Due “sottili”
esperienze napoletane
La prima: Abbiamo deciso di regalarci
un fine settimana artistico-culturale nella meravigliosa città di Napoli. Così,
sabato mattina, dopo aver vagato tra i palazzi del centro storico della città,
ci rechiamo alla cappella di Sansevero, per contemplare il capolavoro di
Giuseppe Sanmartino, il “Christo velato”. Ammetto che non ci eravamo informati
affatto sul “dove” avremmo trovato la scultura marmorea e “cosa” rappresentasse
quel luogo. Così la sorpresa è totale, perché l’ideatore della cappella fu il
principe Raimondo di Sangro, massone, alchimista, scienziato e inventore che
intese farne un “luogo iniziatico”. Cioè a dire un luogo architettonico in cui
gli spazi, gli affreschi, le statue e ogni minimo altro particolare, avessero
la proprietà di occasionare nel visitatore un’esperienza trascendente. Non a
caso, perciò, nel suo testamento, il principe pregò gli eredi di non modificare
il più piccolo dettaglio della cappella. Peccato che nel 1889 un’infiltrazione
d’acqua facesse crollare il camminamento posto tra la dimora privata del
principe e la cappella, rovinando tutto il pavimento di quest’ultima. Si trattava di un mosaico di marmoree
tarsie policrome all’interno delle quali era incastrata una linea di marmo
bianco, continua e senza giunture. L’opera, ideata dallo stesso principe,
rappresentava un “Labirinto” (il labirinto dell’anima) ed era così complessa e
articolata che nessun restauratore, in seguito, fu più capace di ricostruire.
Nonostante
questa ragguardevole mancanza e l’ingombrante afflusso di pubblico, che
impedisce qualunque raccoglimento su se stessi, l’affresco del soffitto (Gloria del Paradiso di Francesco Maria
Russo), le statue delle virtù (tra cui spiccano La Pudicizia e il Disinganno),
tutto il resto dell’impianto statuario e, infine, il Christo velato al centro della sala, hanno conservato qualcosa
della loro sublime capacità evocativa. E mi permetto di credere che la statua
centrale alludesse alla possibilità che il visitatore preparato realizzasse una
ben precisa esperienza occulta.
Tuttavia,
mentre ci guardavamo attorno stupiti e commossi, ancor più siamo stati rapiti
da un particolare quasi nascosto, pur nella sua ostentata evidenza, contenuto
nell’altorilievo dell’altare maggiore. Un’opera, guarda caso e chissà perché,
che nessun turista presente degnava di uno sguardo. Si tratta di una bellissima
e impressionante Deposizione di
Francesco Celebrano che, in pratica, occupa tutta l’altezza della parete di
fondo della cappella. In basso e al centro, piccoli rispetto all’intera
scultura, due Putti offrono, al visitatore attento, una sorta di Sindone (o
meglio una Veronica) che, essendo di metallo dorato su sfondo marmoreo, “sembra
forare” la scena. Tralascio di dilungarmi sull’uso dell’oro, nell’arte, come
rimando diretto a dimensioni spirituali “altre” rispetto a quelle fisico
sensibili.
Come se non
bastasse, però, il Putto in secondo piano solleva in alto il dito indice della
mano destra, nello stesso identico modo con cui Raffaello raffigurò Platone nel
suo celeberrimo quadro “La scuola di Atene”. Un gesto che, nella simbologia
occulta, in genere richiama la presenza dell’Io.
Insomma… ci
sono tutti i presupposti affinché, dopo la visione del “Christo velato” al centro della sala, l’esperienza che il principe
di Sangro voleva provocare potesse e dovesse essere completata dalla devota
contemplazione del volto aurico del Cristo che “buca” la parete scultorea della
Deposizione.
La seconda: la mattina seguente, prima
di ripartire per Roma, decidiamo di andare ai locali del Pio Monte della
Misericordia dove, ci avevano detto che avremmo trovato il meraviglioso “Sette Opere di Misericordia” di
Caravaggio e altri prestigiosi dipinti sullo stesso tema realizzati da alcuni
grandi artisti della “scuola napoletana” del seicento.
Contemplare un
“Caravaggio” suscita sempre una certa emozione… ma le sette opere che
circondano il quadro (la chiesa è a pianta ottagonale) non sono certo da meno.
La visita però
prosegue nelle sale superiori dove, nella così detta Quadreria sono conservate
all’incirca 144 grandi opere che vanno dal XV al XX secolo.
In realtà sono
quasi tutte opere pittoriche classiche, salvo alcune modernissime, raccolte in
un paio di sale. Quest’ultime spaziano da una serie di tele con colori
mischiati e sparpagliati con molta cura (dicono) a una lastra semimetallica con
una piccola pietra dorata incastrata ad un terzo dell’altezza. Oppure da due
materassi usati, sdruciti, ripiegati e legati con uno spago ad un espositore
per abiti con sette stampelle e sette canottiere di diverso colore con su
scritto: “dar da bere agli assetati”, “seppellire i morti”, “soccorrere i
bisognosi” e così via.
Ora… se
proprio si vuol scherzare, lo si faccia pure. Non c’è motivo alcuno per
scandalizzarsi. Gli artistoidi da strapazzo che in questo modo sbarcano il
lunario nelle “personali” di New York o di Berlino hanno pur diritto alla loro
libera espressione a alla presa per il culo di quanti si lasciano incantare
dalle loro cialtronerie.
Quello che abbiamo
trovato invece raccapricciante sono gli “scappellamenti critici” che
accompagnavano quelle presunte opere e che rimpiango di non aver fotografato
con il cellulare per poterle riportare integralmente.
Ma il senso era
pressappoco questo: “Colore a olio versato in abbondanza sulla tela, per essere
poi spatolato come percorso artistico che va da Piero della Francesca al
Caravaggio in un susseguirsi di dolcezza, fermezza e violenza che l’artista ha
poi sublimato”.
Oppure: “
Canottiere della Misericordia che, nella loro pochezza espressiva, raccontano
la condizione di abbandono e trascuratezza di queste qualità nell’anima
dell’uomo moderno”.
Naturalmente,
per ogni così detta opera, l’accuratezza della disamina critica era ben più
corposa e articolata, dipanandosi in un susseguirsi di metafore astratte la cui
creatività fantasiosa era ben superiore alle opere di cui si occupavano.
E noi ci siamo
dovuti chiedere: “Possibile? Fino a queste assolute astrusità può arrivare il
pensiero astratto, decerebrato e vuoto dell’uomo contemporaneo? Davvero nessuno
si scandalizza, non tanto per queste così dette opere, quanto piuttosto per la
pseudo-dignità che un pensiero autocelebrantesi vorrebbe loro conferire?
Nessuno si ritira, inorridito, di fronte alla contemplazione di un pensare che
ha totalmente perduto se stesso e che ora vaga, applaudito da una folla di
mentecatti, senza più rammentare il significato e il senso del proprio brillare
nella coscienza dell’uomo?
Insomma… a
Napoli abbiamo così realizzato due “sottili” esperienze: quella di un “vuoto”
che contiene il Tutto (Io sono la Via, la Verità e la Vita) e quella di un
“tutto dialettico” che, invece, contiene il Grande Vuoto. Quello che aleggia
sulla nostra povera civiltà moderna.
Nessun commento:
Posta un commento