Una Luce improvvisa nell'anima
Devo fare una premessa: la vita mi ha concesso
il dono prezioso di poter realizzare molti grandi viaggi. Non tanti quanti la
mia sfacciata e pretenziosa fantasia avrebbe desiderato ma, indubbiamente,
davvero tanti. Dal Tibet alla Terra del fuoco, in Patagonia; dall'Islanda a
Cuba; dal Vietnam al Medio Oriente; dai più straordinari e assolati paesi
dell'Africa agli Stati Uniti d'America.
Scrivo questo non per mero autocompiacimento o
per gratuita ostentazione, ma solo per dare spessore e intensità alla
testimonianza che in questa rubrica voglio lasciare. Perché, pur avendo avuto
infinite opportunità, rare sono state le volte nelle quali la commozione ha
inondato la mia anima in maniera così intensa e assoluta da farmi quasi
dimenticare chi io fossi e dove, di fatto, mi trovassi. Come quel lontano
giorno, a Pashupatinath, sulle rive del Bagmati, in cui mi persi osservando il
fumo denso e acre delle pire funerarie offuscare lo splendore delle cupole dorate
del tempio dedicato a Shiva. O come quella volta che le note di una fuga di
Bach mi sorpresero sgorgando all'improvviso, maestose e solenni, dalle canne
d'organo della cattedrale di Canterbury. Oppure ancora ad Aleppo, quando mi
lasciai coinvolgere nel fervore dei fedeli musulmani che pregavano nella
splendida moschea verde degli Omayyadi. O a Lhasa, quando nascosto tra le mille
colonne rosso sangue del Jo-Kang, potei spiare i pellegrini che vi giungevano
stremati dopo mesi di estenuante camino e si gettavano proni, distesi con tutto
il corpo, a baciarne il pavimento. Così come rapito ed estasiato rimasi a
Istanbul, in un locale nascosto e un po' fuori mano, durante una cerimonia dei
Dervishi ruotanti; o sull'isola di Chiloé, in Cile, nell'atmosfera austera e
riservata della piccola chiesa lignea di Castro, realizzata dai mastri
carpentieri dell'isola sotto la guida dei missionari gesuiti. O, ancora, ad
Assisi, nella cattedrale di Santa Chiara, ascoltando il coro celestiale delle
clarisse nella notte di Natale di tanti anni fa. O, per finire, nello sperduto
villaggio di Possotomé, in Benin, quando fui invitato ad assistere a
un’improvvisata cerimonia voodoo e, non so come, mi ritrovai a suonare uno
jambé mentre intorno a me i feticci ruotavano e le donne ballavano entrando in trance.
Sí... lo so! Queste esperienze, riassunte in
poche righe, sembrano molte e dunque frequenti... ma in realtà sono pochissime
se si considera che sono state realizzate nell'arco di un'intera vita di
viaggi. A testimonianza del fatto che sono sempre inconsuete e straordinarie le
occasioni in cui l’animo di un viaggiatore può realizzare esperienze così
coinvolgenti da permettergli di scavalcare le proprie ordinarie difese
psichiche e farsi scaraventare nel mistero.
In Chapas, nella piccola cittadina di San Juan
de Chamula, questo è di nuovo accaduto.
Ma andiamo con ordine.
Dicembre 2013. Dopo aver rimandato per anni il
viaggio in Messico, quasi a voler protestare contro la psicosi collettiva
relativa alla fine del mondo prevista (secondo discutibili interpretazioni) dal
calendario Maya, alla fine io e mia moglie decidemmo di regalarci il tanto
sospirato viaggio.
Arrivati a Cancun, nello Yucatan, prenotammo una
piccola utilitaria e partiamo. Sorvolerò sulle nostre tappe più ovvie:
Valladolid, Chichen-Itza, Uxmal, Lebna, Edzna, Palenke, Yaximal e, alla fine,
San Cristobal, in Chapas, posta a 2200 metri di quota. Arriviamo in questa
splendida cittadina tutta in stile coloniale – molto simile a Trinidad, se
immaginata almeno 100 volte più grande - nella notte del 24 dicembre. Ci ha
guidato il caso, spingendoci a seguire i capricci del sole in una stagione che
si comporta in maniera anomala rispetto agli standard stagionali. Alloggiamo in
un bellissimo hotel che, senza alcuna pressione da parte nostra, ci pratica uno
sconto irrinunciabile. Andiamo a letto presto, dopo una cena frugale, perché
alle ventuno tutti i locali e i ristoranti avrebbero chiuso per concedere al
personale di passare in famiglia il santo Natale.
La mattina del 25, prestissimo, siamo già in
piedi e usciamo all'aperto in una giornata di sole sfolgorante. La città, com’era
da aspettarsi, è deserta. Decidiamo perciò di prendere un
"collettivo" (un taxi cumulativo) e di recarci a San Juan Chamula,
una piccolissima cittadina a soli 15 km di distanza da San Cristobal, abitata
quasi esclusivamente da Tzotzil, una delle poche sopravvissute etnie Maya.
Chamula è famosa per la piccolissima chiesa di architettura coloniale al cui
interno sopravvive, immutato nei secoli, il sincretismo tra gli antichi culti
pagani e la religione cattolica.
Il "collettivo" ci scarica all'inizio
del viale che conduce alla piazza principale, “Quella laggiù - ci indica il
conducente - quella che s’intravede in basso, alla fine delle bancarelle di
souvenir che incorniciano il viale”. Curiosando tra un banco e l'altro
percorriamo la distanza che ci separa dalla nostra meta. All'improvviso la
piazza si apre ai nostri occhi: lo slargo è enorme e, alla luce del sole basso
e radente delle prime ore del giorno, a 2200 metri di quota, risulta
amplificato e impreziosito da una mescolanza di vividi colori. Davanti alla
piccola chiesa che occupa lo sfondo, infatti, i Tzotzil stanno montando il
mercato e la piazza sembra la tavolozza di un pittore naif: il giallo delle
banane, il rosso vivido dei pomodori, il verde delle papaie, il nero e il
bianco delle pelli di capra, i ricami colorati delle coperte e delle tovaglie
artigianali. Sui pochi alberi che
circondano la piazza sono legati migliaia di palloncini colorati. Lo spettacolo
è magnifico, ma noi siamo ben vaccinati. Per quanto piacevole e sorprendente,
la scena non si discosta poi di molto da quella che abbiamo ammirato sull'isola
di Djiené, in Mali, ai piedi della più grande moschea di fango del mondo. Dobbiamo
tuttavia riconoscere che i costumi locali sono straordinari: gli uomini
indossano giubbotti di pelo lungo di capra nero o bianco, chiamati chujes, e
larghi cappelli bianchi da cowboy. Le donne, invece, indossano camicette
bianche ricamate con fiori di tutti i colori e lunghe gonne di pelo di capra,
sempre nera o bianca. In capo hanno un buffo cappello di stoffa ripiegata. In
un certo qual modo ricordano i nostri "mamuthones" sardi, anche se le
fattezze del loro volto sembrano incartapecorite dal tempo. Girovaghiamo tra i
banchi della frutta scattando qualche foto e ci avviciniamo all'ingresso della
chiesa. Da questo punto in poi macchine fotografiche e videocamere sono ‘vietatissime’,
se non si vuole rischiare una solenne bastonatura da parte dei guardiani e
della gente del posto. La facciata della chiesa è bianca con delle modanature
verdi che fanno da cornice al portale e ai motivi ornamentali del tetto.
Davanti all'ingresso un piccolo gruppo di Tzoltzil, con stravaganti ed enormi
strumenti musicali, officia un antico rituale maya. A dieci metri dagli
officianti alcuni fedeli sono in ginocchio e, alla fine di ogni strofa, si
avvicinano di un paio di metri. Un odore intenso d’incenso aleggia nell'aria.
Ammetto di aver tentato di "rubare" qualche immagine, ma la
maledizione dei Maya ha mandato fuori campo l’obiettivo della mia cinepresa.
Alla fine, facendoci largo tra la folla varchiamo
l'ingresso della chiesa e... rimaniamo senza fiato. L'interno - trentacinque
metri per quindici - è completamente vuoto. Il pavimento, presumibilmente di
marmo bianco, è ricoperto da uno spesso strato di aghi di abete. A destra e a
sinistra, per tutta la lunghezza dei lati, si avvicendano dei tavolini bassi
sormontati da teche di legno e vetro al cui interno si trovano dei santi, in
grandezza naturale, realizzati in legno o ceramica ma con vestimenti di stoffa.
Tra una teca e l'altra, il muro è tappezzato di fiori bianchi. Sopra i
tavolini, più larghi di almeno venti centimetri delle teche, ardono migliaia e
migliaia di candele. Sul pavimento, tra gli aghi di abete, alcuni Maya sono
accucciati in piccoli cerchi e officiano strani riti accendendo decine di altre
candele. In fondo, l'abside è un tripudio di fiori bianchi e palloncini
colorati. All'altezza dell'altare solo quattro cerchi concentrici al neon,
rosso, giallo, verde e bianco che si accendono e spengono in alternanza creando
un senso di convergenza verso il centro. Il significato è inequivocabile: qui è
nata la Vita. Qui è nata la Luce. Dall'unica finestra posta sul lato destro, in
direzione sud, un raggio di sole penetra obliquo a testimonianza che: "Dio
c'è!"
Non credo che si possa immaginare nulla di più
kitsch e pacchiano... ma l'insieme è sconvolgente. La luce e il fumo delle
candele, l'odore resinoso degli aghi di abete, lo sguardo dei santi dalle
teche, il profumo dei fiori, il mormorio confuso e disarmonico dei Tzoltzil, il
messaggio ovvio dei cerchi al neon, non concedono dubbi: qui il Divino è
immanente!
L'atmosfera è satura di forze magiche che
vibrano sull’onda della devozione incondizionata e assoluta di questo semplice
e antichissimo popolo.
La mia compagna, una donna pragmatica e disincantata,
ma con un animo purissimo, dopo pochi minuti da che siamo entrati, spontaneamente
s’inginocchia tra gli aghi di abete, abbassa la testa sul petto e chiude gli
occhi, lucidi per la commozione. La mia anima intellettuale, invece, complicata
e fin troppo sovrastrutturata, accenna a un moto di resistenza. Ma l'atmosfera
magica della chiesa è troppo potente e, in breve, mi ritrovo inerme, il
pensiero vuoto, gli occhi gonfi di lacrime. Restiamo così non so più quanto
tempo. Non riusciamo a staccarci. Non riusciamo a deciderci di muoverci, uscire
dalla chiesa e porre fine a quello straordinario evento interiore. Senza esserci
scambiati una sola parola, entrambi stiamo vivendo la medesima identica
esperienza di rapimento interiore, prigionieri consenzienti di questo natale
maya che il destino ha voluto regalarci.
Quando dopo molto tempo riusciamo a strapparci
dall’incantesimo e a uscire all’aperto mi metto a riflettere: alcune leggende
esoteriche asseriscono che l'umanità – nonostante tutte le sue nefandezze -
sarà risparmiata dal giusto furore divino, e il pianeta sarà risparmiato dalla
distruzione, fintantoché nel mondo sopravviveranno almeno sette saggi che, con
la loro devozione, intercederanno per tutti coloro che non lo meritano. Mi
viene spontaneo pensare che, oltre all'opera dei sette sconosciuti saggi, una
buona parte delle intercessioni possa giungere agli dei dalle preghiere di
popoli semplici e devoti come appunto i Tzoltzil che, con la purezza dei loro
intenti, hanno mantenuto la grazia di parlare al cuore degli dei.
Rifletto ancora e, per quanto convinto foto-amatore,
per la prima volta sono costretto a chiedermi: "Ma non sarà, davvero, che
le fotografie rubino l'anima ai luoghi e alle persone, per poi disperderla,
strumentalizzarla e, infine, banalizzarla? Non sarà che l'atmosfera magica
della chiesa di Chamula sia così potente proprio perché protetta - anche con la
violenza, se necessario - dagli stupidi impulsi che imperversano negli animi
dei tanto evoluti uomini moderni occidentali che, come noi, non conoscono
davvero l’umiltà e il timor di Dio?”
Assorti nei nostri pensieri, riprendiamo a
girovagare nella piazza.
- Grazie, Spirito del popolo Maya… grazie del
meraviglioso Natale che hai voluto donarci.
non sarà che lo Spirito esiste e noi siamo solo diventati sordi alla sua sacralità?
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