proprie del Maschile. Anzi, le stanno acuendo ed esasperando: gonfiando i muscoli in palestra, imponendo alle donne il proprio egocentrismo o devastando il mondo con guerre assurde il cui unico scopo è il raggiungimento del Potere e della Ricchezza. Che, a loro volta, sono un modo come un altro per dimostrare a tutti quanto grosso e duro sia il loro fallo.
La donna, dunque, vestendo così come si veste, sorridente, sempre carica di bambini, un po’ dovunque nel mondo, non fa che raccontare la sua fedeltà a se stessa: testimone della Bellezza, dispensatrice di Vita, messaggera di Pace, interprete della Gioia e della Speranza. Innovativa, scaltra, sempre attenta, competente, sagace e smaliziata… nonostante tutte le difficoltà che un Maschile, non troppo degno di essere alla sua altezza, scarica da tempo sulle sue spalle.


Perciò la carrellata di fotografie che seguono, scattate da mia moglie, vogliono essere un omaggio a tutte le donne che, in un momento così drammatico come quello che il mondo intero sta attraversando, con questa tacita fedeltà a se stesse, offrono un esempio vivente delle poche alternative possibili che abbiamo per ritrovare il senso e il significato del nostro esistere in questo mondo.








































































































Articoli di psicoanalisi


Quale Terapeuta?
"Cento anni di psicanalisi - è intitolato uno dei libri di J. Hilmann - e il mondo va sempre peggio." Certamente… quella di Hilmann è una provocazione bella e buona. Ma qualcosa di vero la contiene. Soprattutto se ammettiamo il fatto che al di là dei limiti ordinari della psicoterapia - comuni a qualunque forma di medicina o pratica terapeutica - e di quelli poi invalicabili del destino ultimo di ogni essere umano, un numero incredibilmente alto di psicoterapeuti sono purtroppo inadeguati. Non tanto per mancanza di formazione, preparazione culturale, serietà o buona volontà, quanto piuttosto per basilare mancanza di attitudine (e mi verrebbe voglia di aggiungere: terapeutica e morale). Che fare allora? Buttare tutto nella spazzatura, o imparare a navigare nel periglioso mare scegliendo magari il capitano giusto (o comunque quello meno sbagliato) a cui affidare il compito di condurre la navicella della nostra psiche fuori dal gorgo nel quale si trova a rigirare su se stessa? Convivere con il proprio disagio, o sciogliere i nodi che uniscono impropriamente la teoria clinica alla pratica, e ri-appropiarsi del diritto di scegliere il proprio terapeuta?
Il fatto è che la psicoterapia (in tutte le sue variegate forme) può essere considerata uno dei fenomeni più contraddittori e paradossali che l'umanità abbia prodotto nel corso dell'ultimo secolo del trascorso millennio, e che appunto, in quanto paradossale, non è stato ancora compreso nella sua più profonda natura. Soprattutto dal pensiero ingenuo "dell'uomo della strada" il quale, altrettanto paradossalmente, è proprio colui che di questo strumento dovrebbe servirsi per arrivare a conoscere meglio se stesso..
Proviamo allora ad osservarla meglio e a trovare un senso tra queste sue mille contraddizioni.
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Quando vide la luce, sul finire dell'ottocento e i primi del novecento, ad opera del genio indiscusso del maestro viennese, la psicanalisi rappresentò la risposta più coerente ed adeguata ai bisogni dell'anima malata dell'uomo moderno occidentale. Come è ovvio fu figlia della sua epoca ma, crescendo, era inevitabile che continuasse a fare i conti con la storia; ed è lungo questo percorso che ha più volte rischiato - e ancora continua a farlo - di perdere contatto con le proprie radici.
Difatti, contravvenendo alle indicazioni del suo stesso ideatore (che intuitivamente aveva auspicato la futura emancipazione della sua creatura dalla matrice medica) la maggior parte dei suoi successori operò in senso contrario e - vittime inconsapevoli di un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti della scienze esatte - diedero vita ad un processo (non ancora terminato) di sistemazione e inquadramento rigoroso della teoria originale. Lo scopo - più o meno confessato - era quello di ottenere il pieno riconoscimento del loro stesso operare e l'iscrizione della psicanalisi appunto nell'albo delle scienze.
Ma - haimé - la psicanalisi non è una scienza. Non ne possiede i requisiti, e quando qualche ricercatore preparato ha voluto sottoporla alle prove del caso in pratica l'ha fatta a pezzi, scoprendo che è autoassertiva e dogmatica, né più nemmeno come tutte quelle sette pseudo-religiose, esoteriche e/o comunque salvifiche di cui è pieno il nostro variopinto mondo. Ovviamente una differenza c'è, e sostanziale. Perché la psicoterapia in una alta percentuale statistica dei casi funziona… funziona davvero; ma al di là della fondatezza delle teorie della personalità (che sono quello che sono), dell'esattezza rigorosa dei protocolli nosografici, dell'accurato studio e della continua verifica dei principi psicodinamici, se la psicoterapia funziona ciò è dovuto alle capacità e alle motivazioni profonde di ogni singolo operatore.
Tant'è vero che ci sono state occasioni (e purtroppo ancora ce ne sono e forse sempre ce ne saranno) in cui singoli terapeuti - usando sostanzialmente lo stesso materiale clinico di riferimento e il gergo più o meno esoterico, ma corretto, di tutti gli altri - hanno finito per creare piccoli o grandi gruppi di discepoli e adepti fanatici a cui nessuno riuscirà mai a dimostrare la condizione di plagio psicologico nella quale si sono venuti a trovare.
Ma attenzione: a ben vedere, la responsabilità di questo stato di cose non dipende della rigorosità scientifica o meno della teoria di riferimento del terapeuta, né tantomeno dal titolo accademico di quest'ultimo, perché tutte le teorie psicologiche (nessuna esclusa) sono auto-referenti, non falsificabili (vedi Popper) e auto-dimostrative, mentre nessuna laurea ha mai potuto, né mai potrà, garantire la sanità mentale, l'attitudine terapeutica e la solidità morale di un terapeuta.
Di fatto non c'è teoria che non presumi una vera e propria capacità intuitiva (e oserei aggiungere "visionaria") da parte dell'operatore, e che, appunto in quanto capacità intuitiva, non può essere certamente insegnata. E' pur vero che i più grandi didatti si sono sempre raccomandati di considerare la terapia più un'arte che una scienza, e come tale di insegnarla, ma è poi anche vero che queste loro raccomandazioni non hanno trovato un grande riscontro nelle scuole di formazione. All'arte si guarda con sospetto negli ambienti scientifici, e non si è disposti ad ammettere che essa possa essere una forma ben più evoluta di "conoscenza del reale"; troppo inafferrabili i suoi presupposti, assolutamente non condivisibile come esperienza e senz'altro non riproducibile. E poi come gestirla nell'ambito delle scuole di formazione? E soprattutto (problema vecchio come il mondo) senza un parametro di riferimento oggettivo, chi potrebbe mai garantire dei garanti? Non dimentichiamoci che fu proprio in nome di una maggiore rigorosità scientifica e, soprattutto, di una maggiore garanzia dei così detti "utenti" (termine orribile) che negli anni novanta vennero chiuse le scuole psicanalitiche private e la formazione terapeutica monopolizza dall'università. Con il risultato che - se prima chiunque poteva spacciarsi psicoterapeuta - oggi occorrono invece 24 esami alla facoltà di Psicologia e lo sborso di svariati milioni alle scuole che gestiscono ufficialmente la formazione per raggiungere lo stesso traguardo. Resta da chiedersi se l'utente fosse più protetto quando vagava nella giungla della psicanalisi selvaggia ed era perciò legittimamente sospettoso, o lo sia invece ora che, giustamente, fa affidamento sulla garanzia di un albo.
Come se questo potesse effettivamente garantire alcunché.
Ma c'è di più: se è fondamentale che ogni terapeuta possegga una buona conoscenza della materia medica, e che tale conoscenza sappia poi arricchire e movimentare grazie ad una innata attitudine artistica, non meno importante dovrebbe essere poi la sua levatura spirituale (o morale, che è la stessa cosa); non tanto come aderenza fideistica a questa o a quella confessione, bensì come apertura incondizionata ai più profondi bisogni dell'essere umano, che di spiritualità sono intrisi.
In altre parole ciò vuol dire che l'individualità del terapeuta è il vaso alchemico in cui le conoscenze intellettuali apprese, le capacità creative innate e gli slanci morali conquistati si incontrano, e le sue esperienze di vita rappresentano il fuoco al cui calore tutto questo materiale continua ad amalgamarsi.
Come dire, insomma, che non esiste nessuna psicanalisi o psicoterapia in quanto tale, bensì piuttosto singoli terapeuti. La terapia è un Incontro - intellettuale, emozionale e spirituale - tra due esseri umani e ciò che ne può scaturire, come in tutti gli incontri, è unico e irripetibile.
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Ma se è vero che il "terapeuta è la terapia", come rintracciare quello giusto?
Ogni tanto arriva nel mio studio qualche paziente che mi racconta di sue precedenti esperienze psicanalitiche: è stato mesi (a volte anni) seduto di fronte ad un terapeuta che sentiva emotivamente distaccato, oppure sdraiato su un lettino dietro il quale un altro terapeuta non pronunciava mai una parola, oppure ancora in relazione con qualcuno che non usava il suo stesso codice verbale ed esperenziale… e sempre mi sento confessare che ha pensato: "Deve essere colpa mia, forse è una resistenza che dovrei superare…"
Quando mi accade cerco di spiegare alla persona che ho davanti che la psicoterapia è sostanzialmente un Incontro, una esperienza emozionale tra due persone, e che non ha senso abdicare il proprio giudizio a favore di dogmi teoretici e luoghi comuni. E' senz'altro vero: il lavoro analitico prevede il difficoltoso superamento di molte resistenze inconsce, ma non tutte le resistenze sono "resistenze" e occorre intuito da parte di entrambi per riconoscere le une dalle altre. L'aderenza incondizionata alla tecnica o alla teoria di turno è pericolosa. Perché sono le teorie che dovrebbero sforzarsi di aderire alla realtà dell'uomo, non l'uomo alle teorie, per quanto corrette quest'ultime possano apparirgli. Nessun terapeuta - spiego ancora - solo in virtù dei suoi attestati, dovrebbe essere considerato appunto un buon terapeuta o, comunque, il terapeuta adatto per chiunque; e dopo anni e anni di lavoro e di esperienze raccolte sul campo mi spingo certe volte a dire che non conta neppure il suo orientamento teorico (freudiano, junghiano,  bioenergetico, cognitivista, relazionale, ipnotista o quant'altro…), bensì solo ed esclusivamente quello che è come persona.
Ma come scoprirlo?
A chi me lo chiede in genere rispondo: "Soprattutto con la pancia…. Lasciate parlare il vostro istinto, dategli credito, e otto volte su dieci quello vi darà la risposta giusta."
Ma se la persona davanti a me non si fidasse del proprio istinto, e fosse perciò indeciso, gli suggerirei allora di contattare quanti più terapeuti possibili, rivolgere loro una sola innocente domanda: "Dottore, lei crede nella psicanalisi?" e scartare immancabilmente tutti coloro che rispondono: "Si!"
Perché la Certezza uccide e solo il Dubbio lascia spazio alle speranze.


Articoli di psicoanalisi


L’uomo è un essere invisibile




Garantisco il lettore che questo non è un articolo di fantascienza né tantomeno di New Age, bensì un articolo di psicologia del profondo il cui autore non è affetto da psicosi delirante, è sobrio e vanta una formazione scientifica di tutto rispetto. Solo che, per quanto pazzesca, assurda o azzardata quest’affermazione possa sembrare, la verità è che tutti noi, uomini e donne che abitiamo questo pianeta, essenzialmente siamo gli uni invisibili agli altri. Questa però non è una metafora, un’allegoria o un’immagine retorica, bensì un fatto. Un dato incontestabile, anche se pochissimo evidente – bisogna ammetterlo – della natura ultima delle realtà.
Ma procediamo con ordine, e verifichiamo l’attendibilità di questa mia affermazione.
Potrei cominciare rimandando il lettore interessato agli ultimissimi paradigmi della ricerca scientifica i quali - in contraddizione con quelli propri dell’oramai superata scienza newtoniana – riconsiderano il ruolo dell’osservatore in relazione alla natura dell’oggetto osservato. In altre parole ciò significa, contrariamente a quanto supposto dalla vecchia scienza, che nessun ricercatore (osservatore) può presumere di prendere le distanze dall’oggetto osservato e, da una tale asettica posizione, studiarlo come ente fatto e finito, incondizionato e  non condizionabile dall’intervento che su di lui egli stesso compie. Al contrario, oggi sappiamo che l’osservazione condiziona l’ente osservato, lo modifica nella sua natura più profonda, a testimonianza del fatto che un “quid” più o meno invisibile collega tutti al Tutto e, dunque, ognuno ad ogni cosa. Solo che questo “quid” non è più, oggi, un fluido magico e misterioso, come quello supposto verso la fine dell’800, né tantomeno un etere invisibile e incommensurabile. Al contrario sembrerebbe rimandare ad un legame di natura subatomica – lo stesso che è responsabile del cambiamento istantaneo del senso di rotazione dello splin di due neutrini gemelli ancorché distanti miliardi di km nello spazio siderale – e che rimanda alle forze presenti nell’Ordine Implicato (supposto da David Bohm) o al Vuoto Quantomeccanico di Massimo Corbucci.
Spero di non aver di nuovo spaventato il mio lettore. Non c’è alcun bisogno di conoscere le attuali diatribe che dividono i fisici della meccanica quantistica per comprendere il mio assunto iniziale. Se ne ho riportato alcuni spunti era solo per introdurre l’idea che la realtà del mondo, quella realtà così solida, concreta e incontestabile che si dispiega sotto i nostri sensi, in verità non è affatto così solida, così concreta e così incontestabile come ci fa tanto comodo credere, bensì molto più evanescente e, in ultima analisi, occulta. Nessuno di noi percepisce la Realtà nella sua totalità! Ma ognuno di noi percepisce piuttosto quella porzione (piccolissima) di realtà che siamo stati educati – ma anche condizionati – a percepire.
Giunto a questo punto, prima di proseguire, potrei suggerire un facile esperimento: prendete tre, quattro, venti o cento persone specializzate in un qualche settore. Che so? Un botanico, un etologo, un pittore, un alpinista, un architetto e via discorrendo. E portateli ora, tutti insieme, in un grosso parco naturale. Fateglielo girare in lungo e in largo e a proprio piacimento. E alla fine provate a fare un’indagine profonda e scrupolosa di ciò che hanno visto: sicuramente risulterà che il botanico ha visto piantine di notevole interesse, l’etologo avrà individuato chissà quante colonie di animaletti, il pittore sarà rimasto colpito da cromatismi insospettati, l’alpinista avrà individuato appigli e appoggi su alcuni alberi che si prestavano per essere scalati e l’architetto avrà individuato la pianta organica del parco. Ma il bello è che nessuno avrà visto nulla, ma proprio nulla, di ciò che ogni altro ha invece percepito e gustato in ogni minimo particolare.
Sapete cosa significa tutto questo? Che ognuno di noi percepisce quel tanto di realtà che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’educazione, la cultura alla quale apparteniamo, le esperienze che abbiamo fatto e gli strumenti interiori che abbiamo a disposizione. E infine ciò significa che la realtà a cui tutti facciamo riferimento quando parliamo, quando ci muoviamo nel mondo, quando interagiamo con gli altri, in verità è una Convenzione! Tutti noi viviamo immersi in una Realtà Convenzionata, che siamo abituati a credere uguale per tutti ma che, al contrario, è profondamente diversa e Altra per ognuno di noi.
Fino a pochi decenni fa il fenomeno non appariva che in situazioni eccezionali, non tanto perché erano ancora da scoprire le leggi della nuova fisica, o le dinamiche psicologiche del linguaggio, della percezione sensoria o dell’esperienza emotiva. Piuttosto sono portato a credere che quanto meno l’essere umano era differenziato, quanto meno il suo Io era individuato, tanto più coesa appariva la convenzione di realtà della quale tutti partecipavano. Tra le popolazioni primitive, ad esempio, la cui vita interiore ed esteriore era scandita da rituali e tabù inderogabili, c’era poco spazio per la manifestazione dell’individualità specifica ed autonoma, e la sovrapposizione delle singole realtà fino a costituire quella realtà convenzionale che tutti poi avrebbero data per scontata, era perciò facile e immediata. Bene o male tutti partecipavano della medesima realtà.
Ma se ora partiamo da quelle primordiali aggregazioni umane e risaliamo la storia, su su attraverso le famiglie, i clan, le tribù, gli stati, le nazioni e l’attuale cosmopolitismo, ci accorgeremmo che all’ampliarsi del riferimento sociale fa tuttavia riscontro l’emanciparsi della individualità egoica dalla collettività nella quale un tempo era contenuta. Oggi, almeno in occidente, c’è la massima espressione della singolarità della struttura interiore di ogni individuo la quale, in massima parte, si scosta per tutta una serie di cause e di concause dalla condivisione della realtà. E questo nonostante l’appartenenza ad un medesimo territorio, la comune educazione - laica o religiosa - la cultura di fondo e l’incalzare della comunicazione di massa. La quantità di segnali, stimoli e impressioni che agiscono su tutti noi sono talmente tanti e diversificati che nessuno è in grado di appropriarsene e di elaborarli nella loro totalità Si potrebbe perciò anche dire che ognuno accoglie ciò che può, oppure ciò verso cui si sente attratto. Ognuno accoglie una parte infinitesimale dei dati a disposizione e, su tali dati, edifica poi la propria realtà. Una realtà che gli sembrerà concreta ed oggettiva, certa e unica, ma che non coinciderà più se non marginalmente con quella del proprio congiunto, o con quella del proprio vicino, o con quella di tutti gli altri. Ciò nonostante continuiamo a credere in una Realtà Comune senza accorgerci della sua convenzionalità.
Questo inganno che tutti subiamo, questa sorta di incantamento che ci illude di vivere nello stesso universo dove tutti vivono e assoggettati alle stesse leggi naturali, è perciò dovuto al solo fatto che la realtà che ognuno di noi si crea è si fondata su dati inoppugnabili, solo che essi sono parziali. Sono dati minimi di una Trasmissione Dati ben più vasta, ricca e generosa ma che la nostra coscienza non è in grado di contemplare nella sua interezza.
E così conviviamo, a stretto contatto di gomito: il prete che ha dedicato tutta la propria vita alla ricerca di Dio, convinto di salvare l’anima dei propri fedeli; l’amministratore delegato della grande multinazionale che riduce alla fame migliaia di lavoratori, convinto di rispettare il mandato dei propri azionisti; il grande chirurgo che vive ogni giorno immerso nel sangue e negli organi asportati, convinto di essere l’unico e il solo a salvare la vita ai propri simili (perché l’unica vita è quella organica); il giocatore di pallone che incanta una nazione con “l’intelligenza dei propri piedi” convinto di essere chissà quale grande uomo; l’avvocato che vede motivi di contenzioso ovunque; lo sportivo che vive solo per i propri record; il criminale che pensa esclusivamente a quali colpi mettere a segno; il play boy inveterato convinto che le donne siano tutte grandi puttane; l’astrologo che vede ovunque gli influssi delle stelle; la mamma che vive solo per i propri figli… E gli “strizzacervelli” (per fortuna non tutti) che a forza di contemplare le dinamiche più oscure dei loro pazienti sono convinti di vedere l’Invisibile!
Spero che si comprenda che sto semplificando: nessuno si limita nel modo che ho descritto e tutti, chi più chi meno, spaziano in altri ambiti. Ma per quanto vasti questi possano essere sono pur sempre una povera cosa di fronte alla vastità della realtà ultima dell’esperienza che condividiamo.
Perciò provvediamo… continuando a credere in una realtà comune. In una convenzione di realtà.
In questa convenzione rientrano le idee sulla nostra stessa natura. Chi potrebbe negare la nostra completa visibilità? Eccoci tutti qua: una testa, due braccia, un torace, due gambe… capelli, occhi, bocca. I caratteri sessuali maschili o femminili… alti o bassi, magri o grassi, giovani o vecchi, bianchi, neri, gialli o rossi... Eccoci qui, ben esposti alla vista.
Sono sicuro che quanti si sentono fini psicologi a questo punto avranno mangiato la foglia:
- Non basta – avranno pensato sorridendo – c’è di più…
E come dargli torto? Certo che c’è di più.
Come si chiama questa persona? Quanti anni ha? Che istruzione ha ricevuto? Quali talenti ha ricevuto dalla vita? Quali sono state le sue esperienze più importanti? Che lavoro fa? E’ gay o eterosessuale? Quale partito vota? E’ atea o credente? Vive da sola o in compagnia? Quali sono i suoi hobby? Quali i suoi progetti futuri?
Prendiamo tutte queste informazioni, sovrapponiamole a ciò che i nostri sensi percepiscono e… insomma, potremmo dire di avere una più che discreta “vista” di insieme della persona che abbiamo di fronte. Possiamo sentirci soddisfatti.
Peccato che le cose non stiano affatto così e che, ancora una volta, la realtà convenzionale offuschi non solo il nostro sguardo, bensì anche la nostra coscienza. Siamo tutti convinti, infatti, che l’essenza dell’essere umano che ci sta di fronte sia rinchiusa nel tempo e nello spazio, che l’Io dell’ uomo finisca dove finisce la sua epidermide e che, tutt’al più, nella massa cerebrale racchiusa nel suo cranio si occultino i suoi ricordi, le sue capacità, i suoi talenti, le sue mancanze, i suoi progetti, le sue fantasie, le sue speranze. Siamo convinti che l’uomo o la donna che ci stanno di fronte si esauriscano nella loro corporeità e nei tratti psicologici che ostentano.
Ma – lo ripeto – non è così. C’è un territorio più profondo, c’è una zona più ampia, vagamente assimilabile all’inconscio della psicanalisi, dove continuano ad esistere tutte le esperienze che hanno fatto parte della vita di ogni persona. Solo che questo territorio dell’anima non è “contenuto” nelle cellule nervose, né tanto meno nel flusso molecolare delle sinapsi. Piuttosto rinvia a quella dimensione extra-spaziale ed extra-temporale a cui sopra ho accennato e nella quale è radicato l’apparire del mondo. Rimanda a quella dimensione invisibile dalla quale trae alimento e sostanza quella visibile.

Trenta raggi convergono nel mozzo
Ma è il vuoto del mozzo l’essenziale della ruota.
                             (Dal Tao Te Ching di Lao Tzé)

Ma il fatto che una dimensione sia invisibile non vuol dire che non esista. Vuol solo dire che non è rilevabile dalla nostra percezione sensoria che è tarata sulla spazialità. Ciò nonostante l’invisibile ha una sua “consistenza”, una sua “dimensione” o, se vogliamo, un suo “spessore”. Solo che, appunto, non si vede. C’è, ma non appare.
Se fossimo in grado di percepirlo, allora, guardando un uomo o una donna, vedremmo un “campo di forze” immenso che – per così dire – alla sommità va condensandosi fino a costituire, proprio all’apice, una piccolissima “perla”, ben solida e compatta. Quella piccolissima perla è la nostra testa, gli elementi semi-condensati appena sotto la testa rappresentano il nostro corpo fisico, mentre tutta la restante, immensa parte di forze plastico-dinamiche è la nostra completa individualità.
Sembra fantascienza, vero? Ma non lo è. Questa è la Realtà della realtà.
Facciamo qualche esempio:
Anni fa si presentò al mio studio un uomo di una certa età. Dopo essersi assicurato del vincolo del segreto professionale, si presentò: era uno degli avvocati più famosi d’Italia. Era stato rappresentante legale di non so più quali grandi industrie italiane a partecipazione statale, era stato molto vicino ad alcuni degli uomini politici ai vertici del potere e, potremmo dire, le sue idee avevano svolto un ruolo importante nell’andamento politico del nostro paese per almeno alcuni decenni. Ebbene, quest’uomo rispettato, invidiato e temuto, mi confidò alla fine il suo segreto. Egli era ben consapevole di non valere assolutamente nulla, di essere un incapace… di essere un inetto, incompetente, inadeguato, maldestro pasticcione e di vivere nell’assoluto terrore di essere scoperto. - Prima o poi – mi confidò quest’uomo con il panico negli occhi - tutti coloro che mi hanno dato fiducia capiranno chi sono, scopriranno chi sono io veramente, e mi cacceranno con infamia!
Non credo che ci sia bisogno di molte parole da parte mia per confermarvi come il suo terrore fosse del tutto infondato. Ve li immaginate i nostri più grandi imprenditori e i nostri più importanti uomini politici – che non esiterei a definire veri e propri “Squali” economici – presi per i fondelli da un millantatore? Per decenni?
Ci sarebbe da ridere a crepapelle. E invece quest’uomo, affetto da una sindrome di abbandono che lo aveva convinto – fin da quando era piccolino - di essere “sbagliato”, cattivo, sciocco e, dunque, indegno di autentica considerazione, quest’uomo che si era laureato con i massimi voti in giurisprudenza (convinto di aver sempre avuto “molto culo”), che si era specializzato alla Bocconi di Milano (secondo lui era stato solo fortunato) e che aveva fatto guadagnare alle industrie di cui si era occupato decine di miliardi (senza merito alcuno, sosteneva), quest’uomo elegante, colto e raffinato era vissuto per sessant’anni nel terrore.
E adesso fate uno sforzo e provate a visualizzare il suo inferno personale: un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, per mesi e per anni, per decenni… Sempre con il fiato trattenuto, spesso con le pulsazioni cardiache alterate, bagnato di sudore freddo, invaso e tormentato da fantasie: “Adesso mi scopriranno, adesso se ne accorgeranno… mi cacceranno via e sarò additato al pubblico lubrico… che vergogna, Dio mio, che vergogna!”.  Era conosciuto come persona brillante e affascinante… in realtà spesso pagava belle donne che si prestavano ad accompagnarlo nelle occasioni mondane, perché la sua vita affettiva ed erotica era stata condizionata dalle stesse dinamiche, dalle stesse paure, dagli stessi fantasmi. Era sempre stato davvero terrorizzato e, all’epoca in cui l’incontrai, era così stanco di questo tormento interiore e della messa in scena che – almeno secondo lui - aveva recitato per tutta la vita che stava seriamente pensando al suicidio.
E adesso chiedetevi: ciò che si vede all’esterno quanta parte di quest’uomo rappresenta?
Poco o nulla. Sulla superficie dell’Oceano-Realtà galleggia la parte emergente di un iceberg. Per quanto gigantesca essa possa essere, è pur sempre povera cosa rispetto a quella parte di sé che la completa ma che giace, invisibile, sotto la superficie dell’Acqua.
Una donna, non più giovanissima, ma che doveva essere stata molto bella, si presenta un giorno al mio studio. E’ una professoressa universitaria, è singol, e vive perciò da sola in compagnia di una gatta oramai molto vecchia. Da bambina aveva molto amato la madre e guardato invece con sospetto un padre spesso assente e troppo scopertamente interessato all’universo femminile. La paziente mi racconta che un giorno, quando lei aveva 8 anni, tutta la famiglia fu coinvolta in un terribile incidente stradale che causò la morte della madre. La piccola rimase perciò con il padre il quale, inconsapevole che nell’immaginario della figlia egli era colpevole della morte della madre (perché al momento dell’incidente era lui che guidava l’auto), pensò bene di buttare benzina sul fuoco, facendole incontrare, negli anni, una dopo l’altra, tutte le giovani donne con cui lui si accompagnava. Donne “oggetto”, che il padre usava e gettava come se niente fosse. La bambina crebbe con un odio feroce nei confronti degli uomini… crebbe, sviluppò… divenne una bellissima ragazza e pensò bene di vendicarsi rendendo agli uomini “pan per focaccia”. In breve tempo divenne una “mangiatrice di uomini”. Uomini che anche lei “usava” cinicamente e “buttava” subito dopo averli fatti innamorare. Tuttavia, quando aveva 35 anni, incontrò un uomo, sposato, molto simile al proprio padre. Un uomo che da bambino era stato testimone delle numerose relazioni amorose intrattenute dalla madre di nascosto dal padre.  Tra la mia paziente e quest’uomo fu subito “cortocircuito”… ne nacque una relazione turbolenta in cui nessuno dei due contendenti era disposto a deporre le armi. Quando erano insieme lui (rievocando la madre) la trattava come una prostituta, una donnaccia poco di buono da usare per il proprio piacere. Con ciò vendicandosi della madre e, indirettamente, di tutte le donne! La mia paziente subiva, come affascinata (dal ricordo del padre), arrivava ad un estremo di umiliazione e poi fuggiva, allontanandosi da lui. Dopo poco però lui tornava a cercarla, promettendole di cambiare, di separarsi dalla moglie e di imparare ad amarla. Lei credeva alle sue parole (bisognosa di conquistare l’immaginario maschile-paterno inconquistabile) e il gioco ricominciava… perché dopo pochissimo lui riprendeva a trattarla come una puttana. Un gioco sempre uguale, sempre lo stesso… ognuno di loro due attratto e convinto a livello inconscio di riuscire prima o poi a risolvere, nella relazione con l’altro, il nodo nevrotico vissuto nel passato: lui perduto nel proprio amore-odio per la madre, lei smarrita nel proprio odio-amore per il padre. Un gioco micidiale, perverso, allucinante, senza scampo… che era durato 15 anni e che ancora era in piedi quando la donna entrò nel mio studio. Quando mi lasciò, due anni dopo, avendo conquistato solo una parziale autonomia da lui, mi disse:
- Se soltanto una volta lui mi dicesse: “Ti amo” potrei finalmente lasciarlo e rifarmi una vita.
Non riusciva a credere che quelle parole, quell’uomo, non le avrebbe mai potute pronunciare perché troppo fiero e vendicativo nei confronti della madre che lo aveva sempre tradito.
Vi invito ancora una volta a immaginare la vita interiore di queste due persone: un’intera vita attraversata da speranze, desideri, collere furibonde, odi profondissimi, bisogni, slanci d’amore, decisioni irrevocabili, promesse mai mantenute, bugie, menzogne, sogni infranti, progetti annullati e poi ogni volta ricostruiti, incontri d’amore, sfide sessuali, attacchi improvvisi indirizzati a fare male, ad uccidere l’avversario che poi, però, si cercherà di resuscitare. Un inferno! Un inferno che durava 15 anni… ma i cui prodromi erano già iniziati 20 anni prima quando sia lui che lei si erano persi, urlando, nei giardini della propria infanzia.
Chi vorrà sostenere che nell’integerrima professoressa o nel medico affermato che tutti i giorni si sono aggirati per le strade della nostra città, e che hanno incontrato amici, colleghi, studenti, pazienti, sconosciuti di passaggio, magari salutando e sorridendo, chi vorrà sostenere che in queste due persone siano stati riconoscibili e dunque visibili le loro più complete ed ultime realtà? Chi ha mai contemplato il loro Io più profondo? Chi li ha davvero visti?
Un ultimo esempio, di sfuggita: penso al prestigioso professore di università, sposato e con due figli, che mi confessò la sua insuperabile attrazione per il masochismo. La sua mente, per altro assai brillante, era quasi continuamente occupata da fantasie erotiche in cui “Padrone Severe”, vestite di cuoio e lattice, armate di manette e frustini, lo costringevano alle più umilianti torture portandolo solo infine ad un orgasmo liberatorio. Anche qui: incontri segreti, menzogne, sperpero di denaro, promesse di cambiamento fatte a se stesso, desideri morbosi, fantasie estreme, vergogna… molta vergogna. Sempre. E poi ancora rassegnazione, pensieri suicidi, voglia di riscatto, masturbazioni segrete, incontri umilianti, ricatti a volte… e ancora vergogna…
Cosa si vede di quest’uomo? Poco o nulla. Il suo Io è invisibile agli occhi del mondo. Ciò che si vede è poca cosa, una quisquilia, schiuma di mare sulla superficie dell’Oceano Profondo.

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È ovvio… si potrebbe ora obbiettare che la mia sia sempre stata una posizione particolare. Che lo studio di uno “strizzacervelli” non sia un laboratorio giusto per simili esperimenti.
Lo credevo anch’io, fino a pochi anni fa. Credevo fosse la “Patologia” ad essere invisibile.
Poi, pian piano, man mano che raccoglievo confidenze e testimonianze occasionali da uomini e donne straordinari che mi capitava di incontrare fuori dal mio stretto ambito lavorativo, mi sono accorto di quanti aspetti della vita interiore delle persone rimanessero sempre e comunque celati alla vista degli altri. Negli anni sono stato onorato, infatti, dalla fiducia di persone che mi hanno fatto partecipe di rivelazioni segrete e informazioni riservate sulla loro vita privata. Vite straordinarie, lo ripeto, nelle quali rilucevano generosità inimmaginabili, abnegazione e senso della responsabilità, sacrifici, scelte eroiche e coraggiose, progetti arditi, gesta spericolate e temerarie.
E allora ho capito. Con l’esperienza e la “vecchiaia” ho capito.
Siamo tutti esseri invisibili. Chi più chi meno. Abbiamo tutti le nostre vicissitudini occulte e siamo tutti attraversati da paure, speranze, bisogni, rimpianti, odi segreti, amori non confessati, fantasie perverse, ferite vergognose, rinunce coraggiose, sacrifici eroici, altruismi inimmaginabili. Tutti ci osservano, ma nessuno “ci vede” per quello che siamo. Noi stessi, tuttavia, vediamo solo una parte piccolissima e superficiale della realtà degli altri, perché quella che veramente conta è nascosta. Non appare, se non per brevi lampi di intuizione immaginativa. Ad esempio quando “amiamo” - come scoprì Oscar Wilde nei suoi ultimi giorni di vita passati in carcere per il reato di omosessualità – perché allora, e solo allora, cogliamo con la forza dell’immaginazione l’essere profondo e ideale dell’altro. Lo cogliamo in una sorta di Immagine Ideale che non è però, si badi bene, una costruzione arbitraria della fantasia, bensì un’autentica percezione visionaria dell’essere dell’altro colto nella sua completezza e nella sua verità.
Solo l’immaginazione d’amore può arrivare a tanto e svelare l’occulto.
Ma essa – da sempre - appartiene agli eletti!
Ai “Poveri di Spirito”.
Qualche volta, ma non sempre, e non per sempre, agli amanti…