giovedì 10 aprile 2014

La Penultima Spiaggia


                                          

         Dove Femminile e Maschile si incontrano



Il romanzo è acquistabile in formato cartaceo e in e-book formato EPab su:  www.lulu.com

E in e-book format Kindle su: www.amazon.it




                        Sinossi

Perché uomini e donne si cercano sempre con tanta caparbietà? E perché, di là dalle apparenze, è tanto difficile che riescano davvero a incontrarsi? Che cosa significa, oggi più che mai, divenire uomini o donne? E quali sono le qualità essenziali e irrinunciabili che ci contraddistinguono gli uni dalle altre?
Sesso, Eros e amore sono esperienze così diverse? Quando e come l’uno sconfina e trasmuta nell’altro? Oggi, nell’epoca del consumo frenetico e compulsivo di ogni cosa, è realizzabile l’amore fedele e duraturo?  E a cosa allude la sua realizzazione?
A queste e ad altre cruciali domande si diverte a rispondere l’autore di questo romanzo che occulta così, nelle vicende dei suoi personaggi, le conoscenze maturate in quarant’anni di attività psicoterapica.
Il romanzo, infatti, e non a caso, ruota intorno all’incontro fortuito tra una giovane donna, Sara Fabriani, e un anziano “strizzacervelli” – molto più folle che saggio, almeno all’apparenza – ritiratosi a vita privata in una casetta prospiciente una spiaggia del Tirreno, in una zona residenziale vicino Roma.
Sara ha ventotto anni, è stata abbandonata dal padre quando ne aveva sei, è in contrasto con la propria madre, si è laureata in letteratura moderna, fa la cameriera in un pub, è schiava di una travolgente storia d’amore con un uomo sposato e soffre di sporadici attacchi di bulimia, seguiti da vomito compulsivo.
L’anziano psicoanalista - che lei incontrerà sempre sulla spiaggia, in condizioni di confine tra l’assurdo e il ridicolo – sembrerà ogni volta giocare con lei, come il gatto col topo, ma in realtà, pur senza darlo a vedere, la guiderà a scoprire l’origine delle sue nevrosi e a trovare un’autentica centralità.
La storia è raccontata da una voce narrante che, in maniera distaccata ed equanime, descrive le caratteristiche psicologiche e i moventi dei vari personaggi. In realtà, l’unico personaggio effettivamente “raccontato” è quello di Sara e, in alcuni momenti, infatti, la voce narrante si confonde con la sua. L’anziano terapeuta, invece – dal bizzarro nome di Bartolomeo Maria del Poggio – non viene affatto “raccontato”, bensì lasciato immaginare al lettore. Quasi fosse, anche lui, più un Archetipo - quello del Curatore - che non un uomo in carne e ossa. Volendo, potrebbe essere immaginato come una sorta di Don Juan in campo psicoanalitico, anziché magico-esoterico.
Il racconto inizia quasi fosse un romanzo rosa ma poi, capitolo dopo capitolo, cresce d’intensità e si arricchisce di significato, esprimendo contenuti sempre più complessi e inusitati. Hanno questa funzione propedeutica i provocanti incontri erotici vissuti dalla protagonista i quali, oltre ad essere essenziali e significativi all’interno delle sue vicende amorose, raccontano piuttosto l’approfondimento conoscitivo che Sara farà di se stessa e dei misteri dell’Eros.




mercoledì 2 aprile 2014

Articoli di psicoanalisi


                                             LA PERDITA DI CONFINI





Soltanto quindici anni fa molti italiani non possedevano ancora un cellulare. I più evoluti potevano contare su una segreteria telefonica che, al massimo, avrebbe registrato i messaggi di quanti avessero osato lasciarli sfidando la vergogna di parlare a un 'marchingegno elettronico'. Tutti gli altri uscivano da casa, o dall'ufficio, e in pratica erano irreperibili. Solo che era normale essere irreperibili. Amici, conoscenti o clienti sapevano che se qualcuno aveva deciso di passare il sabato e la domenica fuori casa, quel qualcuno non sarebbe stato rintracciabile finché non fosse tornato. La sua sparizione dalla scena era non solo comprensibile ma addirittura legittima all'interno della vita privata di ognuno. Chi lasciava l'abitazione, o l'ambiente lavorativo, entrava perciò in una sfera di libera espressione all'interno della quale solo il proprio Io avrebbe deciso con chi, come, quando, dove e soprattutto se comunicare.
Sono passati solo quindici anni e se qualcuno, oggi, esce da casa scordando il proprio cellulare già sa che pagherà la sua dimenticanza con attacchi di ansia, preoccupazione e vaghi sensi di colpa. Non è una sindrome generazionale. Non a caso, per la strada, in autobus o in metropolitana, s’incontrano con una certa frequenza uomini e donne di settanta o più anni che, nonostante gestiscano a malapena una tecnologia per loro aliena, comunque non si risparmiano l'uso del cellulare. Magari, come loro stessi affermano, solo per fare o ricevere semplici telefonate.
Tuttavia, se gli anziani si limitano all'uso dell'uno per cento del potenziale tecnologico del più stupido cellulare, tutti gli altri si sono lasciati sedurre dalle sue infinite potenzialità. Internet con relative mail, Facebook, YouTube, Twitter, WhatsApp e quant'altro sono solo alcune delle tante applicazioni che permettono, ma più che altro obbligano, alla connessione costante.
In pratica, quella della reperibilità continua è una sindrome globale sulla quale si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto: bene e male, costi e guadagni, vantaggi e svantaggi.
Legittima perciò la domanda: perché continuare a scriverne? Presto detto: per la presunzione di aver rintracciato una prospettiva nuova del fenomeno o, almeno, non ancora esplorata a sufficienza.
Come molti concorderanno questa è un'epoca strana, decadente, malata. È l'epoca degli attacchi di panico, del bullismo, della prostituzione giovanile volontaria, dell'abbandono degli studi, della ricerca del business facile, del successo ad ogni costo, dell'estetica priva di contenuto, della liquidità dei rapporti. Tutte realtà che, almeno all'apparenza, non dovrebbero avere nulla a che spartire con il tema della reperibilità continua. La quale, al massimo, potrebbe essere considerata una dei tanti elementi dello sfondo culturale tecnologico sul quale tutti ci muoviamo.
Ma ne siamo così sicuri? Possiamo essere davvero certi che la connessione continua sia solo un elemento marginale e descrittivo di un'epoca piuttosto che una con-causa partecipante alla produzione del malessere che ci attanaglia?
Per tentare di rispondere a queste domande dobbiamo partire da lontano e sforzarci poi di tener sempre presente alcune considerazioni fondamentali.
Cominciamo, allora, dalla prima legge della comunicazione umana scoperta da Gregory Batson nel lontano 1940. Tale legge recita che, dato l'incontro di due o più individui, questi non abbiano in alcun modo la facoltà di NON COMUNICARE. Tutto è comunicazione e anche il tentativo di eluderla può essere tradotto per ciò che è: la volontà di non comunicare. Così, ad esempio, se due persone sconosciute entrano in un ascensore e una delle due inizia a fissare con ostentazione il mazzo di chiavi che ha in mano, il messaggio analogico che trasmette è: "Non ho alcuna intenzione di parlare con te! Non m’interessa!" La dove un semplice: "Buongiorno! A che piano scende?" è indice di disponibilità e apertura.
Ma se è vero che, data la semplice vicinanza e/o frequentazione di due o più esseri umani, è impossibile sfuggire alla comunicazione, se è vero che la contiguità obbliga alla trasmissione di significati, è pur vero che fino a poco tempo fa esisteva un territorio spazio-temporale privato nel quale chiunque avrebbe potuto ritirarsi senza, per questo, essere obbligato a comunicare alcunché. Come ho già scritto, fino a quindici anni fa era "normale" uscire da casa o dall'ufficio, partire per un fine settimana o per le proprie vacanze e, appunto perciò, essere impossibilitati a contattare o a essere contattati da chicchessia. Sottolineo: era normale... Ciò significa che, entro certi margini, l'irreperibilità non poteva essere interpretata.
"Sarà fuori casa...", "Non avrà trovato un telefono funzionante...", "Se la starà godendo...", sono solo alcune delle tante supposizioni che avrebbero potuto essere formulate da chiunque si aspettasse notizie e non le avesse ricevute. O non avesse trovato il proprio referente.
Oggi non è più così. La reperibilità continua dei cellulari - per non parlare di Internet - non concede alcuna giustificazione: se qualcuno spegne o si dimentica il cellulare qualcosa dovrà pur significare e, a seconda delle relazioni nelle quali è implicato (lavoro, amicizia, amore), il fatto di non poter essere trovato legittima tutta una serie di altre interpretazioni: "Mio Dio, cosa gli sarà successo?", "Questa sparizione è sospetta!", "Avrà qualcosa da nascondere?", "Non mi vuole né parlare né sentire, sarà arrabbiato/a...", "Strano... Non l'ha mai fatto!" E, a seguire, tutta una serie di effetti collaterali: ansia, paura, curiosità, sospetto, collera, odio, desiderio di ritorsione o di vendetta. Perché la connessione continua oggi è data per scontata, talmente ovvia da essere considerata naturale, e la sua mancanza legittima qualunque congettura. Che il cellulare possa essersi guastato, che la rete mobile sia sovraccarica o che la persona possa aver deciso deliberatamente di spegnerlo non è una ipotesi a cui si è disposti a dare credito.
Non ce ne rendiamo conto, ma viviamo quasi tutti così, dando per certa e assoluta la connessione continua con le persone che conosciamo e dannandoci l'anima se per un caso qualsiasi questa risulta elusa. Gli effetti più oscuri e inquietanti determinati da questo stato di fatto, però, non sono quelli sopra elencati. Alla radice di tutto, infatti, c'è una perdita dei confini dell'Io.
Mi rendo benissimo conto di ciò che ho scritto: ai più questa idea sembrerà eccessiva. Possibile che un fenomeno tecnologico come quello sotto esame abbia il potere di aggredire, ferire e, a volte, addirittura distruggere le forze di coesione interiore dell'essere umano che, a ben vedere, sono di tutt'altra natura? Come può una semplice innovazione tecnologica e di costume sociale attaccare e annichilire l'istanza superiore delle funzioni umane?
Comprendo le perplessità. Eppure, a ben vedere, questo è esattamente l'obiettivo che raggiungono molti altri fenomeni droganti, quali le sostanze alcoliche, gli stupefacenti, alcuni psicofarmaci e - ultime arrivate - alcune innovazioni tecnologiche, quali la televisione e il computer. Non credo, infatti, sia un mero caso se, in molte parti del mondo, siano sorte cliniche specializzate per la difficile disaffezione dalle dipendenze che tali innovazioni tendono a generare.
Si dirà: "Ma non sono forse quelle individualità che avevano fin dall’inizio una fragilità dell'Io a rimanerne soggiogate? Là dove individualità più forti e ben strutturate riescono benissimo a gestire tutte queste innovazioni."
C'è qualcosa di vero in tali affermazioni, solo che le mezze verità non sono la verità e, molto spesso, rischiano di confondere il campo d’indagine. Perché se anche è innegabile che le individualità più labili siano quelle che maggiormente possono rimanere intrappolate nel condizionamento di queste innovazioni tecnologiche, primo: non si vede perché tali fragili individualità non debbano essere protette, secondo: si ha davvero idea di quanto esse siano diffuse e, terzo: chi può essere così sicuro che la propria forte centralità non posa essere corrotta e violata da una condizione di ripetitività che alla fine si traduce in una dipendenza strisciante e inconsapevole?
Chiunque abbia lavorato, o comunque avuto a che fare con delle personalità dipendenti, sa bene con quanta sicumera e violenza essi decantino il loro presunto controllo della situazione. "Io sono padrone di me stesso: bevo, oppure mi drogo, oppure gioco, oppure ancora vedo la TV solo quando davvero lo voglio!" Peccato che non sia mai vero.
Il risultato di questa tecnologia è che viviamo tutti a stretto contatto gli uni con gli altri e, sebbene solo virtualmente, la nostra intimità può essere di continuo violata. L'Io sperimenta una labilità dei propri confini che spesso non è in grado di riparare.
Un mio giovane paziente l'altra settimana mi ha raccontato di non essere potuto uscire con i suoi soliti amici. Il perché risiedeva nel fatto che da alcune settimane sta flirtando con una ragazza, conoscente alla lontana degli altri ragazzi del suo gruppo, sperando di coinvolgerla in una più stabile e durevole storia sentimentale. Uscire con tutti gli altri, proprio quella sera in cui lei non ci sarebbe stata, avrebbe significato poter essere fotografato con il cellulare, magari anche per sbaglio, o per gioco, e magari in un momento di semplice confidenzialità con qualche altra amica, e vedere poi la foto in questione girare per il web, attraverso Facebook. La ragazza per la quale spasima avrebbe potuto vederla e, magari, trarne delle conclusioni sbagliate, che sarebbero andate a suo danno.
In sé e per sé l'episodio sembra una ragazzata. Il risultato di un eccesso di prudenza da parte del mio giovane paziente, forse un po' troppo auto-referente. Può darsi. Tuttavia, quante situazioni di vita, in questi ultimi tempi, sono state registrate con foto scattate al volo da un cellulare e usate per compromettere la rispettabilità di questa o quella persona? Né ci interessa l'obiezione che in molti casi possa essere stata colta sul fatto una persona nel pieno di una sua azione poco edificante, scandalosa o, addirittura, delittuosa. Questo potrebbe essere il tema di un'altra trattazione. Quello che qui mi preme rilevare è il sentimento di violazione della propria privacy che chiunque di noi potrebbe sperimentare in un qualunque momento della propria vita.
Per non parlare degli sms e delle telefonate pubblicitarie che ci giungono in qualunque ora della giornata, della paura di poter essere intercettati o della consapevolezza di poter essere rintracciati in qualsiasi momento e in qualunque angolo del mondo ci si fosse nascosti.
Naturalmente, il cellulare è solo uno dei tanti varchi, anche se forse il più abusato, che la società moderna ha imposto alla membrana protettiva del nucleo dell'Io. In aggiunta c'è Internet, la TV e tutte le tecnologie che a queste ultime girano attorno.
Come paradosso, ma forse per reazione alla perdita di confini certi, molte persone hanno finito per auto-confinarsi in casa e avere relazioni solo virtuali. In questi ultimi pochi anni, nella modesta statistica del mio lavoro privato, ho conosciuto almeno tre casi di ragazzi tra i venti e i trenta anni che da lungo tempo vivevano confinati nella propria camera, con il cellulare e il PC come unici strumenti di mediazione con il mondo. La loro vita interiore si alimentava di film, programmi televisivi spazzatura, giochi virtuali, pornografia, addirittura sesso virtuale e contatti video-telefonici con altri membri del club dei diseredati. Un piccolo numero di esseri umani forse destinato ad aumentare, abbandonati a se stessi e al vuoto allucinante di un’epoca che solo una sorta di pudore mi impedisce di inserire tra quelle più buie che il genere umano abbia mai attraversato. Al di là del presunto progetto per il controllo del mondo da parte di una élite di scellerati psicopatici, al di là dei disastri finanziari, ecologici, e culturali che tutti stiamo subendo, la mia convinzione è che stiamo assistendo ad un attacco diretto alle forze dell'Io umano da parte di quello che, con un eufemismo, mi piace chiamare lo Spirito dei Nuovi Tempi.

lunedì 13 gennaio 2014

Testimonianaza dal Chapas


Una Luce improvvisa nell'anima



Devo fare una premessa: la vita mi ha concesso il dono prezioso di poter realizzare molti grandi viaggi. Non tanti quanti la mia sfacciata e pretenziosa fantasia avrebbe desiderato ma, indubbiamente, davvero tanti. Dal Tibet alla Terra del fuoco, in Patagonia; dall'Islanda a Cuba; dal Vietnam al Medio Oriente; dai più straordinari e assolati paesi dell'Africa agli Stati Uniti d'America.
Scrivo questo non per mero autocompiacimento o per gratuita ostentazione, ma solo per dare spessore e intensità alla testimonianza che in questa rubrica voglio lasciare. Perché, pur avendo avuto infinite opportunità, rare sono state le volte nelle quali la commozione ha inondato la mia anima in maniera così intensa e assoluta da farmi quasi dimenticare chi io fossi e dove, di fatto, mi trovassi. Come quel lontano giorno, a Pashupatinath, sulle rive del Bagmati, in cui mi persi osservando il fumo denso e acre delle pire funerarie offuscare lo splendore delle cupole dorate del tempio dedicato a Shiva. O come quella volta che le note di una fuga di Bach mi sorpresero sgorgando all'improvviso, maestose e solenni, dalle canne d'organo della cattedrale di Canterbury. Oppure ancora ad Aleppo, quando mi lasciai coinvolgere nel fervore dei fedeli musulmani che pregavano nella splendida moschea verde degli Omayyadi. O a Lhasa, quando nascosto tra le mille colonne rosso sangue del Jo-Kang, potei spiare i pellegrini che vi giungevano stremati dopo mesi di estenuante camino e si gettavano proni, distesi con tutto il corpo, a baciarne il pavimento. Così come rapito ed estasiato rimasi a Istanbul, in un locale nascosto e un po' fuori mano, durante una cerimonia dei Dervishi ruotanti; o sull'isola di Chiloé, in Cile, nell'atmosfera austera e riservata della piccola chiesa lignea di Castro, realizzata dai mastri carpentieri dell'isola sotto la guida dei missionari gesuiti. O, ancora, ad Assisi, nella cattedrale di Santa Chiara, ascoltando il coro celestiale delle clarisse nella notte di Natale di tanti anni fa. O, per finire, nello sperduto villaggio di Possotomé, in Benin, quando fui invitato ad assistere a un’improvvisata cerimonia voodoo e, non so come, mi ritrovai a suonare uno jambé mentre intorno a me i feticci ruotavano e le donne ballavano entrando in trance.
Sí... lo so! Queste esperienze, riassunte in poche righe, sembrano molte e dunque frequenti... ma in realtà sono pochissime se si considera che sono state realizzate nell'arco di un'intera vita di viaggi. A testimonianza del fatto che sono sempre inconsuete e straordinarie le occasioni in cui l’animo di un viaggiatore può realizzare esperienze così coinvolgenti da permettergli di scavalcare le proprie ordinarie difese psichiche e farsi scaraventare nel mistero.
In Chapas, nella piccola cittadina di San Juan de Chamula, questo è di nuovo accaduto.
Ma andiamo con ordine.


Dicembre 2013. Dopo aver rimandato per anni il viaggio in Messico, quasi a voler protestare contro la psicosi collettiva relativa alla fine del mondo prevista (secondo discutibili interpretazioni) dal calendario Maya, alla fine io e mia moglie decidemmo di regalarci il tanto sospirato viaggio.
Arrivati a Cancun, nello Yucatan, prenotammo una piccola utilitaria e partiamo. Sorvolerò sulle nostre tappe più ovvie: Valladolid, Chichen-Itza, Uxmal, Lebna, Edzna, Palenke, Yaximal e, alla fine, San Cristobal, in Chapas, posta a 2200 metri di quota. Arriviamo in questa splendida cittadina tutta in stile coloniale – molto simile a Trinidad, se immaginata almeno 100 volte più grande - nella notte del 24 dicembre. Ci ha guidato il caso, spingendoci a seguire i capricci del sole in una stagione che si comporta in maniera anomala rispetto agli standard stagionali. Alloggiamo in un bellissimo hotel che, senza alcuna pressione da parte nostra, ci pratica uno sconto irrinunciabile. Andiamo a letto presto, dopo una cena frugale, perché alle ventuno tutti i locali e i ristoranti avrebbero chiuso per concedere al personale di passare in famiglia il santo Natale.
La mattina del 25, prestissimo, siamo già in piedi e usciamo all'aperto in una giornata di sole sfolgorante. La città, com’era da aspettarsi, è deserta. Decidiamo perciò di prendere un "collettivo" (un taxi cumulativo) e di recarci a San Juan Chamula, una piccolissima cittadina a soli 15 km di distanza da San Cristobal, abitata quasi esclusivamente da Tzotzil, una delle poche sopravvissute etnie Maya. Chamula è famosa per la piccolissima chiesa di architettura coloniale al cui interno sopravvive, immutato nei secoli, il sincretismo tra gli antichi culti pagani e la religione cattolica.
Il "collettivo" ci scarica all'inizio del viale che conduce alla piazza principale, “Quella laggiù - ci indica il conducente - quella che s’intravede in basso, alla fine delle bancarelle di souvenir che incorniciano il viale”. Curiosando tra un banco e l'altro percorriamo la distanza che ci separa dalla nostra meta. All'improvviso la piazza si apre ai nostri occhi: lo slargo è enorme e, alla luce del sole basso e radente delle prime ore del giorno, a 2200 metri di quota, risulta amplificato e impreziosito da una mescolanza di vividi colori. Davanti alla piccola chiesa che occupa lo sfondo, infatti, i Tzotzil stanno montando il mercato e la piazza sembra la tavolozza di un pittore naif: il giallo delle banane, il rosso vivido dei pomodori, il verde delle papaie, il nero e il bianco delle pelli di capra, i ricami colorati delle coperte e delle tovaglie artigianali.  Sui pochi alberi che circondano la piazza sono legati migliaia di palloncini colorati. Lo spettacolo è magnifico, ma noi siamo ben vaccinati. Per quanto piacevole e sorprendente, la scena non si discosta poi di molto da quella che abbiamo ammirato sull'isola di Djiené, in Mali, ai piedi della più grande moschea di fango del mondo. Dobbiamo tuttavia riconoscere che i costumi locali sono straordinari: gli uomini indossano giubbotti di pelo lungo di capra nero o bianco, chiamati chujes, e larghi cappelli bianchi da cowboy. Le donne, invece, indossano camicette bianche ricamate con fiori di tutti i colori e lunghe gonne di pelo di capra, sempre nera o bianca. In capo hanno un buffo cappello di stoffa ripiegata. In un certo qual modo ricordano i nostri "mamuthones" sardi, anche se le fattezze del loro volto sembrano incartapecorite dal tempo. Girovaghiamo tra i banchi della frutta scattando qualche foto e ci avviciniamo all'ingresso della chiesa. Da questo punto in poi macchine fotografiche e videocamere sono ‘vietatissime’, se non si vuole rischiare una solenne bastonatura da parte dei guardiani e della gente del posto. La facciata della chiesa è bianca con delle modanature verdi che fanno da cornice al portale e ai motivi ornamentali del tetto. Davanti all'ingresso un piccolo gruppo di Tzoltzil, con stravaganti ed enormi strumenti musicali, officia un antico rituale maya. A dieci metri dagli officianti alcuni fedeli sono in ginocchio e, alla fine di ogni strofa, si avvicinano di un paio di metri. Un odore intenso d’incenso aleggia nell'aria. Ammetto di aver tentato di "rubare" qualche immagine, ma la maledizione dei Maya ha mandato fuori campo l’obiettivo della mia cinepresa.
Alla fine, facendoci largo tra la folla varchiamo l'ingresso della chiesa e... rimaniamo senza fiato. L'interno - trentacinque metri per quindici - è completamente vuoto. Il pavimento, presumibilmente di marmo bianco, è ricoperto da uno spesso strato di aghi di abete. A destra e a sinistra, per tutta la lunghezza dei lati, si avvicendano dei tavolini bassi sormontati da teche di legno e vetro al cui interno si trovano dei santi, in grandezza naturale, realizzati in legno o ceramica ma con vestimenti di stoffa. Tra una teca e l'altra, il muro è tappezzato di fiori bianchi. Sopra i tavolini, più larghi di almeno venti centimetri delle teche, ardono migliaia e migliaia di candele. Sul pavimento, tra gli aghi di abete, alcuni Maya sono accucciati in piccoli cerchi e officiano strani riti accendendo decine di altre candele. In fondo, l'abside è un tripudio di fiori bianchi e palloncini colorati. All'altezza dell'altare solo quattro cerchi concentrici al neon, rosso, giallo, verde e bianco che si accendono e spengono in alternanza creando un senso di convergenza verso il centro. Il significato è inequivocabile: qui è nata la Vita. Qui è nata la Luce. Dall'unica finestra posta sul lato destro, in direzione sud, un raggio di sole penetra obliquo a testimonianza che: "Dio c'è!"
Non credo che si possa immaginare nulla di più kitsch e pacchiano... ma l'insieme è sconvolgente. La luce e il fumo delle candele, l'odore resinoso degli aghi di abete, lo sguardo dei santi dalle teche, il profumo dei fiori, il mormorio confuso e disarmonico dei Tzoltzil, il messaggio ovvio dei cerchi al neon, non concedono dubbi: qui il Divino è immanente!
L'atmosfera è satura di forze magiche che vibrano sull’onda della devozione incondizionata e assoluta di questo semplice e antichissimo popolo.
La mia compagna, una donna pragmatica e disincantata, ma con un animo purissimo, dopo pochi minuti da che siamo entrati, spontaneamente s’inginocchia tra gli aghi di abete, abbassa la testa sul petto e chiude gli occhi, lucidi per la commozione. La mia anima intellettuale, invece, complicata e fin troppo sovrastrutturata, accenna a un moto di resistenza. Ma l'atmosfera magica della chiesa è troppo potente e, in breve, mi ritrovo inerme, il pensiero vuoto, gli occhi gonfi di lacrime. Restiamo così non so più quanto tempo. Non riusciamo a staccarci. Non riusciamo a deciderci di muoverci, uscire dalla chiesa e porre fine a quello straordinario evento interiore. Senza esserci scambiati una sola parola, entrambi stiamo vivendo la medesima identica esperienza di rapimento interiore, prigionieri consenzienti di questo natale maya che il destino ha voluto regalarci.

Quando dopo molto tempo riusciamo a strapparci dall’incantesimo e a uscire all’aperto mi metto a riflettere: alcune leggende esoteriche asseriscono che l'umanità – nonostante tutte le sue nefandezze - sarà risparmiata dal giusto furore divino, e il pianeta sarà risparmiato dalla distruzione, fintantoché nel mondo sopravviveranno almeno sette saggi che, con la loro devozione, intercederanno per tutti coloro che non lo meritano. Mi viene spontaneo pensare che, oltre all'opera dei sette sconosciuti saggi, una buona parte delle intercessioni possa giungere agli dei dalle preghiere di popoli semplici e devoti come appunto i Tzoltzil che, con la purezza dei loro intenti, hanno mantenuto la grazia di parlare al cuore degli dei.
Rifletto ancora e, per quanto convinto foto-amatore, per la prima volta sono costretto a chiedermi: "Ma non sarà, davvero, che le fotografie rubino l'anima ai luoghi e alle persone, per poi disperderla, strumentalizzarla e, infine, banalizzarla? Non sarà che l'atmosfera magica della chiesa di Chamula sia così potente proprio perché protetta - anche con la violenza, se necessario - dagli stupidi impulsi che imperversano negli animi dei tanto evoluti uomini moderni occidentali che, come noi, non conoscono davvero l’umiltà e il timor di Dio?”
Assorti nei nostri pensieri, riprendiamo a girovagare nella piazza.
- Grazie, Spirito del popolo Maya… grazie del meraviglioso Natale che hai voluto donarci.