Si può rubare una morte?
Ebbene sì! Per quanto assurdo o
paradossale il fatto possa sembrare, la morte può essere rubata. Può essere
sottratta alla persona direttamente chiamata a farne umana esperienza e a tutti
i suoi cari aventi diritto di commossa partecipazione.
La morte può essere rubata! È un
tentativo di furto bello e buono quello che in queste ore abbiamo vissuto io,
mio fratello… due uomini adulti, consapevoli e responsabili, cui il sistema
sanitario italiano, nella sua ristrettezza di vedute, ha tentato di sottrarre
la partecipazione composta e serena alla morte della propria madre.
La donna in questione avrebbe
compiuto tra pochi giorni novantun anni, vissuti tutti nella grazia della piena
salute, nella profonda autenticità del rapporto d’amore con il proprio marito e
nel raggiungimento di significativi successi familiari e sociali. Sarebbe
difficile immaginare una vita altrettanto piena e soddisfacente.
Questa donna, alcuni mesi or
sono, accusò il sanguinamento di un vecchio cavernoma al cervello che, agendo
sul sistema neurovegetativo, in pochissimo tempo aggredì le sue funzioni. Dopo
un minuzioso controllo in una costosa clinica privata, che scartò la
possibilità di un intervento chirurgico drammatico sia per l’età della paziente
che per la delicatezza oggettiva dell’intera operazione, nostra madre venne
portata in una casa di riposo di recente costituzione: signorile, discreta e,
soprattutto, molto umana. Il personale è gentile, accogliente, comprensivo…
anche se non del tutto rispondente alle normative vigenti. La loro umanità,
tuttavia, sembrava impagabile.
Dopo soli due mesi di degenza,
nostra madre però peggiora: il cavernoma continua a sanguinare e si espande da
12 a 15 mm. La non abitudine alla malattia, l’invecchiamento e l’affaticamento
naturale di tutti gli organi interni, la comprensiva angoscia di fronte
all’esperienza del trapasso imminente, più una serie di concause di difficile
individuazione fanno precipitare la situazione. La pressione della donna si
abbassa, viene a mancare l’apporto di sangue e di ossigeno a vari organi e il
cuore, in un tentativo naturale di compensazione, va in fibrillazione
rendendole difficile il respiro.
Da giorni parlavamo con nostra
madre per prepararla alla dipartita: le ricordavamo i suoi momenti più belli, i
viaggi fatti con nostro padre, le loro forti amicizie, gli affetti, lo stuolo
di nipoti, i suoi personali successi come donna di una generazione lontana anni
luce da quella attuale. Le anticipavamo l’imminente re-incontro con nostro
padre, la rassicuravamo sull’altra vita che presto avrebbe sperimentato e,
scherzosamente, la pregavamo di non scordarsi di darci i numeri buoni per una
straordinaria vincita al lotto.
Domenica 29 novembre ho un
impegno di lavoro. Mi da il cambio mio fratello che resta con nostra madre fino
al primo pomeriggio. Poi torna a casa. Io sono impegnato fino a tarda sera, ma
quando finalmente mi libero la situazione di nostra madre precipita. L’affanno
respiratorio mette in agitazione il personale della casa di riposo che,
spaventato da possibili responsabilità legali, preme per chiamare la guardia
medica. Quando il medico arriva, pur se bravo e competente, si lascia andare a
una serie di accuse nei confronti della casa di riposo, responsabile - a suo
avviso - di non aver dato l’allarme almeno un giorno prima, perché privo di
personale infermieristico competente.
Gentile ma rigido, il medico
esige che si chiami il 118. Mia madre sta solo morendo, con me vicino… ma
questo non è contemplato nella cura ossessiva della vita fisica.
È notte, non mangio da dieci ore,
sono stanco… e ho un cedimento di fronte all’arroganza dell’autorità medica. È
tutta colpa mia e così, senza rendermene chiaramente conto, entro in una
spirale di subdoli inganni. Nostra madre viene portata all’ospedale più vicino.
Lo so! Lo so benissimo… sono
senza personale, senza posti letto e senza attrezzature; i medici e tutto il
personale infermieristico fanno turni massacranti e straordinari, spesso senza
essere nemmeno pagati. E so anche che su mille persone, novecentonovantanove di
fronte alla possibile morte di una persona cara, esigono tutte le cure del caso
e il rinvio all’infinito dell’esito finale. E che quasi tutti sono pronti a
muovere guerra penale e civile contro chiunque non ottemperi con solerzia a
quelli che credono essere i loro sacrosanti diritti: il diritto alla vita “più
eterna possibile” e alle cure miracolose. Lo so: medici e infermieri vivono nel
terrore continuo di assurde denunce.
Tutto ciò, tuttavia, non dovrebbe
offuscare la loro più profonda umanità.
Non dovrebbe… ma questo purtroppo
accade.
E così, dopo ore di attesa in un
atrio del pronto soccorso – dove nessuno si perita di darmi la benché minima
informazione, ci mancherebbe altro – alla fine un medico solerte s’impegna
nell’accurata descrizione del circolo vizioso patologico nel quale è caduta
nostra madre. Il risultato è che, così in fibrillazione, non può essere
dimessa. Tuttavia, in reparto non ci sono letti disponibili… e non ce ne sono
in nessun altro ospedale del circondario, per cui nostra madre dovrà restare
parcheggiata lì, su una lettiga del pronto soccorso, mezza nuda, spaventata, con la luce
accesa in faccia, dove nessuna voce amica potrà esserle di conforto.
Alle tre di notte, inebetito dal
sonno, vengo pregato sgarbatamente, da una infermiera con il volto arcigno, di
lasciare la sala d'aspetto del pronto soccorso.
La mattina dopo ci rendiamo conto
di essere caduti in un girone infernale, fatto di paura, ipocrisia e totale
mancanza di umanità. L’ospedale non ha posti liberi, ma non vuole dimetterla in
quelle condizioni per paura di nostre possibili ritorsioni penali qualora,
dopo poche ore, nostra madre dovesse morire. Firmiamo noi l’uscita dal pronto
soccorso ma, con quel foglio, la casa di cura afferma di non poterla riprender
in carico, sempre per paura di ritorsioni penali. In casa non possiamo
portarla, perché non siamo organizzati con personale e strumenti adeguati.
Per alcune ore fronteggiamo la
follia di una cultura che è incapace di contemplare la morte e che,
paradossalmente, presume che i malati debbano morire sanati da qualunque male.
La malattia deve essere curata, sempre e comunque, a prescindere dall'avere i
luoghi, i tempi e il personale per poterlo fare. L’imperativo è categorico, e
indifferente all’abissale solitudine spirituale del malato, trattenuto come un
oggetto dismesso in luoghi desolati e desolanti, esposto all’indifferenza del
via vai affannato di un pronto soccorso sempre intasato.
Ma in quale civiltà viviamo?
In quale incivile civiltà si ha
così paura della morte da esorcizzarla in tutti i modi possibili immaginabili
e, in nome della vita, si offende e si ingiuria senza riguardo la dignità
morale di un essere umano? Quale vuoto interiore abita l’anima di questi
insulsi professionisti sanitari, medici e infermieri, il cui compito specifico
sembra essere solo quello di fare al meglio il proprio lavoro, come ligi
impiegatucci di un sistema che ha del tutto rimosso la precarietà della vita
umana? Quale ottusità si è impossessata di tutti noi che non sappiamo più
guardare, non dico occhi negli occhi, ma nemmeno di sfuggita il pallido volto
di Nostra Signora Morte?
Alla fine della nuova giornata,
mia moglie, battendosi come una furia contro l’insensibilità della segreteria
ospedaliera, riesce ad ottenere da un’anima pia un certificato di dimissione
“taroccato” e, con quello, riporta nostra madre nella casa di cura che “a
torto collo” l’accetta. Quando l’ambulanza la deposita sul suo letto, il
personale si accorge che all’uscita dall’ospedale le hanno lasciato il catetere
inserito. Fantastico paese l’Italia… Tanta accortezza burocratica… poca
professionalità, e assenza totale di anima. Che il Signore abbia pietà di tutti
voi, perché in questo momento a noi risulta difficile.
Nostra madre spira verso le 18,
in quella che da mesi considera la sua camera, tra le sue cose, dopo aver
salutato nipoti e pronipoti che sono venuti a salutarla, con le mani tra quelle
di mia cognata. Io e mio fratello arriviamo tardi, dal lavoro, ma con il
pensiero eravamo lì.
Nonostante tutto e contro tutti nostra
madre se ne è andata tranquilla, invitata e accolta nel nuovo mondo dall’unico
uomo che lei ha amato per tutta la vita.
Non ce l’avete rubata questa
morte, non siete stati all’altezza del vostro Padrone.
Gentile Piero, credo che la civiltà in cui viviamo sia una civiltà di morti che non sanno di esserlo. Morti nell'anima, che è molto peggio che morti nel fisico... E comunque condoglianze e complimenti per questo racconto davvero toccante! Grazie
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