giovedì 22 ottobre 2015

Al cuore dell'imperialismo americano

Ieri sera sono voluto andare al cinema per vedere “The Martian”, tradotto in Italiano con “Sopravvissuto”. Sapevo bene che mi sarei ritrovato a vedere un mediocre prodotto da intrattenimento. Insomma: una di quelle piacevoli “americanate” che a Hollywood riescono così bene e che, quando sei stanco o comunque non ti va di spremerti le meningi, ti regalano un paio d’ore di relax.  Lo ripeto: a occhio e croce potevo ben immaginare la qualità del prodotto, ma ci sono andato lo stesso: Matt Damon, come attore, mi è sempre piaciuto molto; l’avventura fantascientifica su Marte avrebbe potuto essere interessante; sapevo, inoltre, che il film era stato girato in buona parte a Wadi Rum, il deserto rosso nel quale avevo trascorso alcuni giorni stupendi durante il mio viaggio in Siria e Giordania, nel lontano 2007… e mi faceva piacere ritrovare quegli orizzonti.
Insomma… ero ben disposto, ma il film mi ha deluso lo stesso. Soprattutto, però, mi ha annoiato (tempi lunghi e lenti delle riprese, atteggiamento serafico del protagonista in una situazione panica) e così, poco stimolato da quello che vedevo, mi sono messo a pensare.
Era proprio quello che non volevo, ma non ho potuto fare altrimenti.
Perché, per la miliardesima volta, mi sono trovato di fronte al solito messaggio che sempre traspare nelle opere cinematografiche statunitensi, quando il protagonista rimane isolato in un qualche territorio selvaggio o, meglio ancora, dietro le linee nemiche. Perché è allora che tutti gli altri protagonisti del racconto, se non addirittura tutto il popolo americano, viene afferrato e determinato da una sola idea: “È uno di noi… non possiamo abbandonarlo… andiamo a prenderlo!” Questo, ovviamente, perché il disperso è un americano. È uno di loro… e l’America non è una madre da abbandonare i propri figli.
Ora, non voglio neanche lontanamente entrare nel merito di quante volte il governo degli Stati Uniti d’America abbia offerto prove evidenti d’ipocrisia a riguardo (si pensi al Vietnam, tanto per dirne una). Quest’argomento non m’interessa. Piuttosto sono interessato a penetrare nel cuore della comunicazione emotiva che, più o meno di proposito, viene ogni volta riproposta.
Di fatto, il messaggio subliminale che passa in molti documentari, commedie e, soprattutto, film d’azione americani è sempre lo stesso: martellante, ossessivo, esaltato… una sorta di coinvolgente: “Uno per tutti, tutti per uno”. Un messaggio neanche troppo criptico ma, soprattutto, intenso, viscerale, entusiastico, eroico, spesso sublime. E non importa, poi, se il proibitivo sistema della loro sanità nazionale lasci morire con indifferenza qualunque cittadino non abbia soldi a sufficienza per pagarsi un medico né tantomeno un ricovero ospedaliero. Non importa se il neo-capitalismo finanziario cannibalico, che è l’anima nera del “sogno americano”, è legittimato a gettare sul lastrico centinaia di lavoratori dipendenti per favorire una “fusione” societaria utile solo agli azionisti. Non importa il contrasto, ancora feroce, tra le diverse etnie che formano il substrato di quell’immenso paese. Non importa l’efferata criminalità che esplode improvvisa in tutti gli States. Nulla importa della vita vera. Il retorico messaggio: “È uno di noi… andiamo a salvarlo, costi quel che costi…” passa per il cuore e raggiunge le budella di tutti i cittadini americani.
Ma non solo le loro. Mentirei se non ammettessi il fascino che quello stesso messaggio ha sempre esercitato su di me. Come negare il valore immenso rappresentato dall’idea, o meglio dal sentimento, di appartenenza fraterna, di intima e solidale comunione con tutti gli altri, di amicizia a prescindere, di aiuto e solidarietà? Sarà forse per il contrasto rappresentato dalla cultura dell’Italia, il paese nel quale vivo, e che è fondata sulla totale mancanza del più elementare senso civico, sull’individualismo più gretto e sull’ostilità più feroce riservata a chiunque esprima un parere diverso dal proprio. Sarà forse per il clima d’insicurezza e apprensione creatosi in questi ultimi vent’anni di oscena politica, di mancanza di lavoro, di abusi mafiosi, d’immigrazioni clandestine, di terrorismi vari… Sarà per il fallimento evidente del grande sogno di una Europa Unita… non so, sarà per questi e tanti altri motivi… Ma ho sempre avvertito il fascino del commovente messaggio ripetuto come una ossessione compulsiva dall’industria cinematografica hollywoodiana. Anche perché in America ci sono stato, almeno tre volte, e ho dovuto riconoscere che quel messaggio è stato davvero ben interiorizzato dal popolo americano. Nonostante tutte le sue evidenti contraddizioni è presente e vivo nello sguardo orgoglioso delle persone comuni, nell’aria che ovunque si respira e nello sventolio festoso di milioni di bandierine a stelle e a strisce che adornano quasi ogni negozio, ogni casa, ogni balcone, ogni giardino.
“Io amo il mio paese” è la frase più scontata e retorica che si possa immaginare ma che, negli States, vive sovrana nell’anima e nel cuore di tutti i cittadini, compresi quelli da poco acquisiti.
Se anche fosse stata abilmente confezionata dalla vergognosa élite che governa politicamente e finanziariamente il paese, bisognerebbe ammettere che ha funzionato perfettamente. E che al di là del fatto di assicurare a tale élite un materiale umano pronto a gettarsi in qualsiasi inferno, perché convinto di immolarsi per il bene del proprio paese, resta però che il profondo sentimento di appartenenza alimenta e guida gli intenti di ogni singolo individuo.
Perciò… lo ammetto: ho invidiato spesso tale spirito di solidarietà, pur senza che questo desiderio di emulazione m’impedisse di riconoscervi il volto del nostro Nemico Comune.
Perché cosa diavolo mai significa, oggi, alle soglie del nuovo millennio, distinguersi come americano? Così come italiano, o europeo, o arabo o cinese? Come diavolo si fa a dare valore, dignità e significato al fatto puramente occasionale e fortuito di essere nati in un territorio anziché in un altro? Quale sortilegio è stato lanciato, e da chi, affinché anche le persone più colte e istruite siano divenute del tutto incapaci di vedere oltre la punta del loro naso?
Perché dovrebbe essere evidente a tutti che il corollario del messaggio americano: “È uno di noi… salviamolo e riportiamolo a casa” è che quel povero soldato scomparso o avventuriero disperso è meritevole di qualunque sforzo e sacrificio per il solo fatto di essere un cittadino degli Stati Uniti… mentre tutti gli altri, ovviamente, no. Gli altri sono persone qualsiasi di altre qualsiasi nazioni, alle quali non viene riconosciuta alcuna dignità o valore. O, almeno, nessun valore paragonabile a quello che avrebbero invece i cittadini degli Stati Uniti d’America. Tutti gli altri sono semplici, odiosi nemici che piuttosto andrebbero sterminati, anche solo perché probabilmente renderanno difficile il recupero del compagno perduto. Sono nemici a prescindere! Per il semplice fatto di non essere americani.
Eppure, dovrebbe essere evidente a tutti gli uomini di libero pensiero che, quando si combatte una guerra (militare ma anche scientifica o culturale), sia del tutto ovvio che ogni combattente si illuda di essere dalla parte della ragione, altrimenti lo scontro non ci sarebbe. Ma come la storia ha testimoniato più volte, non sempre la Verità o la Giustizia o la Libertà sono stati rappresentati dai vincitori. Anzi, più spesso è stato vero il contrario.
Come si fa a credere di essere nel giusto o nella verità solo perché si è nati americani? Come si fa a credere che la propria (discutibile) democrazia sia quella che vada imposta a tutto il resto delle nazioni? Come si fa a presumere che essendo i più ricchi del mondo, quelli in possesso della tecnologia scientifica più avanzata e dell’esercito più agguerrito e preparato che si possa immaginare, per antonomasia si rappresenti allora la migliore umanità possibile?
Piuttosto è vero il contrario, perché le persone più evolute dovrebbero essere quelle in grado di riconoscere il valore sacro rappresentato dalla Vita di ogni essere umano. Di qualunque nazionalità, di qualunque colore, di qualunque religione esso sia.
Perché il nazionalismo – scrisse una volta la nostra scrittrice Dacia Maraini – corre sul filo di rasoio del razzismo, e la sacrosanta difesa anche estrema delle leggi, della religione e della cultura che un popolo si è conquistato non ha nulla a che vedere con la soprafazione degli altri e con la condanna della loro identità umana.
Anche perché, lo ripeto, le migliaia di bambini che nascono ogni giorno non meriterebbero di essere considerati americani, o cinesi, o arabi, o australiani, o europei. Così come nel momento della nascita non dovrebbero essere considerati cristiani, o ebrei, o buddhisti, o islamici o animisti bensì, appunto, solo bambini. Bambini che acquisiranno un’identità culturale e religiosa secondo il condizionamento del paese nel quale sono nati e del percorso interiore che intraprenderanno da adulti.
La verità, difficile da riconoscere e scomoda da digerire, è che tutti, indistintamente tutti quei bambini “Sono uno di noi”. Come uomini, infatti, condividiamo lo stesso identico destino, tutti abitiamo questo stesso identico pianeta, che a tutti appartiene e a nessuno nello stesso tempo… e tutti nasciamo, cresciamo, amiamo, soffriamo e infine moriamo, portando nel mondo dello spirito il valore della vita che abbiamo vissuto.
Non credo che dall’altra parte Qualcuno ci chiederà il passaporto, o che vorrà sapere se siamo stati italiani, o messicani, o giapponesi, o africani. Al contrario, se è vero quello che hanno sempre insegnato i grandi saggi di ogni tempo e di ogni luogo, ci chiederanno soltanto: “Quanto avete amato?” E dalla risposta dipenderà il nostro futuro destino.

Perciò, quando mi commuovo sentendo gli attori americani recitare: “Io amo il mio paese!” oppure: “È uno di noi, non possiamo abbandonarlo, andiamo a prenderlo!” mi chiedo quanto mi commuoverei di più se tutti, ma proprio tutti potessimo un giorno dire: “Io amo la Terra, amo questo nostro bellissimo Pianeta!” e ancora: “Siamo tutti uomini, siamo tutti fratelli, anche se molto diversi gli uni dagli altri… diamoci una mano… salviamoci!

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