sabato 28 marzo 2020







Con queste parole non ho alcuna intenzione di mancare di rispetto al Mantra dal quale le ho riprese, ma ho voluto solo sottolineare che molto probabilmente, come umanità, ci troviamo davanti a una svolta molto significativa. Più significativa di tante altre che, comunque, in un modo o nell’altro, abbiamo già attraversato. Stiamo vivendo in un momento storico le cui determinanti sono molto complesse e suppongo che occorreranno molti sforzi e molto tempo per riuscire ad osservarle tutte. Perciò questo articoletto vuole offrire soltanto degli spunti che, magari tra i tanti altri, ci porteranno un giorno a comprendere di che cosa siamo testimoni.

Ho esercitato come psicoterapeuta per quarantacinque anni e credo perciò di poter affermare, in piena coscienza, che mai avevo avuto modo di osservare un panorama anche soltanto lontanamente simile a quello che in questi giorni sto osservando.
Mi riferisco, è ovvio, alla pandemia che da mesi sta imperversando ma che sto provando ad osservare da un punto di osservazione tutt’altro che ordinario.
Cercherò di spiegarmi meglio.
Il virus che sta dilagando in Italia e nel resto del mondo, a prescindere dal fatto che esso sia il risultato di una mutazione naturale o di una manipolazione genetica, è una ben precisa realtà… e i suoi effetti per la vita e la salute corporea di tutti noi sono (statisticamente parlando) più o meno gravi. Ho scritto “più o meno” perché i dati che ci vengono forniti non sono attendibili, ed è possibile che il numero dei decessi sia almeno in parte sovrapponibile a quello dichiarato negli altri anni. Ciò nonostante sembra innegabile la sua velocità di propagazione (anche se a prescindere dalle cause che la determinano: 5G? Polveri sottili?) e, soprattutto, la sua aggressività (ma sempre a prescindere da cause non ancora chiare: gravi stati di panico che annichiliscono il sistema immunitario? Vaccinazioni pregresse? Predisposizione per età o altre malattie?).
Certo, invece, è lo stato di emergenza e la non possibilità del Sistema Sanitario Nazionale di fargli fronte, a causa degli sconsiderati tagli economici subiti in quest’ultimo decennio che hanno messo in ginocchio una delle tante eccellenze italiane.
Insomma: ci troviamo in questa situazione che, occasionando una restrizione pressoché totale delle libertà individuali, ci costringe a rimanere reclusi nelle nostre case.
Ma non è di questo che intendo scrivere perché, come avrebbero detto gli scrittori o i giornalisti di una volta: già copiosi fiumi di inchiostro sono stati spesi per raccontare tutto e il contrario di tutto ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Oggi spendiamo bit… ma in fondo è la stessa cosa.
Quello che invece mi sembra interessante è provare a descrivere quello che sta avvenendo nelle anime delle persone ma, ancora una volta, a prescindere dalle dotte dissertazioni già pubblicate sulle dinamiche della paura e dell’ansia, su quelle del bisogno di molti di riuscire a trovare un “Capro Espiatorio” su quale scaricare la propria rabbia inespressa o su quelle, invece, di ubbidienza cieca promessa a una “Qualche Autorità” forte, pur di allontanare da sé qualsiasi pericolo. Anche su tutto ciò mi sembra che sia stato scritto abbastanza.
No! Piuttosto, il panorama che mi sembra di scorgere e di cui vorrei raccontare è rappresentato dal fatto che “l’evento Coronavirus” sembra essere riuscito a slatentizzare un immenso materiale psichico che, prima di questa terribile avventura, giaceva seminascosto sotto il tappeto della sala di rappresentanza dell’anima di tutti noi. In un modo o nell’altro, il rimosso è uscito allo scoperto e si sta affacciando dai balconi. Ma non per cantare “Fratelli d’Italia”, bensì per costringere tutti noi a fissare lo sguardo sul “buco nero” più o meno piccolo che tutti ci portiamo nell’anima.
Vorrei cominciare, pertanto, con un ossimoro non verbale, ma immaginifico: per quanto paradossale possa sembrare, molti di coloro che erano già da tempo in terapia stanno rispondendo meglio alla pandemia che non la maggior parte delle persone così dette “sane”. Certo non tutti. E di certo, per sostenere questo assunto, mi occorrerebbe poter fare una statistica comparativa più ampia di quella che sono in grado di fare. Per cui bisognerà che il lettore si accontenti di una mia valutazione intuitiva, anche se pur sempre basata – come avrebbe voluto Goethe - sul dato dell’osservazione.
D’altra parte, è pur vero che questo elemento paradossale era già stato osservato da molti dei miei colleghi psicoterapeuti in tempi non sospetti, se uno di loro, particolarmente creativo, mesi addietro aveva addirittura fatto girare su FB questa deliziosa storiella:

“Tutti i giorni mi capita di incontrare persone terribili!
Per fortuna poi arrivo a studio
e incontro i miei pazienti.”

Non conosco il collega che l’ha inventata ma, di sicuro, ha ben interpretato una nostra opinione comune. Perché quello che noi riconosciamo a tutti i nostri pazienti, anche a quelli che non riusciranno ad usufruire al meglio dell’avventura psicoterapica, è di aver avuto avuto il coraggio, l’enorme coraggio di mettersi in discussione e di provare a guardare il Drago negli occhi.
Credo perciò che l’apparente paradosso di cui sto parlando sia determinato da questo semplicissimo dato di fatto: le persone in terapia sono già in guerra con i propri fantasmi! Hanno sollevato il tappeto, si sono armati di ramazza e stanno provando a fare pulizia. Alcuni ce la faranno. Altri, forse, non otterranno il risultato voluto… ma ci hanno provato, o ci stanno ancora provando e, questo, è ciò che davvero conta. Per quanto affranti o spaventati dai propri “parassiti animici” hanno trovato il coraggio di guardarli negli occhi. Sono tra le persone più coraggiose che si possa immaginare, perché avere coraggio non significa affatto non avere paura, bensì combattere la propria paura afferrando con l’Io una Volontà di profondità che non si lascia intimidire dall’apparente sproporzione di forza. I “parassiti animici” sono davvero molto possenti, perché in realtà succhiano la loro forza dall’energia vitale dell’anima a cui si sono attaccati. E, bisogna pur ammetterlo, il pensiero cerebrale, astratto e dialettico che di solito gli si oppone non è in grado di fronteggiarli. Occorrerebbe un altro “pensare”… Tuttavia la “comunione di terapeuta e paziente” a volte scompagina le forze in gioco, e il miracolo si realizza.
Ma anche a prescindere da questo, io credo che sia questo il motivo per cui “l’evento Condivirus”, con il suo improprio carico di morte, di paura, di isolamento, d’inimmaginabili conseguenze sul piano economico e politico, non abbia colto molti pazienti psicoterapici impreparati: loro erano già in guerra con sé stessi e, chi più chi meno, avevano già smesso di raccontarsi menzogne.
E così, nel mio piccolo, registro che alcuni pazienti, affetti da una serie di squilibri psichici che si scaricavano sul corpo, creando sintomi invalidanti e persistenti, costretti a fermarsi… stanno meglio! I dolori sono scomparsi o, come minimo, sono attenuati. Una sorta di calma piatta ha preso il sopravvento e ha tranquillizzato la mente e il corpo. Le ristrettezze imposte hanno realizzato ciò che il pensiero ordinario era incapace di realizzare.
E ancora, paradosso tra i paradossi, vengo a conoscenza che addirittura alcuni ipocondriaci si sono placati… come se, di fronte al pericolo reale, i timori assurdi e privi di contenuto si fossero volatizzati. Perché adesso il nemico è lì, pur nella sua invisibilità, perciò bisogna rimboccarsi le maniche e combattere sul serio.
Registro di persone che hanno trovato il tempo di guardare più intensamente e profondamente in sé stesse e, di fronte ad una emergenza la cui violenza non è comparabile alle fisime sciocche ed inutili che prima le occupavano, assaporano un maggior equilibrio. Intravedono una luce là dove prima c’era solo il buio.
Registro persone che, con timidezza, si riaccostano al mondo dello spirito. Non tanto alla religione, quanto piuttosto a intuizioni velate sulla natura spirituale ultima del mondo, sul significato sacro della vita e sul mistero del proprio destino.
Registro una rinnovata voglia di comprendere meglio sé stessi e le persone che ci circondano, il desiderio di conoscere la verità e di smettere di credere alle favole che i Padroni del Mondo si sforzano di promulgare.
Certo… registro pure cedimenti, regressioni apparentemente ingiustificate, recrudescenze dell’ansia e dell’angoscia, stati di agitazione. Ma sono fenomeni che ben si inseriscono in uno squilibrio già riconosciuto, in un malessere che non può sorprendere e in una difficoltà del vivere con la quale, da tempo, si stavano facendo i conti.

Tutt’altra cosa per chi, nell’epoca dell’anima cosciente, non ha mai seriamente pensato di mettersi in discussione. Qui, “l’evento Condivirus” sta facendo stragi. Perché la sua invisibilità (propria dei fantasmi), la sua potenziale violenza, l’isolamento assoluto a cui costringe, almeno per il momento, le fosche previsioni che lascia intravedere sul futuro di tutta l’umanità, hanno colto molte persone impreparate. O meglio, le ha colte mentre erano in piena funzione i consueti meccanismi di difesa che tutti noi terapeuti ben conosciamo – rimozione, repressione, negazione, sublimazione e altri ancora – e li ha scompaginati. I giochi sono saltati, i nodi sono venuti al pettine, le menzogne si sono dissolte come neve al sole e hanno lasciato molte persone nude, vulnerabili e spaventate non solo di fronte al virus in quanto tale, bensì di fronte a tutti i fantasmi che il virus ha slatentizzato.
È in questo quadro, ad esempio, che va interpretata la paura della morte che imperversa oggi tra molte persone: non ci hanno mai davvero pensato (se non in maniera astratta e vacua). La medicina aveva promesso loro cure immaginifiche, i modelli ostentati dalla TV e dalle riviste patinate sono quelle di giovani, sani, belli e vincenti, la guerra non esiste se non quella sporca in paesi più o meno sconosciuti e la miseria non li ha mai riguardati poi troppo da vicino. E invece, adesso, all’improvviso, il sipario si è sollevato e la morte, il male, il pericolo, la guerra, sono tutti lì e li guardano con un sorriso beffardo dipinto sul loro volto di pietra.
“Non era vero niente… la vita non è una piacevole passeggiata come molti ci avevano fatto credere e, forse, nasconde un segreto che non conosciamo. Ma dov’è? Chi lo conosce? Come raccapezzarsi di fronte all’orrore?”
E penso altresì al problema della solitudine. Quella vera, reale e tangibile, che però fino a pochi mesi fa era stata occultata tra lavoro, relazioni occasionali, amici, sport e interessi di vario genere. La osservo e la confronto a quella “negata”, quella di chi pur stando “insieme” è più solo che mai. Come hanno decretato tanti studi di esimi colleghi, è la solitudine peggiore, quella che di più fa soffrire. E quante coppie, quanti nuclei familiari si trovavano in questa situazione? Quanti, aiutati sempre dal lavoro, da amanti occasionali, dagli amici o dallo sport by-passavano allegramente la loro più autentica solitudine interiore? Arriva il Condivirus, obbliga alla segregazione, e l’equilibrio salta, la vita dell’anima va in pezzi perché i dissidi, l’ostilità negata, l’indifferenza e il disamore non sono più occultabili.
E ancora: penso allo sguardo di molti che, inevitabilmente, corre verso il futuro. Cosa ci riserva? Che cosa accadrà? I più ingenui e i più ostinati continuano a sperare che magari tutto tornerà come prima… e hanno paura di confrontarsi con il fatto che, molto probabilmente, nulla più invece sarà come prima. Il mondo sta compiendo un giro di boa, e a prescindere dal fatto che non è ancora possibile intuire la direzione che prenderà, di sicuro nulla sarà mai più come prima. Quando usciremo dal bunker e ci guarderemo negli occhi vedremo qualcosa che non avevamo mai prima osservato: una Realtà Altra, un mondo sconosciuto, un uomo del tutto diverso… forse peggiore, ma forse migliore.
Per ora non è dato saperlo, ma questa consapevolezza inconscia circola nell’animo di tutte le persone, e molti non sono preparati ad affrontarla. Avvertono inquietudine, angoscia, disperazione… e l’attribuiscono al Coronavirus. Ma non è lui il vero problema. Lui ha semplicemente sollevato il tappeto e portato il problema alla luce del sole.

E così eccoci qua, tutti con l’anima allo scoperto. Cosa ce ne faremo?
Difficile dirlo.
Ci sono tutti i presupposti per una discesa verso il sub-umano… così come ci sono tutti i presupposti perché la componente migliore di noi trovi il coraggio di affermarsi. E non importa quale potrà essere lo scenario che i Padroni del Mondo si sforzeranno di imporci: è nelle trincee, nelle prigioni, nei lager, negli ospedali, che l’umanità ha sempre dato il meglio di sé. E la ragione è ovvia: chi ritrova sé stesso sperimenta con il cuore che la nostra natura più autentica e profonda di esseri umani “non è di questo mondo”.
Noi apparteniamo al cielo!

giovedì 19 marzo 2020



Io e la Morte, oggi…


Anche a voler cercare con cura le parole con le quali esprimere il mio pensiero, devo ammettere di percepire una sorta di profondo timore. Ma non tanto per la situazione di pericolo infettivo che tutti stiamo vivendo, bensì per la perdita della più elementare calma o tranquillità interiore con cui esaminare i fatti (o meglio i “Dati”) che si sovrappongono e che, a voler essere corretti, meriterebbero una più attenta riflessione. Quella tranquillità imparziale che ci permetterebbe davvero di dialogare, e non di scagliarci l’uno contro l’altro, ognuno a difesa della propria piccola verità assoluta, quella calma interiore – dicevo - non c’è, non esiste nell’animo della maggior parte delle persone. Al suo posto c’è una aggressività rabbiosa le cui radici affondano in dinamiche fin troppo evidenti per chi sappia contemplare la complessa realtà della vita dell’anima umana.
Perché nonostante nessuno voglia negare l’incombere di una patologia da infezione che sembra interessare la maggior parte dei paesi compresi in una determinata fascia climatica del nostro pianeta, ci sarebbe però da valutare con molta, anzi moltissima, attenzione se i dati che costantemente vengono forniti siano tutti corretti, oppure manipolati, sovrapposti, amplificati se non addirittura distorti.
Siamo di fronte alla più grande pandemia della storia moderna o al più grande inganno che mai mente umana (o diabolica?) potesse partorire?
Questo articoletto non vuole entrare nel merito della questione, perché chi scrive sa bene che anche soltanto aver accennato a questo plausibile sospetto sarà motivo di ire funeste, da una parte o dall’altra. Come più volte ebbe a ricordare Rudolf Steiner, l’uomo moderno sembra incapace di convivere con “le domande”…  se una perplessità o un dubbio gli si manifestano, egli subito esige una risposta. Non importa se essa poi si dimostrerà infondata, l’importante è averla ora! Adesso! Subito! E guai a chi osasse metterla in discussione.
Perciò lascio volentieri la questione alla libera iniziativa di ognuno. Su Internet, o sui giornali, sulla TV o altrove è possibile trovare tutto e il contrario di tutto.
Che ognuno si faccia l’idea che crede.

Ma anche per quello che potrebbe riguardare le cause ultime di questo stato delle cose lascio ad altri la parola, preferendo, semmai, allinearmi con i pensieri espressi dal giornalista e mio buon amico Piero Cammerinesi nel suo più recente articolo su questo stesso tema e di cui allego il link: https://liberopensare.com/io-e-il-coronavirus/?fbclid=IwAR105mVcHDX_i-CFf4nNIBDrkRsSwGJRm9bbd1QY_Fl0dQlfn0ENyReXRXE
Nell’articolo, mi si voglia perdonare l’estrema sintesi, il giornalista riconduce la presupposta pandemia che tutti stiamo subendo a una significativa perdita di autentici valori spirituali, abdicati a favore di una visione materialistica dell’universo e della vita di tutti noi uomini. L’analisi condotta nell’articolo mi sembra esaustiva e mi soddisfa.
Ma allora cos’altro ho da aggiungere? Questo: io sono convinto, e oramai da molto tempo, che la situazione descritta nell’articolo sia stata originata, ma nello stesso tempo continui ad alimentare come in un furioso e infernale feed-back, dalla smisurata, profondissima, cieca e stolta paura della morte che alberga nell’anima della maggior parte delle persone di questa sciagurata civiltà moderna occidentale. Una civiltà che, chiudendo gli occhi su quanto di terribile avveniva in altre realtà limitrofe (basterebbe pensare al Medio Oriente e a tutti i suoi orrori) ha pasciuto sé stessa nell’illusione di aver scongiurato ogni guerra, ogni malattia, ogni dolore e di aver diritto, perciò, a godere pienamente della vita senza doversi mai chiedere quale fosse il senso ultimo della propria avventura su questo piccolo mondo.
Ribadisco che queste mie parole sono antiche, e non scaturite da una qualsivoglia reazione al pericolo che ora tutti stiamo correndo. La mia ricerca interiore, infatti, è iniziata quando avevo solo quindici anni, propiziata da un drammatico evento luttuoso. Poi, però, ho continuato ad incontrare “nostra sorella morte corporale”… e sempre da molto vicino: a trentatré anni in montagna e a quarantanove in volo. E infine, per ultimo, soltanto pochi anni fa, quando ne avevo sessantotto, in motorino, a Roma, fermo ad un semaforo rosso. Mi arrogo perciò il diritto di affermare che conosco l’argomento di cui sto parlando e il titolo che ho voluto dargli non è solo un omaggio all’articolo di Cammerinesi. Era il lontano 2000 quando pubblicai il mio primo libro che, sotto un titolo magari fuorviante (Attività estreme e stati alterati di coscienza) affrontava lo stesso argomento: l’ingiustificata e generalizzante paura della morte presente nell’anima dell’uomo contemporaneo. Una paura inconscia, ma sconfinata, dalla quale gli deriva una quasi assoluta incapacità di valutare e giustificare qualunque azione altrui che sembri (e sottolineo “sembri”) sfidare tale innominabile tabù.
La verità, come ho continuato a ripetere e a scrivere in altri libri e in numerosi articoli (l’ultimo è stato nell’agosto del 2018, e questo è il link: https://medium.com/psicanalisi-antroposofica/ri-pensare-la-morte-2f93ee0399a1 ), la verità – dicevo – è che tutti noi abbiamo rimosso la morte attraverso inconsapevoli processi psichici di relativizzazione e banalizzazione. Per questo molti hanno sempre ritenuta erronea la mia analisi e affermato di essere invece ben consapevoli della morte come limite estremo della vita.
Ma il fatto è che tali affermazioni sono astratte, dialettiche, discorsive… possono servire a far credere a noi stessi, e al pubblico che ci ascolta, di essere ben consapevoli del nostro tragico destino di creature mortali, ma non sono pensieri davvero accolti nella profondità del nostro essere. Vagano nella nostra mente, appaiono e scompaiono come gusci vuoti, parole senza spessore, pur permettendo di fingerci compenetrati dal senso del tragico. Ma non sono pensieri pensati, non sono scesi nel nostro cuore, non hanno compenetrato nervi, muscoli e sangue di tutto il nostro essere e per questo motivo, per questo unico ed essenziale motivo, ci lasciano del tutto impotenti e terrorizzati quando la Pallida Signora ci si presenta davanti.
Quando davvero la Morte ci sfiora, o sfiora i nostri cari, o persone che noi ben conosciamo, allora perdiamo il nostro occidentale aplomb e saremmo pronti a tutto pur di allontanare da noi la terribile minaccia.
Non possediamo l’esperienza dei nostri avi, che hanno convissuto con carestie inenarrabili, conflitti religiosi, guerre sanguinose, eccidi ignominiosi, pestilenze incontenibili o sconvolgimenti tellurici di immani proporzioni. Abbiamo dimenticato le esperienze tragiche dalle quali proveniamo. Noi di fronte a Lei impallidiamo, le membra iniziano a tremare e le viscere ci si contraggono nel tentativo disperato di contenere un’angoscia oscura e minacciosa di fronte alla quale non abbiamo alcun rimedio. Ci sentiamo inermi, perché non abbiamo Principi Viventi che ci ispirano, non abbiamo conoscenze solide che ci sostengano sospesi sull’abisso, non abbiamo più neanche una vera fede (le chiese oggi sono deserte). Con tutta la nostra intelligenza, regrediamo alla condizione di bambini spauriti e ci aspettiamo che uno Stato Forte ci prenda per mano e ci rassicuri… in cambio di ubbidienza cieca e rinuncia a qualsiasi velleità o pensiero individuale.

Quanto vado scrivendo, spero mi si voglia credere, ha poco a che fare con la situazione di emergenza che tutti stiamo vivendo né, tantomeno, è un invito all’anarchia o alla mancanza di solidarietà con tutte le altre persone che ci circondano. Sono pensieri che coltivo da decenni, che si trovano sparsi in tutti i miei libri e che sono nati dalla constatazione di quanto poco tutti noi siamo davvero preparati a guardare la morte negli occhi e a considerarla davvero, e fino in fondo, un aspetto inscindibile della vita. Eppure, ne sono convinto tanto quanto coloro che lo hanno affermato prima di me: “Chi non sa morire, non sa neanche vivere!”
E la nostra civiltà imbellettata non sa vivere! Si aggrappa all’apparenza di vita che vive senza chiedersi nulla del suo significato più profondo con ciò producendo, senza rendersene davvero conto, due ovvie reattività: o stili di vita distaccati, indifferenti, smodati se non addirittura offensivi nello spregio del suo sacro valore. Oppure, al contrario, stili pusillanimi, trattenuti, vigliacchi, sempre pronti a difendere con le unghie e con i denti quel poco di vita di cui si accontentano, non osando neanche immaginare di poterla mettere in pericolo. 
Di fatto, la nostra società – pur essendo estremamente violenta e pericolosa – ci ha addestrati a credere di poter allontanare da noi il pericolo, qualunque pericolo, e di poter sempre avere qualcuno a disposizione a cui delegare la nostra sicurezza. Ne deriva che se siamo accorti, bravi e oculati, in linea di massima possiamo vivere tranquilli e sicuri. Sappiamo che c’è sempre qualcuno che pensa a noi (la Sanità Pubblica, la Polizia, la Protezione Civile, l’Assicurazione, lo Stato) e se poi, nonostante tutto, le cose dovessero andare proprio male, allora si cercherà un responsabile da crocifiggere o, molto meglio, qualcuno da cui farsi rimborsare.
Di fatto in questi ultimi decenni la vita media degli uomini si è decisamente allungata; la medicina ha realizzato miracoli e ulteriori ne promette, noncurante delle aberrazioni e degli stravolgimenti cui necessariamente sta andando incontro; le assicurazioni e i sistemi di previdenza si sforzano di garantirci il futuro e preservarci dall’incertezza; le agenzie turistiche offrono viaggi sicuri e avventure senza rischi (sic!); la comunicazione di massa ci propina, enfatizzandoli, modelli umani sempre più sani, belli, ricchi, vincenti, spensierati e, soprattutto, eterni. Di conseguenza sempre più uomini vivono inseguendo il proprio benessere personale come se la morte fosse un evento che non li riguardasse affatto, con il risultato inevitabile di non comprendere più il valore delle cose che li circondano, il significato delle proprie esperienze e, in definitiva, della loro stessa vita. Nessuno sembra davvero felice, ma nessuno sembra disposto a fare il più piccolo sforzo per cambiare questo stato di cose. La paura è troppo forte e non ci sono valori né insegnamenti che permettano di contenerla. Forse senza neanche accorgersene i più si sono rifugiati nell’anestesia, anche se, negata la morte, la vita resterà per loro un mistero incomprensibile.
La verità è che la morte vive con noi: nasce nel momento in cui noi nasciamo e solo se integrata nella nostra quotidianità, anziché assumere l’aspetto dell’orrore, potrebbe svelare quello della saggia consigliera. La verità è che solo accettandola come nostra inseparabile compagna di viaggio sapremmo affrontare la vita con il giusto atteggiamento e il misurato coraggio.

E la realtà che tutti noi stiamo vivendo in questo storico momento esigerebbe un tale coraggio! Perché come scrissero uomini ben più saggi di me: “Se non si ha un Principio per il quale morire, allora non si ha alcun motivo per il quale vivere”.

domenica 15 marzo 2020

Presentazione del mio nuovo libro






  
Prefazione anno 2020



Sarebbe mai possibile riassumere e sintetizzare in poche centinaia di pagine i testi di Rudolf Steiner: “Le opere scientifiche di Goethe”, “Saggi filosofici” e “Filosofia della libertà”, nonché quelli di Massimo Scaligero: “La logica contro l’uomo”, “Il trattato del pensiero vivente” e “Il pensiero come antimateria” ?
La risposta a questa domanda è un categorico no! Un no assoluto, perché tutti quei testi sono stati scritti seguendo una concatenazione logica rigorosa ed essenziale di pensieri molto più simile allo sviluppo di una equazione matematica che non a uno svolgimento filosofico. Così rigorosa ed essenziale da risultare risibile il fatto di riportarne alcune parti sottraendole al contesto generale in cui sono state inserite o, addirittura, alterandone l’ordine di successione. In più, tutti quei testi sono così esaustivi in sé stessi da far risultare ridicolo e dilettantesco qualunque tentativo di accorpamento sintetico.

E tuttavia…
Era il 1978 quando io, giovane terapeuta junghiano formatomi in uno dei pochi istituti privati operanti all’epoca, operativo già da sette anni ma timoroso che l’annunciato nuovo Albo degli Psicologi e degli Psicoterapeuti potesse non riconoscere retroattivamente l’operato di quanti si erano formati negli anni precedenti alla sua entrata in funzione, sentii il bisogno di assicurarmi la legalità del mio operare iscrivendomi alla Facoltà di Psicologia che, proprio in quegli anni, aveva aperto la sua sede anche a Roma.
Verso la fine del 1982 ero perciò in procinto di portare a termine la mia seconda laurea ma, non essendo uno studentello alle sue prime prove con la vita, dopo essermi assicurata come relatrice una professoressa che mi sembrava essere la più intelligente di tutta la facoltà, come tesi finale le sottoposi un titolo dall’apparenza innocuo, ma che sottendeva una critica spietata al dogmatico sistema scientifico di cui la Psicologia si stava facendo vassalla (il termine più congruo sarebbe stato: sgualdrina).
Inconsapevole di quello che avrebbe dovuto valutare, la mia relatrice firmò il titolo da me proposto: “La realtà della realtà tra percezione e concetto”.
Ottenuta la sua firma, sparii per nove mesi, alla fine dei quali le consegnai i due terzi della mia tesi che conteneva quella sintesi delle opere principali di Steiner e di Scaligero cui sopra ho accennato.
Senza ora rinnegare quanto detto nelle prime righe, mi posso però concedere di affermare che era un lavoro ben fatto: mi era costato uno sforzo di concentrazione che si era protratto per mesi e mesi, regalandomi alcuni dei momenti più sublimi di tutta la mia vita. C’erano stati giorni nei quali avevo percepito il mio pensare volare alto, sopra le nuvole dei pensieri quotidiani e, come un’aquila reale, intuire l’ebrezza di una libertà incommensurabile.
Uno dei primi mesi del 1983 consegnai la copia della mia tesi che, se anche aveva gli ultimi tre capitoli ancora da scrivere, poteva essere già considerata un lavoro completo.
Alla mia relatrice prese un colpo… o almeno così immagino, perché dopo una settimana mi riconsegnò il dattiloscritto dove sulla pagina di copertina aveva scritto:
Egregio dottor Priorini, il suo lavoro sembra più una tesi di Filosofia che di Psicologia e non credo che sarebbe corretto da parte mia convalidarla per la prossima sezione di Laurea.
Con ciò la mia stimabile collega, perché in un certo qual senso eravamo colleghi, mostrava come la sua innegabile intelligenza mancasse di quella più accreditata conoscenza mitteleuropea e onestà intellettuale che le facesse ricordare come la Psicologia fosse derivata dalla filosofia e che di una psicologia che ignorasse i propri presupposti filosofici non si sarebbe neanche dovuto parlare.
Oltre a ciò, tanto per non rinnegare il becero servilismo con cui la Facoltà di Psicologia si offriva al dogmatismo materialistico ovunque imperante, in tutto il mio testo (che, senza falsa e inutile modestia, bisognava ammettere fosse almeno formalmente impeccabile) le uniche sottolineature rosse erano riportate sotto i termini quali: “facoltà animiche” o anche solo “dell’anima” insieme a un punto interrogativo rosso e la dicitura: “Che vuol dire?”
Questo a Psicologia!
Nei primi mesi del 1983.
Io e la Prof. battibeccammo un poco, poi – devo ammetterlo - non sentendomi così agile e spregiudicato da ribattere punto per punto le sue dogmatiche argomentazioni (in fondo avevo solo trent’anni e lei era una Baronessa nel pieno dei suoi poteri) me ne andai irritato e ritirai la mia tesi. La settimana successiva ne chiesi un’altra alla cattedra di Psicologia Dinamica, allora presieduta da Aldo Carotenuto, e in soli tre mesi mi laureai presentando una tesi sull’Archetipo del Padre in Psicologia del profondo.
“La realtà della realtà”, battuta a macchina su una Olivetti 32 portatile, fu da me riposta in un cassetto e lì rimase fino a un paio di anni or sono.
Fu nel corso del 2018, parlando con un mio anziano paziente il quale, a suo tempo, era stato curatore di stampa di diverse testate giornalistiche, che mi venne da chiedergli se sarebbe stato di in grado di trasformare i fogli ingialliti della mia vecchia tesi in un più moderno file digitale sul quale poter intervenire o, addirittura… fantasticare di completare.
Mi rispose che la cosa era fattibile e così, per un equo compenso, in un paio di mesi mi consegnò la mia vecchia tesi in un Word di facile accesso. Compiaciuto la rilessi… per la prima volta dopo trenta cinque anni che l’avevo scritta… e, diamine… dovetti convenire che era un buon lavoro. Sempre senza togliere nulla alle affermazioni fatte nelle prime righe di questa prefazione, dovevo ammettere che avevo fatto il possibile per radunare i passaggi più importanti dei testi di Steiner e Scaligero in modo che potessero allettare altri ricercatori e sollecitarli verso più ampi orizzonti della conoscenza umana.
Dopo quella lettura, da qualche parte, nella mia anima, risorse il desiderio di portare a compimento quel lavoro. Tanti anni prima quel giovanile compendio mi aveva regalato momenti di vera e propria estasi e il tema, quello della fondatezza del pensiero in sé stesso, era sempre stato e ancora rimaneva l’argomento verso il quale provavo il più entusiastico interesse. Se non avessi paura di essere mal interpretato, oserei dire che quello era l’argomento che più profondamente amavo di tutta la scienza dello spirito.
E tuttavia… dove trovare il tempo in una dimensione della quotidianità così diversa da quella dei miei trent’anni? E poi, quali erano gli argomenti specifici con i quali, all’epoca, avrei voluto portare a compimento i capitoli finali della mia vecchia tesi? Me la sentivo davvero di imbarcarmi in una simile impresa?
In realtà feci passare quasi un anno, baloccandomi tra: “Ora mi ci metto” e un “Ma che vado a pensare, lasciamo perdere”.
Sapevo benissimo che il mio sforzo non sarebbe stato destinato a nessuna pubblicazione, né, peraltro, ci tenevo più di tanto. Ma il fascino irresistibile era rappresentato dal fatto di tornare a mettermi alla prova, dopo così tanti anni; di verificare fino a che punto quei pensieri fossero maturati in me; e, infine, di testimoniare la mia fedeltà allo spirito (Michael) che di quei pensieri è il Paladino.
Non ultimo, poi, sentivo risuonare nel mio animo le stesse identiche parole del paratesto che il mio terapeuta di un tempo, anch’egli antroposofo, aveva usato per il suo personale commentario a “Filosofia della libertà”:
Amor, che nella mente mi ragiona
Sì, l’amore sospingeva anche me… e così mi rimboccai le maniche e detti inizio alla fine della mia opera.
Ma quanta fatica… non avevo immaginato quanto fosse difficile a settant’anni suonati, ancora dedito al lavoro di terapia, piacevolmente impegnato in una relazione d’amore con la compagna di questi ultimi vent’anni, distratto da mille altri interessi (alcuni, ahimè, anche superflui), trovare la concentrazione necessaria per portare a termine un lavoro iniziato nell’esuberanza giovanile dei trent’anni.
E poi… quante maggiori informazioni e quant’altri riferimenti scientifici avevo accumulato in tutti quegli anni? In realtà, avrei potuto ricominciare tutto da capo e avallare il mio dire con ben più corposi riferimenti. Decisi, però, di non farlo e di lasciare le prime 150 pagine così come le avevo scritte, senza cambiarne nemmeno una virgola.
Mi fu tuttavia impossibile rintracciare e mantenermi fedele a quello stile essenziale, asciutto e rigoroso che ero riuscito a esprimere in quegli anni. Non ero più il ragazzino di una volta, troppe esperienze e troppe conoscenze si erano accumulate, cambiando me e lo stile letterario con il quale da troppo tempo, oramai, mi esprimevo.
Tuttavia, ci provai… e se il lettore-amico che un giorno leggerà queste pagine troverà, nonostante i miei sforzi, che il salto sia comunque eccessivo… non me ne voglia. Sappia che davvero mi sono sforzato e, dove ho mancato, lo addebiti piuttosto alla immaturità del mio pensare di fronte al compito che ha osato immaginare.


INDICE

Prefazione                                                               pag.7
INTRODUZIONE                                                             pag.13
I. L’ERRORE GNOSEOLOGICO E LE SUE RIPERCUSSIONI NELLA RICERCA SCIENTIFICA.
1.1. L’impostazione gnoseologica di Kant                         pag.39
1.2. Le conseguenze dell’errore                                          pag.46
1.3. Contraddizioni insuperabili                                          pag.54
II. UNA CORRETTA IMPOSTAZIONE GNOSEOLOGICA.
II.1. Il momento dell’esperienza                                         pag.63
II.2. Il pensare sconosciuto                                                 pag.76
II.3. Il pensare e la realtà                                                     pag.90
II.4. Percezione, Rappresentazione, Pensiero                     pag.108
III. LA REALTA’ DELLA REALTA’
III.1. Oggettività delle sensazioni                                       pag.119
III.2. Il mistero della materia                                               pag.135
III.3. Per una futura scienza del percepire                           pag.143
  
SECONDA PARTE


IV. VERSO UNA NUOVA SCIENZA                             pag. 153
V. LA CONOSCENZA DELL’ INORGANICO             pag.163                                  
VI. LA CONOSCENZA DELL’ ORGANICO                pag.179
VII. LA CONOSCENZA DELL’UOMO                         pag.193

CONCLUSIONI                                                                pag. 207

venerdì 13 marzo 2020



Tutto e il contrario di tutto

La visione del mondo antroposofica di Rudolf Steiner mi ha insegnato molte cose e, quasi tutte, si sono incise in maniera profonda e significativa nella mia anima. Ma ad una, in particolare, mi sono sempre sentito legato e in tutte le più svariate occasioni mi sono sforzato di applicarla.
È una regolina apparentemente molto semplice e potrebbe essere riassunta così: “Se vuoi davvero comprendere o conoscere una cosa, un fatto o una qualsivoglia realtà, bisognerebbe imparare a osservarla da tutti i punti di vista, perché solo un tale sguardo potrebbe coglierne la verità. E 360° gradi potrebbero addirittura non essere sufficienti… bisognerebbe piuttosto osservare quella cosa, o fatto, o particolare realtà, come se fosse al centro di una sfera sulla cui superficie interna potesse liberamente vagare il nostro sguardo ripieno di pensiero, e così abbracciare l’oggetto esaminato da tutti i più possibili punti di vista”.
Certo… Non è facile accogliere e rendere vivente una tale capacità di riflessione ma io credo che se ognuno di noi non si sforzerà di farlo, sempre più difficile sarà la nostra capacità di intenderci e di portare a compimento l’esperimento Uomo.

E adesso tutti noi abbiamo un’occasione straordinaria, forse unica, di maturare in un tal senso. Ce la sta offrendo il Corona-Virus.
Vediamo come:
1) Ci sono persone che, bloccate a casa, inneggiano all’occasione più unica che rara di riappropriarsi del proprio tempo, di ritrovarsi tutti in famiglia e di mangiare insieme, seduti allo stesso tavolo, come non facevano più da molto tempo.
2) Ci sono piccoli imprenditori che, impotenti, stanno osservando andare in pezzi la loro già precaria situazione lavorativa e finanziaria. Hanno una moglie (o un marito) e dei figli e sanno, con assoluta certezza, che entro un tempo brevissimo potrebbero ritrovarsi senza più un tetto sulla testa e senza più nulla da poter mangiare. sono in uno stato di vera e autentica disperazione.
3) Ci sono giornalisti che elencano il numero dei morti che si verificano ogni giorno e raccontano lo sforzo immane che medici e personale infermieristico stanno compiendo per tentare di arginare una pandemia come non si vedeva oramai da molto tempo. Almeno in Occidente.
4) Altri giornalisti, tuttavia, confrontano i dati statistici con quelli di altri anni, esaminano le procedure con cui il virus è stato affrontato, e denunciano il fatto che i dati clinici non sono poi così diversi da quelli degli altri anni e che, senza una comunicazione panica, forse si sarebbe potuto intervenire con più efficienza.
5) Ci sono anime belle, spregiudicate, che colgono l’occasione per intravedere nel Male che sta diffondendosi una buona occasione per ricollegarsi con quella dimensione spirituale che da troppo tempo è stata obliata e, appunto per questo, piegare il capo, penitenti e rendere omaggio al Dio della propria fede.
6) Ci sono anime altrettanto spregiudicate, che senza pudore alcuno, denunciano la possibilità di una pandemia strategica, organizzata per fini economico-finanziari, politici e militari al livello globale. Hanno rintracciato laboratori segreti dove si pratica ingegneria genetica per guerre batteriologiche a basso o ad alto impatto, hanno correlato tra loro gli squilibri in atto tra le massime potenze del momento (U.S.A., Israele e Gran Bretagna da una parte e Russia, Cina e Corea dall’altra), hanno sottolineato il ruolo politico ed economico fallimentare della vecchia Europa e l’uso sperimentale di “terra di nessuno” che ne stanno facendo le Grandi Potenze Mondiali.
7) Ci sono persone sorridenti dalle finestre o dai balconi delle case nelle quali si sono segregati e che dispiegano al vento striscioni improvvisati sui quali campeggia un arcobaleno e la scritta, fiduciosa: Noi ce la faremo! Passerà anche questa!
8) Altri soffrono la segregazione forzata e sfidano il proprio destino passeggiando per le strade o nei parchi delle città. Hanno letto tutto quello che potevano sulle mascherine commerciali, sanno che non servono a nulla e se ne vanno in giro con il volto scoperto osservando un mondo che sembra andare a rotoli.
9) Alcuni inneggiano alla prova di fermezza e coerenza data dall’attuale governo italiano, ne apprezzano i provvedimenti e sono orgogliosi di rispettarne le disposizioni.
10) Altri, però, intravedono in tutti questi provvedimenti una sorta di prova generale per l’istituzione di un totalitarismo assoluto, costruito sulla fiducia e sull’amore dello schiavo nei confronti dei propri padroni.

Bene… potrei continuare. Avrei ancora molti altri punti di vista da elencare, ma per rendere l’idea di ciò che voglio dire quelli riportati possono bastare.
Perché, in fondo, davvero tutte queste osservazioni e riflessioni sono in un contrasto insolubile tra loro? Davvero la drammatica realtà nella quale stiamo tutti vivendo è solo bianca o nera, rossa o blu, gialla o verde, senza alcuna mediazione di sorta?
E se il Corona-Virus fosse tutto questo e ancora molto di più?
E se fosse una realtà indefinita che solo un pensare vivente, mobile e creativo potesse alla fine comporre correlando tra loro tutti i dati in suo possesso e contemplarlo, alla fine, nella sua verità in divenire?

Ecco… adesso, magari, qualcuno concorderà con questi miei pensieri e, con titubanza e molta, molta cautela, potrebbe addirittura provare ad accordarvisi. Ma non è questo il punto. Il punto è: riuscirà a farlo in maniera sentita, e autentica, e veritiera? Riuscirà ad essere così mobile interiormente da abbracciare come se fossero le sue tutte le posizioni che sul fenomeno in atto sono state dette e su tutte quelle che ancora si diranno?
Perché il vero problema, almeno per quello che mi è stato dato di osservare, non è il fatto che persone diverse, con destini diversi, cognizioni e coscienze diverse, vedano l’attuale pandemia così tanto diversamente… No! Il vero problema consiste nel fatto che la maggior parte delle persone sarebbe pronto a uccidere e a squartare chiunque osasse esporre in sua presenza una visione dissimile da quella da lui sostenuta. Il vero problema è che quelli che girano con mascherine e guanti di lattice strozzerebbero volentieri chi se ne va in giro a volto scoperto. E quelli che inneggiano al “Buon Governo” vorrebbero in galera tutti coloro che si sforzano di comprovare gli sporchi giochi di potere che serpeggiano sotto la situazione che tutti stiamo vivendo. Gli “Io-sto-a-casa” odiano con ferocia tutti coloro che si muovono, i più coraggiosi odiano i più timorosi, quelli più semplici e ingenui odiano tutti quelli che si impegnano a cercare di svelare gli aspetti nascosti sotto la superficie delle apparenze.

Questo è il vero problema! Questo è il vero fallimento del “progetto Uomo”: che siamo ancora lontanissimi dalla capacità di comprenderci l’uno con l’altro e di capire che ognuno di noi, ognuno con la sua piccola verità acclarata, è solo una piccola parte di un quadro molto più ampio all’interno del quale nessun particolare, per quanto piccolo, dovrebbe essere considerato inutile o del tutto errato. Siamo lontanissimi dal sentirci tutti fratelli di sangue, ancora una volta intrappolati in una terribile prova che se non riusciremo a superare tutti insieme sarà invalidata per tutti. Siamo lontanissimi da quella capacità di amarci davvero l’uno con l’altro dalla quale dipende il successo o il fallimento dell’esperimento umano del quale, volenti o nolenti, tutti facciamo parte.