venerdì 17 settembre 2010

Rubrica di storie cliniche


Perché raccontare storie di dolore e sofferenza? Perché divulgare segreti intimi e dinamiche perverse che tutti ci sforziamo di occultare, molto spesso addirittura a noi stessi? Perché esporre ferite, tradimenti, mancanze d’amore, egoismi, violenze subite o perpetrate? Perché svelare “l’umano, troppo umano” e rendere visibile l’invisibile?
La risposta generica che esiste una vera e propria tradizione in tal senso e che molti psicanalisti – spinti da impulsi accademici o letterari – hanno spesso divulgato le “storie” che sono loro sembrate più significative, non mi aveva mai accontento. Perciò, prima di creare questa rubrica, mi sono posto di nuovo la domanda e la risposta che mi sono dato, alla fine, è stata duplice: di sicuro c’era il mio piacere di scrivere e raccontare. E, forse, anche una malcelata frustrazione del desiderio di potermi dedicare a tempo pieno a questo piacere… Ma, soprattutto, c’era la voglia di condividere con tutte le persone sensibili lo stupore, la meraviglia o la commozione dalle quali spesso vengo afferrato nell’esercizio della mia professione. Quando divenni terapeuta, infatti, e mi affacciai per le prime volte sul mondo dell’anima umana, scoprii paesaggi inusitati, sconcertanti, affascinanti e terribili nello stesso tempo. Ne rimasi stregato. Fu allora che promisi a me stesso che avrei smesso di esercitare non appena avessi finito di meravigliarmi. Sono passati 35 anni ma la meraviglia non ha ancora smesso di travolgermi, quasi ogni giorno: tutte le volte che un uomo o una donna mi giudicano degno di essere testimone della loro storia più intima. Perché ogni volta, nonostante i lunghi anni di attività, nonostante la ripetitività sempre uguale delle dinamiche psichiche, ogni volta vengo sorpreso dalla imprevedibilità e dalla originalità con cui questi motivi si dispiegano nel vissuto privato di ogni singola individualità. E poi: quanto dolore! Quanti sforzi titanici! Quanto coraggio! Quanto amore profuso e quanto amore sprecato…
Io non guardo la televisione e leggo poco i giornali. Il motivo per cui mi disinteresso di tutto ciò, al di là dei tanti facili luoghi comuni, il motivo vero è che sono oramai assuefatto ad una visione così profonda della realtà umana che tutto il resto, in confronto, mi sembra superficiale, ingenuo e decisamente sciocco. Povera cosa se paragonato all’intensità e alla violenza delle forze da cui dipendono i destini individuali e la cui estrosità, ancora oggi, mi stupisce e mi commuove.
Per tutto ciò vogliate leggere questa rubrica come un dono generoso che uomini e donne sconosciuti, attraverso di me, hanno voluto lasciarvi. I loro dati personali – genere, età, nomi e cognomi, professioni – sono stati da me tutti alterati per proteggere le loro identità, ma le storie sono assolutamente vere. Semmai, certi meccanismi psicodinamici potranno sembrare meno straordinari ed incredibili di come in realtà si sono manifestati. Ma posso assicurare che la responsabilità è dovuta, in parte, all’artefazione dei dati biografici e alla necessità dell’estrema sintesi in cui ogni volta ho dovuto costringere gli eventi di una intera vita; e in parte invece alla mia imperizia. Ne chiedo scusa. Ma è doveroso a questo punto riconoscere che per quanto uno scrittore dilettante come me si possa sforzare, difficilmente potrebbe competere con la saggezza, l’originalità e l’accuratezza con cui la Vita ricama il destino di ogni essere umano sull’ordito del mondo. Mi resta tuttavia la speranza che quanto mi sforzerò di riportare, in un qualche modo, possa comunque riuscire ad incuriosire e a stimolare. Perché leggere queste storie, per molte persone, potrebbe essere un’occasione unica per comprendere che le proprie personali vicende non sono poi così anomale, vergognose o perverse come magari hanno sempre creduto, ma solo leggermente diverse da quelle di tanti altri. E che se molti di questi “altri” sono riusciti a superare le proprie difficoltà, non è detto che un giorno, anche loro, non potranno superare le proprie.






La domanda nascosta


Tutti coloro che superando le proprie resistente decidono di rivolgersi ad un terapeuta, in genere arrivano alla prima ora con una precisa domanda. Tuttavia, la domanda con la quale di solito si presentano difficilmente è quella autentica. La domanda profonda, quella vera, la domanda straziante che grida la propria urgenza e chiede di essere ascoltata e risolta, quasi sempre è nascosta nei meandri del loro inconscio e occorre molta pazienza da parte di un terapeuta per riuscire a farla emergere.
Quando il dottor Mario Rossi, 49 anni, medico ortopedico in uno dei tanti ospedali di Roma, si presentò al mio studio, erano già due anni che viveva separato dalla propria moglie. Una donna che, dopo averlo tradito ripetutamente durante i 22 anni di matrimonio, lo aveva infine lasciato per andare a convivere con un uomo molto più anziano di lei, volgare e violento. Un uomo – raccontava lei stessa all’ex-marito con lunghe telefonate e patetiche mail – del quale non si sentiva certo innamorata ma, piuttosto, irresistibilmente attratta. Un uomo meschino e crudele che, tuttavia, sembrava trattenerla in una sorta di incantesimo dal quale lei non riusciva a liberarsi.
Perciò, quando il dottor Rossi si sedette sulla poltrona del mio studio ed ebbe esposto in maniera sommaria questa loro problematica situazione, la sua prima domanda fu:
- Cosa posso fare per aiutare mia moglie? Io la amo tantissimo… Al punto che, se fossi sicuro che ora è davvero felice, mi tirerei volentieri da parte. Ma non credo affatto che lei sia felice. Cosa posso fare? Come posso farle comprendere che, oltre ad aver rovinato il nostro matrimonio, Maria sta soprattutto rovinando la propria vita futura?
In effetti il dottor Mario Rossi, seduto davanti a me, almeno in quella prima ora, non manifestava rancore, gelosia o desiderio alcuno di vendetta… solo un immenso, infinito dolore. Davvero voleva essere aiutato ad aiutare la propria moglie? Davvero voleva solo la felicità di quella donna e sarebbe stato pronto a sacrificarle i propri sentimenti? Mi sembrava poco probabile.
Ci accordammo comunque per iniziare un percorso psicoterapico. Durante le prime quattro o cinque sedute successive ebbi modo di conoscere la sua storia pregressa e scoprire così la domanda segreta che si agitava nella sua anima e che lo aveva condotto nel mio studio.
Mario era stato il primo figlio di una coppia romana benestante la quale però, dopo averlo avuto, non sembrava troppo desiderosa di ulteriori esperienze genitoriali. Dunque, fu solo per un “incidente” amoroso che, all’improvviso, quando Mario aveva oramai già sette anni, gli fu annunciato l’arrivo di una sorellina. Il bambino, tuttavia, fu preparato con cura all’evento e invitato ad essere amorevole e responsabile nei confronti di colei che presto sarebbe arrivata.
Il parto, stando ai ricordi del mio paziente, fu del tutto normale; la sorellina si presentò al mondo sana, vispa e bella; e i genitori di Mario, tutto sommato, sembrarono felici di rimboccarsi le maniche e ricominciare tutto da capo, con i ciucci, le ninne-nanne, i biberon e i pannolini sporchi.
La bambina, però, fin dai primissimi tempi, manifestò una notevole difficoltà di adattamento: dormiva poco, piangeva spesso e accusava malesseri di tutti i tipi. In casa non si era mai tranquilli. Gli anni passavano, la piccola cresceva ma le cose non cambiavano: una sorta di malsana sensibilità sembrava perseguitarla, impedendole di interpretare la vita con quella leggerezza che sempre dovrebbe caratterizzare l’infanzia.
La vita familiare, comunque, procedeva.
Quando Mario aveva da poco compiuto i 15 anni e frequentava il primo ginnasio, un grave lutto si abbatté sulla famiglia: nel giro di pochi mesi la madre morì di leucemia. E la sorellina, che ne aveva solo 8 e – come abbiamo visto - manifestava un carattere già molto instabile, a seguito dell’evento peggiorò visibilmente. Mario, pur frequentando la scuola e risultando sempre tra i primi della classe, si faceva in quattro per la sorella senza tuttavia riuscire a tranquillizzarla più di tanto. Dopo alcuni anni il padre, incapace o, forse, impossibilitato a prendersene cura nei modi e nei tempi che a lei sarebbero serviti, pensò bene di metterla in un collegio. Fu in questo ambiente che maturò il destino già tormentato e inquieto della sorella di Mario; fughe rocambolesche, punizioni disciplinari. Atti provocatori e ribelli, altre drastiche punizioni. Ancora fughe… punizioni sempre più severe, in una escalation che non sembrava poter mai più terminare. Mario, pur continuando a studiare, si disperava per il destino della sorella e tentava perciò con frequentissime telefonate e visite continue di farle sentire la propria vicinanza.
Passarono altri anni. Mario si iscrisse e frequentò la facoltà di medicina. La sorella uscì dal collegio, cominciò a frequentare il liceo artistico e – ancor giovanissima – si gettò in una vita dissoluta di precoci rapporti sessuali e droghe di ogni tipo. Il rapporto tra i due fratelli, tuttavia, era fortissimo.
Mario aveva da poco compiuto i 26 anni quando riuscì a specializzarsi in ortopedia.
“Ora, finalmente, avrò più tempo da dedicare a mia sorella – pensò Mario in quella occasione – Le cose si sistemeranno e anche lei troverà la sua strada”
Si potrebbe dire che non fece in tempo neppure a pensarlo: la giovane, dopo la partecipazione ad un rave scatenato, morì improvvisamente per overdose da eroina. Lo shock, per Mario, fu terribile. Forse peggiore di quello vissuto per la morte della propria madre.
La vita però deve sempre continuare. Comunque. In un modo o nell’altro… Dopo un paio di anni il promettente e giovane medico incontrò una giornalista freelance… intraprendente, anticonformista e… molto bella. Fu subito amore. Dopo pochissimo si sposarono. Per un po’ di tempo vissero felici e contenti. La giovane giornalista si ricavò un posticino nel mondo dello sport e, per lavoro, cominciò a viaggiare per tutta l’Italia. A volte si assentava per due o tre giorni… ma presto Mario cominciò a sospettare che quelle assenze non fossero così innocenti. O, almeno, non solo. Nel giro di qualche anno i sospetti divennero certezze: la moglie lo tradiva. Ripetutamente. Con uomini sempre diversi. Cominciò così il nuovo calvario di Mario: quello di riportare la moglie sulla retta via. Mettendo da parte il proprio orgoglio ferito, la propria gelosia, la propria rabbia… provando in tutti i modi ad aiutare la giovane moglie a trovare una dimensione di autenticità e di possibile felicità. Vissero così per più di dieci anni, fino al giorno in cui la donna trovò un uomo il cui atteggiamento, in un qualche misterioso modo, si incastrò con la di lei nevrosi, inducendola ad abbandonare il marito e a seguirlo per un diverso destino.
Quando il dottor Rossi arrivò a questo punto del suo racconto, mi guardò in silenzio per alcuni minuti… Poi, con gli occhi umidi di lacrime mal trattenute, mi chiese:
- Lei crede che io mi senta in colpa per la morte di mia sorella, vero? E che attraverso la storia con mia moglie, la cui nevrosi, per certi versi, ricorda quella di mia sorella, io stia percorrendo una medesima esperienza di salvazione… forse cercando un riscatto impossibile?
Il suo viso era una maschera di dolore. Dolore allo stato puro.
- Si – risposi commosso – questo è esattamente quello che sospetto.
- Mi crede dottore? Fino a pochi istanti fa non avrei neppure immaginato una cosa del genere.
- Ne sono convinto, non si preoccupi. Altrimenti oggi lei non sarebbe qui.
Fu in questo modo che il dottor Rossi vide emergere del tutto spontaneamente la sua vera domanda dagli abissi dell’anima: sono forse colpevole della morte di mia sorella? Avrei potuto aiutarla più di quanto abbia fatto? E se non lo sono, è giusto che io abbandoni la mia ex-moglie al suo destino dopo tutto quello che ho sopportato e fatto per lei senza mai ricevere riconoscimento alcuno?
Giunti a questo punto, la sua analisi prometteva davvero bene: la parte più difficile (il distacco reale dalla moglie e la possibilità di cominciare una nuova vita) era ancora tutta da sviluppare. Ma l’ostacolo più grosso, quello rappresentato dalla presa di coscienza dei motivi inconsci che fino a quel momento lo avevano profondamente condizionato, era stato superato.
C’era di che sperare!

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