Birmania
“Io che corro a perdifiato, con l’ansia che mi attanaglia il cuore, lo
sguardo avido, proteso ad afferrare paesaggi umani o naturali ancora
sconosciuti. Alle mie spalle il fronte della nube oscura avanza veloce e, presto,
inevitabilmente, mi sorpasserà oscurando e uniformando tutto quello che ancora
avrei potuto e voluto scoprire…”
Questo non è un sogno. Piuttosto
è l’immagine simbolica della mia vita di viaggiatore alla ricerca di quel bene
inestimabile e prezioso che è (anzi, che era) la Diversità: la diversità
biologica e, soprattutto, quella culturale. La nube oscura che sta per
raggiungermi rappresenta, invece, la modernità occidentale nei suoi aspetti più
distorti, depravati e, per ciò stesso, invasivi. Ma come lessi nell’illuminato
libro di un altro disperato viaggiatore, non c’è più un Altrove nel quale
rifugiarsi. Il globalismo finanziario e mercantile ha vinto su tutti i fronti,
almeno per ora, e presto della Diversità non resteranno che pallidi ricordi.
Godiamoci quel poco di luce che
resta.
Yangoon è una capitale anonima:
né bella né brutta, molto ampia ed estesa, buia di notte (per la mancanza di
lampioni) e con un traffico automobilistico costantemente paralizzato e
paralizzante. Se è vero che l’attuale governo aprirà le frontiere agli
investitori stranieri, la città potrebbe essere destinata a modernizzarsi, come
è accaduto Bankog, Kuala Lampour,
Seoul, e molte altre, perdendo così quasi tutto ciò che le caratterizzava.
Di prima mattina, dopo uno sguardo
fugace alla Sule Paya, raggiungiamo a piedi la Botataung Paya. Dagli anni
lontani in cui visitammo il Nepal, il Tibet, la Cambogia e la Tailandia, è la
prima volta che rimettiamo i piedi in un tempio buddhista. La prima impressione
è tiepida: l’architettura degli edifici che si bilancia a stento in un
sincretismo tra quella indiana e quella cinese, gli specchi e gli specchietti
decorativi, i colori brillanti degli intonaci, l’abbondanza della tinta oro, le
statue colorate di grifoni dorati, serpenti, draghi, orchi, orchesse e esseri
elementari (qui conosciuti come Nat), le decine e decine di piccoli Zedi
(stupa) raccolte intorno ad un gigantesco pinnacolo centrale, è inevitabile che
appaiano kitch ai nostri occhi europei. Tuttavia le centinaia di statue del
Buddha, di tutte le misure e di tutti i materiali emanano un loro indiscutibile
fascino. Magnifici, nella Botataung Paya, il corridoio d’oro zecchino finemente
intarsiato e una gigantesca statua in bronzo del Buddha benedicente.
Ci colpisce poi l’intensità della
devozione dei fedeli che ovunque si inginocchiano, pregano e versano acqua
consacrata sulle effigi del Buddha predisposte a questo specifico rito.
La seconda visita della mattina è
dedicata al padiglione di un’altra pagoda, la Chaukhtatgy Paya, sotto il cui
tetto giace un’enorme statua del Buddha sdraiato.
Siamo fortunati… e arriviamo nel
pieno di una cerimonia simbolica annuale nel corso della quale la popolazione
birmana ritualizza la consueta offerta che ogni giorno viene fatta ai monaci:
il padiglione rigurgita di fiori, frutta, riso e altro cibo cucinato.
Curiosiamo in giro mischiandoci alla folla dei monaci e dei fedeli, scattiamo
foto… e prendiamo definitivamente atto del fatto che ovunque, più che
tollerati, siamo ben accolti. In un angolo appartato del padiglione con la
videocamera riprendiamo un’artistica ricostruzione di tutte le innumerevoli
vite del Buddha precedenti a quella nella quale, infine, raggiunse il Nirvana.
Quando finalmente usciamo
chiediamo al nostro autista di portarci al grande mercato di Yangoon dove
compriamo qualche souvenir e mangiamo qualcosa dei tipici cibi birmani.
Subito dopo il frugale pasto,
nelle prime ore del pomeriggio entriamo nel parco del lago Kandaweyi e facciamo
una pigra camminata sulla passerella lignea che lo circonda. Da lontano
s’intravede la grande cupola dorata della Shwedagon Paya che – sappiamo -
essere la più grande, la più bella e la più ricca di tutte le pagode birmane.
La visiteremo verso il tramonto, come suggerito dalla guida, ma intanto,
passeggiando, ci lasciamo tentare da un piccolo padiglione sacro eretto a bordo
del lago. Anche qui piccoli Zedi,
leoni alati, draghi e serpenti colorati, Nat, ieratiche statue del Principe
Sachiamuni e curiosi servi e aiutanti delle varie divinità.
L’ora del tramonto si avvicina.
Parcheggiamo l’auto vicino all’ingresso ovest della Shwedagon Paya e, dopo
essere passati tra i due giganteschi leoni alati, saliamo le scale che ci
porteranno alla grande terrazza basale. Quando finalmente arriviamo, rimaniamo
folgorati: la terrazza – dal cui centro s’innalza il pinnacolo dorato centrale,
la cui sommità è rivestita d’oro puro e tempestata di pietre preziose – è
immensa. La sua circonferenza sarà pari al colonnato che il Bernini progettò
per Roma, davanti a piazza San Pietro. E’ pavimentata di piastrelle bianche
smaltate e, sul lato più esterno, rigurgita di piccoli stupa secondari, di
tempietti e padiglioni sacri. Centinaia di statue di Siddarta Gotamo Buddha, di
tutti i materiali e di tutte le dimensioni, si offrono all’adorazione dei
fedeli. Il luogo è meraviglioso e merita la fama che lo contraddistingue.
Passeggiamo a lungo sulla
terrazza, almeno finché il sole calante non tinge di rosa l’oro della cupola
centrale, e cogliamo bellissime scene di ordinaria devozione al Buddha di
questo dolcissimo popolo birmano.
Il giorno successivo, in un paio
d’ore di auto raggiungiamo Bago. Visitiamo prima il grande tempio di Four
Figures Paya costituito da quattro enormi statue del Buddha posti schiena
contro schiena, assisi nella posizione del fiore di loto e rivolti ognuno verso
un diverso punto cardinale. Quando usciamo ci fermiamo ad assaggiare uno
sconosciuto frutto tropicale e, subito dopo, arriviamo ad un grande recinto
sacro, all’aperto, dove giace un’altra enorme statua del Buddha sdraiato. Ci
chiediamo come mai non sia protetta da alcuna tettoia e lasciata così esposta
agli agenti atmosferici… ma non riusciamo a trovare una valida risposta. La
soluzione ci si presenterà da sola alla visita successiva, dedicata a una
pagoda che si presenta come una sorta di gigantesca piramide d’oro. Quattro
rampe di scale si inerpicano sui suoi fianchi scoscesi e, in via del tutto
eccezionale, agli uomini è concesso salire fino ad una considerevole altezza.
Mi cimento nell’impresa e potete immaginare il mio stupore quando, lasciando
vagare all’intorno il mio sguardo, vedo comparire in lontananza l’enorme statua
del Buddha sdraiato che sembra fluttuare sopra gli alberi della giungla che lo
circonda.
Davvero fantastico!
Scendo dalla pagoda e, tutti
insieme, andiamo a visitare un altro singolare, piccolo tempio che avevo
avvistato dall’alto. La struttura esterna è deliziosa, tutta in pietra grezza finemente cesellata e
decorata di statue. Ma l’interno riuscirà ancora una volta a stupirci: una
foresta di colonne alte, lisce e dorate sostiene una volta al cui centro si
erge una sorta di santuario dove quattro Buddha dorati, in piedi, si rivolgono
verso i quattro punti cardinali. L’atmosfera è unica e anche nei giorni a
venire non ne troveremo più una simile.
La giornata si conclude con la
visita di una ennesima pagoda, la Shwethalyaung Paya, che nonostante presenti
caratteri ed elementi suoi propri, non riesce a stupirci più di tanto.
Forse per questo, mentre torniamo
in albergo, io e mia moglie ci chiediamo se in soli due giorni non abbiamo già
raggiunto un punto di saturazione. Un apice di meraviglia e interesse oltre il
quale difficilmente potremo riuscire ad andare. Le giornate sono state così
piene, e così tanti sono stati i motivi di curiosità per elementi religiosi,
artistici e culturali a noi del tutto estranei, che la paura di rimanere
indifferenti nei prossimi giorni ci sembra legittima. Sarà tutto sempre e solo
così?
In nessun precedente nostro
viaggio avevamo avuto simili dubbi, ma, per fortuna, si dimostreranno del tutto
infondati.
Il 23 dicembre, alle cinque del
mattino, prendiamo il volo interno per Mandaly. Arriviamo verso le sei e
trenta, distrutti dal sonno, ma l’autista che ci viene a prendere elude la
nostra speranza di essere condotti all’albergo e ci conduce sulla strada verso
Sagain, una piccola regione di territorio collinare dove sono raccolte decine
di pagode. L’alba è sorta da poco e dal ponte sospeso sullo Ayeryarwady River
ci appaiono le morbide forme delle colline che delimitano la sua riva
occidentale. Su ogni altura una pagoda dorata o un tempio bianco e immacolato
svettano sulla vegetazione sottostante composta di banani, tamarindi, palme da
cocco e fiori colorati.
L’atmosfera lattiginosa del primo
mattino e la quiete profonda del luogo ci tolgono il fiato.
Quando lasciamo il ponte andiamo
a visitare un monastero di cui non ricordo il nome: sembra edificato a pianta
circolare e caratterizzato da due cerchie murarie dove eleganti nicchie
ospitano decine e decine di statue del Buddha raccolto in meditazione.
Siamo immersi nella natura,
lontani da qualunque centro abitato. Fuori dal monastero solo alberi frondosi,
fiori colorati e cielo azzurro. Tutto è pervaso da una grande pace.
Sta per accaderci qualcosa… ci
sembra di avvertirlo con chiarezza.
Quando infine lasciamo il
monastero, l’autista affronta una dura salita e ci deposita all’entrata di uno
dei templi più famosi di Sagain. Saliamo delle lunghe scale e, alla fine,
entriamo in una corte che sembra deserta. Alla nostra destra su un muro bianco,
basso, disposto a mezza luna, ma lungo cento, centocinquanta metri, si aprono
decine di piccoli archi impreziositi da temi decorativi verde brillante. Oltre
il muro un lungo corridoio dove, ancora una volta, troviamo decine di statue
del principe Gotamo Buddha seduto nella posizione del loto. L’atmosfera è
sublime.
Dentro di noi si compie uno
scatto. All’improvviso comprendiamo che la saturazione di immagini vissuta a
Yangoon era una prova. Una sorta di soglia riuscendo a superare la quale
l’anima avrebbe potuto avere accesso all’atmosfera sacrale che l’onnipresente
effige del Buddha prima evoca, e poi amplifica, all’infinito, di
rispecchiamento in rispecchiamento. Siamo entrati in una diversa dimensione. In
essa il messaggio del Buddha e il suo serafico sorriso si rivelano per quello
che sono: una vibrazione spirituale che compenetra ogni cosa. Una realtà dello
spirito a cui il popolo birmano ha saputo aprire il cuore con autenticità e devozione.
Alla fine intuiamo che l’ossessiva e solo apparentemente monotona ripetizione
dell’immagine sacra del Buddha in meditazione nasconde una sua specifica
funzione e un suo occulto significato.
In un qualche modo anche noi ci
lasciamo rapire: finalmente lontani dal traffico caotico delle città e dalla
folla che le abita, vaghiamo con calma da una pagoda all’altra e con gioia ci
soffermiamo sulle infinite riproposizioni delle immagini sacre. Sempre
coinvolti, interessati, curiosi, incantati…
Ma la Birmania è generosa e la
giornata ci riserverà ben altre sorprese.
Subito dopo un frugale pasto,
infatti, l’autista ci accompagna sull’argine sabbioso di uno dei tanti
affluenti dell’Ayaryerwadi River e ci invita a salire sulla lancia a motore che
fa da spola da una riva all’altra. Giungiamo sull’altra sponda, ci accordiamo
con uno dei tanti vetturini locali in attesa e, con una carrozzella a cavallo,
ci facciamo condurre tra i sentieri della piana dove, molti secoli addietro,
sorgeva Inwa, antica capitale del regno. Ed ecco, tra una capanna solitaria o
un misero villaggio su palafitte, ecco materializzarsi antichi stupa e templi
semi-diroccati risalenti al XII° o XIII° secolo. Incontrarli così, abbandonati
nella giungla, spesso divorati e quasi digeriti dal regno vegetale, ci regala
intense emozioni. Molto “in piccolo”ci ricorda Angkor Vat, in Canbogia.
Poi dal nulla, ecco comparire un antichissimo monastero
buddista realizzato esclusivamente in legno di tek: al suo interno, una foresta
di scure colonne arboree nasconde un piccolo altare e, ancora attiva, una
scuola per giovanissimi futuri monaci.
La nostra carrozzella riprende il
cammino, attraversa un magnifico bananeto, supera un passaggio tra antiche mura
e si ferma infine davanti ad un enorme palazzo abbandonato, confinante con un
gruppo di piccole pagode bianche e oro di raffinata eleganza architettonica.
La giornata è stata piena e
soddisfacente, ma non è ancora finita: alle 17,30, prima di dirigerci verso
l’hotel che abbiamo prenotato a Mandalay, facciamo in tempo a goderci uno
spettacolare tramonto dal vecchio ponte in legno di tek che ad Amarapura
attraversa il grande fiume.
La mattina del giorno successivo
costeggiamo le mura dell’antico forte della vecchia città e saliamo al tempio
di Mandalay Hill. Siamo fortunati, perché giunti alle porte della Kyauktawagyi
Paya assistiamo alla coloratissima cerimonia con la quale le famiglie birmane presentano al Buddha i bambini
che, appunto con quella cerimonia, abbandoneranno la vita mondana e si faranno
monaci. All’interno del Sancta Sanctorum
della pagoda, un gigantesco Buddha d’oro è reso ancor più prezioso e quasi
irriconoscibile dalle sottilissime scaglie d’oro che i fedeli, per devozione,
usano incollarvi sopra. Sarebbe tutto perfetto se non avessimo oramai preso
atto, definitivamente, che tutti i monaci sotto i quaranta, quarantacinque
anni, posseggono e armeggiano con un Iphon o un Ipad di tutte le marche e
dimensioni. Pensavamo fosse una moda presente solo nella capitale, ma ci
sbagliavamo. Scopriremo che ovunque, anche nei monasteri più remoti, oramai è
così! E in fin dei conti non è che sia un vero e proprio scandalo, ma certo è
che mina alle fondamenta l’idea romantica del monaco che si è ritirato dal
mondo e vive di elemosina per seguire una sua propria luce interiore. Anche
loro fotografano, riprendono le scene più interessanti e le spediscono ai loro
amici e parenti.
Come che sia… alla fine lasciamo Mandalay Hill e raggiungiamo di nuovo la riva del grande fiume: traghettiamo su un piccolo battello e raggiungiamo Mingun. Qui si trovano i resti di quello che, se fosse stato terminato, sarebbe stato il palazzo più grande del regno di Birmania. Un terremoto ne ha interrotto la costruzione, minandone le fondamenta. Ma dai centocinquanta metri del suo primo piano la vista sul fiume è superba. Quando scendiamo visitiamo la campana di bronzo più grande del mondo e, cosa di certo più interessante, la bellissima Pagoda bianca costruita a imitazione del Monte Meru. Poi, di corsa e affannati – come richiede il nostro destino di occidentali - torniamo al battello appena in tempo per goderci un ennesimo, splendido tramonto sul fiume.
Il 24 dicembre ci svegliamo
ancora una volta prima dell’alba e ci rechiamo all’imbarcadero dal quale
salperà il battello che, con dodici ore di navigazione sulle placide acque
dello Ayaryerwadi River, aggirando centinaia di banchi di sabbia dovuti alla
stagione secca, ci porterà alla mitica piana di Bagan. Il giorno di natale
scorrerà piacevolmente tra mille esotici paesaggi. Arriveremo solo nel tardo
pomeriggio, dopo il tramonto del sole… Appena in tempo per andare in albergo a
dormire. L’indomani mattina, ancora una volta sveglia alle cinque, per andare a
fotografare l’alba che spunta su una pianura che vanta ben 2500 pagode,
costruite tutte tra il XI° e il XII° secolo. Lo spettacolo della luce del sole
che gradualmente svela i segreti dell’immensa pianura, impreziosito dal volo di
30 mongolfiere, è a dir poco sublime.
Passiamo il resto di quella
giornata e tutto il 26 dicembre a visitare quante più pagode possibili,
scegliendo tra le più originali e meno affollate.
La sera ci sorprende sul terrazzo
di una di quelle più defilate, insieme a pochi altri viaggiatori. Immobili e
silenziosi, assistiamo al calare del sole tra le migliaia di guglie della piana
di Bagan.
Ancora un sintomo dei danni
prossimi a venire: sotto alcuni templi scorgiamo parcheggiati grossi autobus
turistici. Quasi sempre sono torpedoni giapponesi. Perché anche qui, come in
tante altre parti del mondo, compresa la nostra Europa, il Giappone ricatta i
governi locali minacciando la sospensione o il blocco definitivo del loro ricco
turismo qualora i propri autobus dovessero vedersi interdetto l’accesso ad
alcuni scomodi siti. Inutile sottolineare l’orrore estetico di quegli enormi
bus parcheggiati davanti agli ingressi di alcune delle pagode più famose.
Il 29 dicembre lasciamo Bagan e
viaggiamo un giorno intero sulle strettissime strade, non sempre asfaltate, di
questo meraviglioso paese. Occorreranno due giorni per coprire una distanza di
350, 400 km. Durante il primo giorno di viaggio visitiamo il celeberrimo tempio
del Monte Popa, dedicato ai Nat (Esseri Elementari, Signori di vari elementi).
Nonostante le nostre aspettative, la visita sarà deludente… migliaia di persone
adoranti, “pupazzi” dal gusto discutibile (almeno per il nostro gusto
occidentale) e un’architettura che più Kitch non si potrebbe ci spingono ad
affrettare la partenza.
Nel corso della seconda mattina,
invece, ci fermiamo a visitare le grotte di Pindaya, un cunicolo naturale che
si immerge nel cuore della montagna per cinque o seicento metri, dove sono
state ammassate più di 80000 statue del Buddha. Vista l’esperienza del giorno
precedente, siamo indecisi se entrare o meno. Per fortuna alla fine ci lasciamo
convincere, e viviamo così a una delle esperienze più pazzesche, e suggestive e
commoventi di tutto il nostro viaggio. Per più di tre ore ci perdiamo in un
dedalo di cunicoli naturali che la pietà dei birmani ha costipato fino
all’inverosimile, ma pur sempre in un ordine artistico e ricercato, di statue
piccole, medie e grandi realizzate in oro, argento, tek dipinto, ceramica,
mattoni colorati, avorio e bronzo.
Quando finalmente ripartiamo da
Pindaya, in poche ore raggiungiamo la meta finale del nostro viaggio: Inle
Lake, il lago Inle, dove passeremo i nostri ultimi tre giorni di vacanza. La
sera andiamo a dormire molto presto e la mattina del giorno successivo
affittiamo una caratteristica piroga del luogo, a fondo piatto e albero motore
orizzontale sull’acqua. Con quella, insieme a tanti altri turisti e viaggiatori
che, come noi, si sono imbarcati su altre piroghe, lasciamo il porto, superiamo
un lungo e stretto canale e alla fine usciamo sull’immensa superficie dell’Inle
Lake. Prima ci dirigiamo verso il centro stesso del grande lago, per osservare
il complicato metodo di remare dei pescatori del luogo… che, in pratica, stanno
in piedi sulla prua dell’imbarcazione e, per avere il libero utilizzo di
entrambe le mani, incastrano un remo tra l’ascella, l’anca e la caviglia del
piede e, con un movimento serpentino, ottengono la vogata necessaria per far
procedere la barca.
Quando il nostro stupore si
placa, riprendiamo a navigare, accostiamo la riva occidentale del lago e ci
inoltriamo in sinuosi canali per visitare alcuni dei villaggi galleggianti che
animano le paludi che lo delimitano. In uno si fabbrica quello stesso tipo di
piroghe in tek sul quale noi stiamo navigando, in un altro si tesse la seta e
il filo di loto, in un altro ancora si producono originali sigari al tabacco
dolce mentre, nell’ultimo, troviamo al tornio alcune donne Padaung, meglio
conosciute con il nome di “donne giraffa”.
Per piacere agli uomini della
propria etnia queste donne, fin da bambine, vengono educate ad inanellare sul
proprio collo stretti cerchi di bronzo dorato. Uno sopra e dopo l’altro, progressivamente
nel tempo. Così facendo, i cuscinetti intervertebrali delle cervicali si
allungano e i muscoli si atrofizzano. Dopo una certa età nessuna di loro
potrebbe più vivere senza quei pesantissimi collari (circa otto chili), perché
il loro collo si spezzerebbe e loro morirebbero.
Un altro mirabile esempio della
follia dell’immaginario erotico maschile, che fa il paio con i piedini
deformati delle geishe giapponesi, delle labbra tagliate e deformate dai
piattelli labiali delle donne mursi e dal burka delle donne dei fondamentalisti
islamici.
Verso l’ora del tramonto
scendiamo e torniamo alla piroga: occorrerà più di un’ora e mezza per tornare
al porto dal quale siamo partiti.
Il terzo e ultimo giorno, infine,
con tre biciclette prese a nolo, gironzoliamo per la campagna circostante e
riusciamo a catturare bellissime immagini di una civiltà rurale che entro pochi
anni sarà destinata a scomparire per sempre, inghiottita dal globalismo del
modernismo occidentale. Molte capanne su palafitte, infatti, ostentano
l’antenna parabolica: quanto tempo occorrerà prima che la “TV spazzatura”
proveniente da tutto il resto del mondo riesca a corrompere l’animo gentile,
aperto e fiducioso di un popolo che neanche il pugno di ferro della più feroce
dittatura è riuscita a mutare? Non a caso, sia a Yangoon, che in tutte le altre
cittadine dove abbiamo soggiornato, qua e là già circolavano adolescenti con i
capelli colorati di giallo, creste da moicano e vistosi tatuaggi sulle braccia.
Non c’è nulla da fare… E’ solo
questione di pochi anni e la nube oscura di cui accennavo nelle prime righe mi
avrà raggiunto e sorpassato, distruggendo qualunque ultimo accenno di diversità
e originalità.