Ieri sera sono voluto andare al
cinema per vedere “The Martian”,
tradotto in Italiano con “Sopravvissuto”.
Sapevo bene che mi sarei ritrovato a vedere un mediocre prodotto da
intrattenimento. Insomma: una di quelle piacevoli “americanate” che a Hollywood
riescono così bene e che, quando sei stanco o comunque non ti va di spremerti
le meningi, ti regalano un paio d’ore di relax. Lo ripeto: a occhio e croce potevo ben immaginare la qualità
del prodotto, ma ci sono andato lo stesso: Matt Damon, come attore, mi è sempre
piaciuto molto; l’avventura fantascientifica su Marte avrebbe potuto essere
interessante; sapevo, inoltre, che il film era stato girato in buona parte a
Wadi Rum, il deserto rosso nel quale avevo trascorso alcuni giorni stupendi
durante il mio viaggio in Siria e Giordania, nel lontano 2007… e mi faceva
piacere ritrovare quegli orizzonti.
Insomma… ero ben disposto, ma il
film mi ha deluso lo stesso. Soprattutto, però, mi ha annoiato (tempi lunghi e
lenti delle riprese, atteggiamento serafico del protagonista in una situazione
panica) e così, poco stimolato da quello che vedevo, mi sono messo a pensare.
Era proprio quello che non
volevo, ma non ho potuto fare altrimenti.
Perché, per la miliardesima
volta, mi sono trovato di fronte al solito messaggio che sempre traspare nelle
opere cinematografiche statunitensi, quando il protagonista rimane isolato in
un qualche territorio selvaggio o, meglio ancora, dietro le linee nemiche.
Perché è allora che tutti gli altri protagonisti del racconto, se non
addirittura tutto il popolo americano, viene afferrato e determinato da una
sola idea: “È uno di noi… non possiamo abbandonarlo… andiamo a prenderlo!”
Questo, ovviamente, perché il disperso è un americano. È uno di loro… e
l’America non è una madre da abbandonare i propri figli.
Ora, non voglio neanche
lontanamente entrare nel merito di quante volte il governo degli Stati Uniti
d’America abbia offerto prove evidenti d’ipocrisia a riguardo (si pensi al
Vietnam, tanto per dirne una). Quest’argomento non m’interessa. Piuttosto sono
interessato a penetrare nel cuore della comunicazione emotiva che, più o meno
di proposito, viene ogni volta riproposta.
Di fatto, il messaggio
subliminale che passa in molti documentari, commedie e, soprattutto, film
d’azione americani è sempre lo stesso: martellante, ossessivo, esaltato… una
sorta di coinvolgente: “Uno per tutti, tutti per uno”. Un messaggio neanche
troppo criptico ma, soprattutto, intenso, viscerale, entusiastico, eroico,
spesso sublime. E non importa, poi, se il proibitivo sistema della loro sanità
nazionale lasci morire con indifferenza qualunque cittadino non abbia soldi a
sufficienza per pagarsi un medico né tantomeno un ricovero ospedaliero. Non
importa se il neo-capitalismo finanziario cannibalico, che è l’anima nera del
“sogno americano”, è legittimato a gettare sul lastrico centinaia di lavoratori
dipendenti per favorire una “fusione” societaria utile solo agli azionisti. Non
importa il contrasto, ancora feroce, tra le diverse etnie che formano il
substrato di quell’immenso paese. Non importa l’efferata criminalità che
esplode improvvisa in tutti gli States.
Nulla importa della vita vera. Il retorico messaggio: “È uno di noi… andiamo a
salvarlo, costi quel che costi…” passa per il cuore e raggiunge le budella di
tutti i cittadini americani.
Ma non solo le loro. Mentirei se
non ammettessi il fascino che quello stesso messaggio ha sempre esercitato su
di me. Come negare il valore immenso rappresentato dall’idea, o meglio dal sentimento,
di appartenenza fraterna, di intima e solidale comunione con tutti gli altri,
di amicizia a prescindere, di aiuto e solidarietà? Sarà forse per il contrasto
rappresentato dalla cultura dell’Italia, il paese nel quale vivo, e che è
fondata sulla totale mancanza del più elementare senso civico,
sull’individualismo più gretto e sull’ostilità più feroce riservata a chiunque
esprima un parere diverso dal proprio. Sarà forse per il clima d’insicurezza e
apprensione creatosi in questi ultimi vent’anni di oscena politica, di mancanza
di lavoro, di abusi mafiosi, d’immigrazioni clandestine, di terrorismi vari…
Sarà per il fallimento evidente del grande sogno di una Europa Unita… non so,
sarà per questi e tanti altri motivi… Ma ho sempre avvertito il fascino del commovente
messaggio ripetuto come una ossessione compulsiva dall’industria
cinematografica hollywoodiana. Anche perché in America ci sono stato, almeno
tre volte, e ho dovuto riconoscere che quel messaggio è stato davvero ben
interiorizzato dal popolo americano. Nonostante tutte le sue evidenti
contraddizioni è presente e vivo nello sguardo orgoglioso delle persone comuni,
nell’aria che ovunque si respira e nello sventolio festoso di milioni di
bandierine a stelle e a strisce che adornano quasi ogni negozio, ogni casa,
ogni balcone, ogni giardino.
“Io amo il mio paese” è la frase
più scontata e retorica che si possa immaginare ma che, negli States, vive sovrana nell’anima e nel
cuore di tutti i cittadini, compresi quelli da poco acquisiti.
Se anche fosse stata abilmente
confezionata dalla vergognosa élite
che governa politicamente e finanziariamente il paese, bisognerebbe ammettere
che ha funzionato perfettamente. E che al di là del fatto di assicurare a tale élite un materiale umano pronto a
gettarsi in qualsiasi inferno, perché convinto di immolarsi per il bene del
proprio paese, resta però che il profondo sentimento di appartenenza alimenta e
guida gli intenti di ogni singolo individuo.
Perciò… lo ammetto: ho invidiato
spesso tale spirito di solidarietà, pur senza che questo desiderio di
emulazione m’impedisse di riconoscervi il volto del nostro Nemico Comune.
Perché cosa diavolo mai
significa, oggi, alle soglie del nuovo millennio, distinguersi come americano?
Così come italiano, o europeo, o arabo o cinese? Come diavolo si fa a dare
valore, dignità e significato al fatto puramente occasionale e fortuito di
essere nati in un territorio anziché in un altro? Quale sortilegio è stato
lanciato, e da chi, affinché anche le persone più colte e istruite siano divenute
del tutto incapaci di vedere oltre la punta del loro naso?
Perché dovrebbe essere evidente a
tutti che il corollario del messaggio americano: “È uno di noi… salviamolo e
riportiamolo a casa” è che quel povero soldato scomparso o avventuriero disperso
è meritevole di qualunque sforzo e sacrificio per il solo fatto di essere un
cittadino degli Stati Uniti… mentre tutti gli altri, ovviamente, no. Gli altri
sono persone qualsiasi di altre qualsiasi nazioni, alle quali non viene
riconosciuta alcuna dignità o valore. O, almeno, nessun valore paragonabile a
quello che avrebbero invece i cittadini degli Stati Uniti d’America. Tutti gli
altri sono semplici, odiosi nemici che piuttosto andrebbero sterminati, anche
solo perché probabilmente renderanno difficile il recupero del compagno
perduto. Sono nemici a prescindere! Per il semplice fatto di non essere
americani.
Eppure, dovrebbe essere evidente
a tutti gli uomini di libero pensiero che, quando si combatte una guerra
(militare ma anche scientifica o culturale), sia del tutto ovvio che ogni
combattente si illuda di essere dalla parte della ragione, altrimenti lo
scontro non ci sarebbe. Ma come la storia ha testimoniato più volte, non sempre
la Verità o la Giustizia o la Libertà sono stati rappresentati dai vincitori.
Anzi, più spesso è stato vero il contrario.
Come si fa a credere di essere
nel giusto o nella verità solo perché si è nati americani? Come si fa a credere
che la propria (discutibile) democrazia sia quella che vada imposta a tutto il
resto delle nazioni? Come si fa a presumere che essendo i più ricchi del mondo,
quelli in possesso della tecnologia scientifica più avanzata e dell’esercito
più agguerrito e preparato che si possa immaginare, per antonomasia si
rappresenti allora la migliore umanità possibile?
Piuttosto è vero il contrario,
perché le persone più evolute dovrebbero essere quelle in grado di riconoscere
il valore sacro rappresentato dalla Vita di ogni essere umano. Di qualunque
nazionalità, di qualunque colore, di qualunque religione esso sia.
Perché il nazionalismo – scrisse
una volta la nostra scrittrice Dacia Maraini – corre sul filo di rasoio del
razzismo, e la sacrosanta difesa anche estrema delle leggi, della religione e
della cultura che un popolo si è conquistato non ha nulla a che vedere con la
soprafazione degli altri e con la condanna della loro identità umana.
Anche perché, lo ripeto, le
migliaia di bambini che nascono ogni giorno non meriterebbero di essere
considerati americani, o cinesi, o arabi, o australiani, o europei. Così come
nel momento della nascita non dovrebbero essere considerati cristiani, o ebrei,
o buddhisti, o islamici o animisti bensì, appunto, solo bambini. Bambini che
acquisiranno un’identità culturale e religiosa secondo il condizionamento del
paese nel quale sono nati e del percorso interiore che intraprenderanno da
adulti.
La verità, difficile da
riconoscere e scomoda da digerire, è che tutti, indistintamente tutti quei
bambini “Sono uno di noi”. Come uomini, infatti, condividiamo lo stesso
identico destino, tutti abitiamo questo stesso identico pianeta, che a tutti
appartiene e a nessuno nello stesso tempo… e tutti nasciamo, cresciamo, amiamo,
soffriamo e infine moriamo, portando nel mondo dello spirito il valore della
vita che abbiamo vissuto.
Non credo che dall’altra parte
Qualcuno ci chiederà il passaporto, o che vorrà sapere se siamo stati italiani,
o messicani, o giapponesi, o africani. Al contrario, se è vero quello che hanno
sempre insegnato i grandi saggi di ogni tempo e di ogni luogo, ci chiederanno
soltanto: “Quanto avete amato?” E dalla risposta dipenderà il nostro futuro
destino.
Perciò, quando mi commuovo
sentendo gli attori americani recitare: “Io amo il mio paese!” oppure: “È uno
di noi, non possiamo abbandonarlo, andiamo a prenderlo!” mi chiedo quanto mi
commuoverei di più se tutti, ma proprio tutti potessimo un giorno dire: “Io amo
la Terra, amo questo nostro bellissimo Pianeta!” e ancora: “Siamo tutti uomini,
siamo tutti fratelli, anche se molto diversi gli uni dagli altri… diamoci una
mano… salviamoci!
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